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Creato da: trabor il 06/09/2007
parla dei problemi di Venezia sia storici che attuali

 

 

Il portatore di luce

Post n°5 pubblicato il 15 Settembre 2007 da trabor

 

Senza incontrare ostacoli, una nebbia densa e grigia saliva piano e copriva dolcemente ogni cosa. Un buio umido avvolgeva, quella notte, una cupa serie di vecchi edifici in rovina, capannoni e fabbriche in disuso, che all’età d’oro del miracolo economico, furono l’emblema del nostro benessere. Un corso d’acqua, che era stato un fiume e poi divenuto poco più d’un sudicio canale di scolo, come lo Stige attraversava l’area rendendo ancor più tetro, squallido e malsano l’ambiente circostante.

Giovannino si trovò a girovagare in quella sala d’attesa per l’inferno, e non capiva come caspita ci fosse arrivato. Aveva camminato a testa bassa dalla città assorto ai casi suoi - pensando alla vita che prima lo vide ricco e famoso ed ora un barbone senza famiglia - e a quel punto della notte era venuto a trovarsi nella periferia della periferia industriale che, appena alzò lo sguardo, ne restò stupefatto. Attorno a lui non c’era anima viva all’infuori di una ragazza giunta dal paese più povero del Mondo, in piedi ai bordi della strada: in mancanza di altra mercanzia vendeva sé stessa, davanti ad una fiamma ardente che aveva appena preparato perché, pensava, è meglio accendere un piccolo fuoco che maledire l’oscurità. Giovannino la salutò con un cenno del capo, lei ricambiò e lo vide scomparire nel buio. E qui, proprio qui, l’uomo, d’un tratto, incontrò il nulla davanti a sé, quasi che ogni oggetto ed ogni forma fossero diabolicamente svaniti: la strada, salendo leggermente, s’arrestava sull’argine del fiume. E non c’erano ponti.

Fu in tal posto terribile, ch’ebbe l’orrenda visione….

A prima vista pensò che si trattasse di un albero secolare, tanta era la sua imponenza poi, pian piano s’accorse con raccapriccio che quella figura nell’oscurità si muoveva. Vi si ritrovò vicino, anzi di sotto. Gli occhi ebbero un tremito alla vista di quella faccia, quel muso orripilante, cornuto e pieno di butteri, viscido, di quel corpo mostruosamente grandioso e deforme, puzzolente, pieno di gobbe e di asimmetrie che terminava con piedi forcuti.

Satana” – gridò subito. E il demone (che era lì a cercare qualche anima) gli fu quasi grato di esser stato riconosciuto.

L’angelo magnifico, il più bello del paradiso, il portatore di luce…” proseguì, ed il maligno ne fu un po’ inorgoglito.

Anche se la lingua pareva paralizzata, Giovannino riuscì a chiedergli: “Ma perché?...perchè? (forse è questa la domanda che l’umanità si pone dall’inizio dei millenni), perché è andata così? Oh, Se tu fossi rimasto un angelo questo mondo sarebbe ancora un mondo meraviglioso.

la vita potrebbe essere più bella di quanto immaginiamo”

Sono io…io la colpa di tutto – rispose belzebù ergendosi ancor più sopra – è colpa mia, dell’odio, della rabbia e dell’ invidia che io vi ho inculcato se ci sono guerre, massacri, stupri, stragi e disgrazie, bombe e bimbi senza gambe.”

E la mia miseria – continuò Giovannino – il mio matrimonio fallito, gli amici, il lavoro e i figli che non ci sono più, tutta colpa tua.” “Sì, sì, sì…e la prostata, i debiti, le tangenti, il mal francese e l’impotenza e l’accaivù, e ti spaccherai la schiena con fatica, e partorirai con dolore e i parenti che ti odiano e la polizia che ti arresta se rubi in banca e le banche che rubano tutto e il governo le sovvenziona, e quello che tira un calcio al pallone si becca un miliardo e tu che non hai da pagare le bollette… è tutto colpa mia, mia, mia…e-come-ne-sono-contento.” L’aria intorno era una mala aria, mefitica, pesante, putrida e irrespirabile, carica di malignità, piena di demonio.

Ma Giovannino sorrideva con aria felice. Tanto felice che lucifero ne fu assai infastidito.

Per l’anima dei tuoi morti. Che hai, ora, da sogghignare?”

No, no, nulla signor principe dell’oltretomba….”

Imbecille di un mortale, che mi prendi forse in giro? Perchè non sei terrorizzato, non ti prostri e non fuggi?”

E’ che vede, caro signor maligno, non è facile da spiegare”

Ma spiegare che cosa, razza di cretino idiota?”

Vede…oggi ho saputo che lei esiste. E la sua esistenza, rispettabile signore delle tenebre, dimostra e certifica in maniera inequivocabile, matematica l’esistenza del Salvatore, Dio di misericordia. E ciò mi rende felice, perché in questo periodo, con tutto le rogne che mi sono capitate, non credevo più a nulla, avevo perso la fede. Ora, grazie a lei, l’ho ritrovata.” Come ringiovanito, tornò sui suoi passi correndo leggero. Andò in giro ridendo e gridando a tutti la sua gioia. Rincontrò la ragazza straniera, le porse la buona novella e lei ne gioì, pur non avendo mai dubitato che Dio c’è. Il cielo si stava lentamente rischiarando e la nebbia fuggiva impazzita. L’aria era frizzante. L’atmosfera, stavolta, era piena di Dio. Il diavolo, alto nella sua dignità, continuò ad osservare la scena, muto: l’astuzia del demonio, lo sappiamo, è di far credere che non esiste. Nel suo muso orribile e maledetto si sarebbe potuto scorgere (per chi avesse avuto il coraggio di guardarlo), una certa ruga - che contrastava, stavolta, con la sua proverbiale furbizia - un’espressione stranita, indefinibile. Pareva quasi, la sua, una faccia da fesso.

 
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VERONICA

Post n°4 pubblicato il 11 Settembre 2007 da trabor


E’ difficile spiegare quanto piaccia la montagna a noi che viviamo in questa torbida laguna.
Chi non è abituato ad aggirarsi, fin da bambino, tra callette e campielli, campanili, canali e canneti, galleggiando come un turacciolo di sughero su stranissime imbarcazioni, affrontando spesso vapori di umidità, non può capire come gioisca il nostro cuore al primo soffio di bora: allora il cielo si fa azzurro e si scorgono in lontananza, ai margini della laguna, dapprima le colline, dopo le altissime montagne - spesso imbiancate - poi, verso Nord, le cime maestose delle dolomiti. Splende la luce ed il mare diventa limpido, tanto che, questa città fatta di isole, appare come un arcipelago in un lago incantato.
Quando eravamo adolescenti, io ed i miei amici non perdevamo occasione di avvicinarci a quelle montagne, magari in sella a biciclette scassate o sopra vecchi motorini.
Le prime volte ci fermavamo nei boschi che coprono le colline, ed era già, per noi, come stare in un altro mondo poi, crescendo, ci avventuravamo in alto, sempre più su.
Fu così che un giorno, quando avevo già sedici anni, incontrai Veronica, l’amore della mia vita.
Viveva lì, sopra i mille metri e parlava quasi come una tedesca; ai piedi delle alte rocce, stava con la sua famiglia, in una casa che sembrava disegnata dall’ ingenuità di un bambino: un tetto grande e rosso, le pareti di legno scuro, tanti alberi attorno e, appena fuori, il recinto per gli animali.
 Che differenza dal mio mondo…dalle case di marmo colorato e d’Istria che si specchiano nell’acqua.
La amai subito, già nell’intravederla, con quel suo corpo un po’ robusto e quei capelli come il grano.
Era molto timida, ma con me trovò subito il coraggio di parlare, di scherzare e non mi considerò, come facevano gli altri montanari, il solito veneziano ladro di frutta, calpestatore di erba, figlio di una pantegana.
Fu un innocuo bacio che le diedi, tra il lobo e la nuca, che sancì definitivamente - come si usava allora -­ il nostro fidanzamento. 
E lì iniziarono le mie lunghe odissee.
La strada tra lei e me, all’epoca, era distante come la luna … , ma ciò non mi spaventava, perchè gli uomini, sulla luna, ci erano stati proprio in quei giorni per la prima volta ed il mio amore era così intenso ( come lo era la fiducia dell’umanità verso il futuro) , che per lei avrei anche attraversato, se fosse stato necessario, l’intero Universo.
Andavo a trovarla molto spesso, la mia Veronica, e con ogni mezzo. Mi baciava come si bacia il primo amore e ripeteva sempre che i nostri figli avranno il naso come le rocce e gli occhi color laguna.
Una volta ci andai con il Guzzi galletto, che rombava come un temporale quando si inerpicava tra i tornanti del Cadore. In un giorno di novembre mi avventurai in sella ad un “ciao”, che Dio solo sa come aveva fatto a non scoppiare a metà strada. In vista dell’Ampezzo erano iniziati, lenti, i primi fiocchi. Giunsi a casa di lei quando ogni cosa lì intorno era imbiancata; un mondo seppellito sotto un manto di neve per tutta l’eternità dell’inverno.
Fu, allora,  la prima volta che potei dormire a casa sua. Anzi, i suoi genitori mi permisero di passare la nottata nel recinto con gli animali. Quella notte, guardando verso l’alto, vidi brillare un cielo stracarico di stelle vibranti e capii che era stato creato per me poiché il mio amore era lì a portata di mano, anche se non lo avrei potuto toccare. Non ero mai stato, lo giuro, così vicino alla felicità
 Poi tutto cambiò. Qualcuno iniziò a costruire nuove vie, sempre più moderne. Una superstrada, partendo dolcemente dalle pianure, iniziava a salire piano tra lunghi tunnel ed era destinata ad inerpicarsi in arditissimi viadotti, di cui si scorgevano i piloni in costruzione: solo a vederli ti si mozzava il fiato; tra valli e boschi, poi, sarebbe dovuta giungere ai monti. Ai nostri giorni, ormai,  non servono più tante fatiche e tanto tempo: basta un’ora per arrivare dalla laguna alla montagna. Anzi, con le nuove e potenti automobili, si va via dritti, che non occorre nemmeno sfiorare il volante e, in pochi minuti, si toccan le rocce.
Mah…hanno speso denari e fatica per tutti questi nuovi prodigi della tecnica, han lavorato con sudore e rischio per tanti e tanti anni per rendere il mondo più piccolo e più vicino; tutti a tribolare, operai e carpentieri e tecnici ed ingegneri, ma inutilmente: “a cosa serve, tutto ciò? A nulla amore mio tanto, ormai, tu starai sempre qui vicina a me, nel nostro grande letto.”
E i nostri figli, adesso viaggiano su altre strade.

 
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il battello delle nebbie

Post n°3 pubblicato il 10 Settembre 2007 da trabor

Già da cinquant’anni Gigio girava sul numero uno, ma ciò che successe quel giorno mai era accaduto. Si stenta a crederlo e forse neanche voi ci crederete.
 Era una normale giornata di sole e il numero uno partiva dal capolinea di Piazzale Roma per attraversare, facendo tutte le fermate, la più bella strada al mondo che possa essere percorsa da un mezzo pubblico.
Dentro c’era Gigio, come sempre, e quel giorno era salito a bordo anche suo cognato Silvano, un rompiballe da competizione, che ogni volta che apriva bocca era una polemica. Guardando la piazza della ferroviaria, Silvano cominciò la sua filippica: “Varda quanti negri vù cumprà che vende borse, i so morti, e nessuno fa niente. Mi ghe farìa ea guerra.”
Il numero uno attraccò alla fermata della stazione, chi scese e chi salì, quando nell’altra riva si vide un nuovo ristorante cinese, aperto la notte prima, che già era pieno di turisti. “I so morti – inveì Silvano – i vol comprar tuta Venexia, mi ghe farìa ea guerra a sti cass…pita coi oci a mandola.”
Il battello passò la fermata di “Riva de Biasio”, dal nome di un signore pedofilo che mangiava bambini giustiziato dalla Repubblica Veneta, e attraccò a San Marcuola, ma Silvano non chiudeva bocca. In vista di San Stae si notarono due vigili zelanti che avevano accalappiato un bangladesh che cercava di vendere pupazzi di gomma fatti con le sue mani. Lo avevano ammanettato con le braccia dietro la schiena. Qualche veneziano protestava, ma il cognato di Gigio gridò: “Copèo quel bangladescio, i so morti, mi ghe faria guerra a sti indiani dea m…adona.”
E il numero uno proseguì lentamente la sua strada attraversando il cuore della città e diretto verso il mare. Dopo la Ca’ D’oro e in vista di Rialto, calò, pian piano, una dolce nebbia. Gigio aveva già le palle girate, e questo inconveniente atmosferico lo infastidì ulteriormente. La nebbia si addensò quando il numero uno passò sotto il ponte di Rialto, tanto che sembrava non finire mai, come se la sua campata fosse diventata una lunga galleria. Ad un certo punto non si poté vedere più nulla ed il battello si arrestò. “Cosa cass…pita  succede, adesso”, urlò Silvano, mentre i passeggeri iniziavano a spaventarsi. Guardarono tutti al capitano, che cercava di far funzionare quel cass…pita di radar che non funziona mai quella volta all’anno che serve e che tentava inutilmente di contattare la centrale,  allorché apparve, in lontananza, la sagoma di un vecchio battello che avanzava lentamente. La faccia del capitano diventò, dal terrore, una maschera di cera. Era quello che, da anni, tutti i capitani temono, ma nessuno ne parla mai: Il battello delle nebbie. La leggenda narra di un vaporetto che si perse nella bruma del lontano 1914. Era pieno di passeggeri e non fu mai ritrovato, ma si dice che, in certi giorni, quel battello ricompaia col suo carico di fantasmi. Mentre si avvicinava, tutti iniziarono a sudare. In una tetra atmosfera si udiva lo sciacquio inquietante di quella barca maledetta e, quando si approssimò, comparvero macabri scheletri in piedi, addossati l’uno all’altro, soffocati da vischiose ragnatele e alghe marce. Quando affiancò, a mancina, il numero uno, i passeggeri scorsero chiaramente quegli spettri che li guardavano e sembrava che cercassero di parlare. Gigio, senza aspettare che la nave fantasma passasse del tutto, impugnò il suo telefonino, compose il numero di Silvano e lo lanciò a bordo, poi vide la poppa sparire.
Afferrò il telefono di Silvano che stava squillando e lo aprì, per sentire le voci dei morti. Tutta la gente del numero uno si raccolse attorno a lui. Si udirono, lontane voci dall’oltretomba, di cui una particolarmente pedante che ripeteva: “Basta! bisogna decidersi: mi ghe farìa ea guerra contro sti cass…pita de austriaci e de tedeschi, varemengo lori e tuti i so morti…..”

 
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