La presenza creativa di Mario Botta, che ha sottolineato come il cambiamento urbanistico di Lecco sia avvenuto senza integrarsi con le sue peculiarità territoriali, culturali e storiche, rappresentate dall’essere un lembo di terra tra lago e monti, ha aperto un interessante dibattito cui “La Provincia”, opportunamente, fa da cassa di risonanza. Lecco, “città di remo e di piccozza”, è stata snaturata dalla cementificazione dissennata che se un progetto ha perseguito, non è certo coinciso col bene della collettività. «Ripensare a Lecco e al suo futuro» dice il presidente dell’Associazione Costruttori. E’ proprio questo il punto ri-pensare perché quello che si è pensato e purtroppo attuato negli ultimi 10 – 15 anni è, a mio modesto avviso, quanto di peggio si poteva fare sia in termini quantitativi che qualitativi. Se, come afferma l’urbanista ginevrino André Corboz: “il territorio è un palinsesto dove le diverse generazioni hanno scritto, corretto, cancellato e aggiunto”, sul palinsesto lecchese ha freneticamente lavorato soprattutto la generazione attuale con risultati che, benevolmente, non giudicherei all’altezza degli sforzi profusi. In effetti Lecco si è arenata di fronte alle emergenze urbanistiche, annaspando affannosamente tra "varianti" al PRG e "occhiolini strizzati" agli interessi di categoria. Eppure le occasioni ci sono state, e non poche! Invece di interpretare i vincoli naturali, quali la presenza del lago e dei monti, come risorse per il miglioramento e il rilancio della città, essi sono essenzialmente stati vissuti come ostacoli alla viabilità da superare con attraversamenti per nulla relazionati con il territorio circostante. Basti guardare in quale degrado ha gettato quella fetta di città la sopraelevata che dal terzo ponte scende nelle viscere del Caleotto. E pensare che si tratta del principale ingresso cittadino. Il vincolo artificiale rappresentato dalla ferrovia, con le sue aree attigue, avrebbero potuto essere rivisto all’interno di un disegno più armonico dei flussi di traffico, sottolineando gerarchie di centri e reti di relazione con il sistema della mobilità, anche pedonale. Si è persa poi l’irripetibile occasione di ridefinire le aree a dismissione industriale come zone da restituire ai cittadini, sottoforma di servizi pubblici, secondo una sorta di riappropriazione del territorio da parte della collettività, e non come spazio di "riempimento" per soddisfare l' interesse di pochi. Infatti la nuova Lecco pare disegnata da un malato di agorafobia che, terrorizzato da qualunque spazio vuoto, ha voluto riempire ogni lembo di terra libera o liberatasi. Perché non si è prevista una sorta di “spina verde” di collegamento ciclo pedonale tra le varie aree dismesse che funga da elemento di correlazione tra servizi pubblici quali scuole, centri di interesse culturale, centri amministrativi ed eventualmente anche nodi di interscambio dei percorsi? Le zone limitrofe ai torrenti dovrebbero essere interpretate come “percorsi ecologici” di collegamento tra lago/centro e rioni della fascia pedemontana. A tal proposito i suggerimenti del concorso di idee “Vie d’acqua: dal lago alla montagna” giacciono in municipio dimenticati chissà dove. Il verde pubblico può essere progettato per fungere da collante, creare collegamenti e ridisegnare i percorsi in modo che diventino a misura d’uomo e non unicamente di macchina. In molte altre realtà il verde è stato proprio l'elemento utilizzato come opportunità in sede progettuale per dare un volto nuovo alla città in trasformazione. A maggior ragione se ne doveva tener conto da noi dove lago e montagne hanno sempre definito i tratti non solo ambientali ma anche storico-letterari.Si è certamente in ritardo, rispetto alle emergenze territoriali mal risolte, ma forse si può ancora fermarsi ad osservare la nostra Lecco con occhi meno miopi e bramosi, per intervenire in modo più armonico là dove ci si sta affannando alla ricerca di facili soluzioni. L’urbanista si è spesso rappresentato come una sorta di S. Giorgio che uccide il drago, di volta in volta incarnato dal potere di un gruppo, dalla speculazione, dalla rendita, dalla cattiva amministrazione. Da noi finora ha vinto il drago, cerchiamo di non sciupare le ultime occasioni. Con gli sfregi subiti difficilmente Lecco potrà divenire modello di riferimento nazionale ed europeo come era in sua potenza per grazia Divina; impediamo almeno che diventi una città i cui abitanti aspettino solo il week-end per fuggire in luoghi dove la natura e la cultura hanno ricevuto maggiore rispetto ed attenzione. Intanto accontentiamoci di una buona notizia: anche la Sovrintendenza, col parere negativo “all’intervento portuale”, ha sentenziato che non è sviluppo quello che avviene sacrificando l’ambiente.Elena Parolari e Alberto Valsecchi
Salviamo il salvabile
La presenza creativa di Mario Botta, che ha sottolineato come il cambiamento urbanistico di Lecco sia avvenuto senza integrarsi con le sue peculiarità territoriali, culturali e storiche, rappresentate dall’essere un lembo di terra tra lago e monti, ha aperto un interessante dibattito cui “La Provincia”, opportunamente, fa da cassa di risonanza. Lecco, “città di remo e di piccozza”, è stata snaturata dalla cementificazione dissennata che se un progetto ha perseguito, non è certo coinciso col bene della collettività. «Ripensare a Lecco e al suo futuro» dice il presidente dell’Associazione Costruttori. E’ proprio questo il punto ri-pensare perché quello che si è pensato e purtroppo attuato negli ultimi 10 – 15 anni è, a mio modesto avviso, quanto di peggio si poteva fare sia in termini quantitativi che qualitativi. Se, come afferma l’urbanista ginevrino André Corboz: “il territorio è un palinsesto dove le diverse generazioni hanno scritto, corretto, cancellato e aggiunto”, sul palinsesto lecchese ha freneticamente lavorato soprattutto la generazione attuale con risultati che, benevolmente, non giudicherei all’altezza degli sforzi profusi. In effetti Lecco si è arenata di fronte alle emergenze urbanistiche, annaspando affannosamente tra "varianti" al PRG e "occhiolini strizzati" agli interessi di categoria. Eppure le occasioni ci sono state, e non poche! Invece di interpretare i vincoli naturali, quali la presenza del lago e dei monti, come risorse per il miglioramento e il rilancio della città, essi sono essenzialmente stati vissuti come ostacoli alla viabilità da superare con attraversamenti per nulla relazionati con il territorio circostante. Basti guardare in quale degrado ha gettato quella fetta di città la sopraelevata che dal terzo ponte scende nelle viscere del Caleotto. E pensare che si tratta del principale ingresso cittadino. Il vincolo artificiale rappresentato dalla ferrovia, con le sue aree attigue, avrebbero potuto essere rivisto all’interno di un disegno più armonico dei flussi di traffico, sottolineando gerarchie di centri e reti di relazione con il sistema della mobilità, anche pedonale. Si è persa poi l’irripetibile occasione di ridefinire le aree a dismissione industriale come zone da restituire ai cittadini, sottoforma di servizi pubblici, secondo una sorta di riappropriazione del territorio da parte della collettività, e non come spazio di "riempimento" per soddisfare l' interesse di pochi. Infatti la nuova Lecco pare disegnata da un malato di agorafobia che, terrorizzato da qualunque spazio vuoto, ha voluto riempire ogni lembo di terra libera o liberatasi. Perché non si è prevista una sorta di “spina verde” di collegamento ciclo pedonale tra le varie aree dismesse che funga da elemento di correlazione tra servizi pubblici quali scuole, centri di interesse culturale, centri amministrativi ed eventualmente anche nodi di interscambio dei percorsi? Le zone limitrofe ai torrenti dovrebbero essere interpretate come “percorsi ecologici” di collegamento tra lago/centro e rioni della fascia pedemontana. A tal proposito i suggerimenti del concorso di idee “Vie d’acqua: dal lago alla montagna” giacciono in municipio dimenticati chissà dove. Il verde pubblico può essere progettato per fungere da collante, creare collegamenti e ridisegnare i percorsi in modo che diventino a misura d’uomo e non unicamente di macchina. In molte altre realtà il verde è stato proprio l'elemento utilizzato come opportunità in sede progettuale per dare un volto nuovo alla città in trasformazione. A maggior ragione se ne doveva tener conto da noi dove lago e montagne hanno sempre definito i tratti non solo ambientali ma anche storico-letterari.Si è certamente in ritardo, rispetto alle emergenze territoriali mal risolte, ma forse si può ancora fermarsi ad osservare la nostra Lecco con occhi meno miopi e bramosi, per intervenire in modo più armonico là dove ci si sta affannando alla ricerca di facili soluzioni. L’urbanista si è spesso rappresentato come una sorta di S. Giorgio che uccide il drago, di volta in volta incarnato dal potere di un gruppo, dalla speculazione, dalla rendita, dalla cattiva amministrazione. Da noi finora ha vinto il drago, cerchiamo di non sciupare le ultime occasioni. Con gli sfregi subiti difficilmente Lecco potrà divenire modello di riferimento nazionale ed europeo come era in sua potenza per grazia Divina; impediamo almeno che diventi una città i cui abitanti aspettino solo il week-end per fuggire in luoghi dove la natura e la cultura hanno ricevuto maggiore rispetto ed attenzione. Intanto accontentiamoci di una buona notizia: anche la Sovrintendenza, col parere negativo “all’intervento portuale”, ha sentenziato che non è sviluppo quello che avviene sacrificando l’ambiente.Elena Parolari e Alberto Valsecchi