OCCHI VERDI A LECCO

Più mobilità meno traffico


Le macchine promettono la libertà ma ti imprigionano nel traffico in mezzo ai gas mefitici. L'automobile ha fallito: da mezzo di mobilità si è trasformato in strumento di congestione, capace di divorare spazio urbano e di trasformare principalmente energia in calore, e solo per una piccola parte in energia cinetica. Di quest’ultima poi solo il 10 – 20% muove persone il resto serve per spostare il veicolo stesso (1000 – 1500 kg). Ne consegue che su 10 litri di benzina, otto o nove vengono spesi per spostare il mezzo e solo uno o due i passeggeri. L’automobile viene esaltata come massima espressione della libertà di movimento, ma la poca libertà di cui ancora fruisce è il portato di crescenti e nuove spese per infrastrutture e della rigidissima regolamentazione a cui è ormai sottoposto il traffico. Basta che non ci siano fondi per asfaltare nuove strisce di suolo, o che le regole non vengano rispettate, o che si blocchino i semafori, o che i vigili non intervengano al momento opportuno, e la mobilità di un intero territorio rischia la paralisi. L’automobile è da tempo la principale fonte del malessere urbano. Aumenta le distanze, sospingendoci verso l’hinterland per allontanarci dalla congestione; divora il nostro tempo negli spostamenti e negli ingorghi; rende l’aria irrespirabile; ci assorda con il rumore; contribuisce più di qualsiasi altra fonte all’emissione di gas serra; grava pesantemente sui nostri redditi e sui bilanci pubblici; distrugge la socialità, consegnando al traffico e alla sosta vie, strade, piazze e persino marciapiedi, cioè lo spazio pubblico dell’incontro.Esiste un metodo sicuro per valutare se il traffico privato è aumentato o diminuito negli ultimi tempi, e consiste nel guardare le auto ferme, cioè parcheggiate negli spazi “giusti”, o in sosta vietata, o in seconda o terza fila, o sul marciapiede. Trasformare le strade e le piazze in uno scolo per auto significa sottrarle agli umani: cacciare gli uomini, le donne, e soprattutto i bambini e gli anziani, per far posto alle protesi meccaniche degli automobilisti: di esseri nati bipedi e trasformati in robot a quattro ruote.Cento anni fa l’invenzione del motore a combustione interna aveva dato avvio alla progressiva sostituzione dei cavalli, dei carri e delle carrozze con i veicoli motorizzati nei percorsi urbani e in quelli extraurbani secondari (cioè non serviti dalla ferrovia). Questo processo si è sviluppato nel corso di trent’anni negli Stati Uniti, di cinquanta in Europa, e di cento nel resto del mondo (tanto che in alcuni paesi è ancora in corso). I vantaggi erano indubbi: le automobili non sporcano la strada, richiedono meno manutenzione e sono più veloci di un animale.La conquista della mobilità urbana di massa, e non più solo di élite, da parte dell’auto negli Stati Uniti - anni Venti e Trenta del Novecento - è un’altra storia. A quell’epoca il trasporto pubblico si era già diffuso grazie a tram e metropolitane che viaggiavano su rotaie e sfruttavano la propulsione elettrica, due soluzioni che hanno bisogno di un tracciato fisso. Per scalzarle a favore della motorizzazione privata, la grande industria statunitense dell’automobile aveva comprato a una a una le società private - o, più spesso, municipali - che gestivano il trasporto pubblico locale per poi chiuderle. Chi voleva muoversi doveva comprarsi un’auto. In Italia lo smantellamento dei binari dei tram è continuato fino alla fine degli anni Settanta; poi ci si è accorti che era un errore.L’auto come veicolo pressoché esclusivo della mobilità interurbana è stata invece imposta negli anni Cinquanta, innanzitutto negli Stati Uniti, con la costruzione di una rete nazionale di autostrade, ricalcata su quella tedesca degli anni trenta, costruita essenzialmente per ragioni belliche, ma rimasta il modello insuperato di tutti i successivi programmi di lavori pubblici (governi italiani compresi) a livello mondiale.Con l’imposizione dell’auto come soluzione privilegiata di mobilità, si sono andate affermando anche le principali caratteristiche dell´epoca in cui viviamo: individualismo, consumismo, sprawl urbano (o città diffusa) e taylorismo (cioè lavoro ripetitivo, parcellizzato e controllato meccanicamente). L´auto ha stravinto, ma è da tempo soffocata dal suo stesso successo: continua a invadere tutto il territorio disponibile, ma ogni auto in più non fa che sottrarre «spazio vitale» alle altre; scarica i propri miasmi nell´atmosfera, ma il cielo, che per gli antichi era una sfera di cristallo e da Copernico in poi uno spazio infinito, si è dimostrato incapace di contenerli tutti. Inoltre l´auto non è più in grado di mantenere quello che aveva promesso: la libertà di andare dove si vuole si è trasformata nella clausura dell´imbottigliamento; la possibilità di partire quando si vuole nella rigida programmazione degli spostamenti per evitare gli ingorghi; l´indipendenza dai tracciati rigidi dei binari nella costrizione dei sensi unici, delle zone vietate o a traffico limitato, nei percorsi che si avvitano su se stessi per scoraggiare l´afflusso; la velocità nella lentezza della regolamentazione semaforica, delle code, della quotidiana ricerca di varchi e di parcheggi.Bisogna convincersi che l´auto, come mezzo di trasporto privato, non ha futuro. Che possiamo procrastinarne la fine con i marchingegni e gli incentivi più vari; ma solo per poi accorgerci che abbiamo buttato una montagna di denaro (pubblico e privato), di tempo, di risorse (intellettuali e ambientali) in un pozzo senza fondo. Che se anche soltanto alcuni dei cosiddetti paesi in via di sviluppo (per esempio la Cina, o l’India, o il Brasile) raggiungessero il tasso di motorizzazione dell’Italia, l’intera superficie del pianeta non basterebbe a contenere le auto, né l’atmosfera sarebbe in grado di assorbire le loro emissioni. Naturalmente, per convincerci che l’auto non ha futuro non bastano le prediche; occorrono dimostrazioni pratiche che provino che ci si può spostare più in fretta, più comodamente, a costi minori, con maggior sicurezza, con soluzioni diverse: il potenziamento del trasporto pubblico di massa - treni, tram, autobus, metropolitane (leggere) ecc. - e l’introduzione di tutte quelle soluzioni flessibili che rendono possibili gli spostamenti porta-a-porta senza dover ricorrere all’auto propria. Informatica e telecomunicazioni consentono già oggi di garantire spostamenti porta-a-porta, senza traffico e ricerca del parcheggio, a costi economici, sociali e ambientali molto inferiori a quelli che si pagano con un’auto a testa. Progettare il trasporto flessibile in una società complessa richiede la partecipazione consapevole e negoziata di molti soggetti: utenti, maestranze, amministrazioni, imprese, enti, associazioni, tecnici, educatori. Si tratta di un modello organizzativo replicabile in molti altri servizi pubblici, per il quale oltre alle tecnologie occorre costruire un know-how di gestione che potrà costituire un fattore di competitività decisivo per un’economia come la nostra, altrimenti condannata al declino.Non ci sono dubbi l’auto esiste e non sempre se ne può fare a meno, ma cerchiamo almeno di utilizzarla in condivisione. Urge la conversione culturale dall’auto come proprietà all’auto come servizio. Il car sharing (auto in affitto), il car pooling (auto condivisa), il taxi collettivo. Sono tutte alternative allo spostamento privato. Facciamo due conti: un’automobile in soli cinque anni ci costa circa 3000 €/anno (e parliamo di una utilitaria da 15.000 €), a questa cifra vanno aggiunte le spese di manutenzione e quelle fisse come il bollo e l’assicurazione. Insomma in un anno l’automobile costa circa 6000 € se la si usa e 4000 € se la si lascia parcheggiata in garage. Ma disfarsi dell’auto, anche se per molti sarebbe più conveniente, non è facile e si preferisce usarla fino in fondo.Immaginiamo una mobilità fatta di mezzi pubblici, di mezzi privati (la bicicletta), di trasporti collettivi e condivisi, di sms inviati all’agenzia per la mobilità, di spese effettuate via internet per risparmiare tempo, benzina, aria pulita. E poi c’è il car sharing come forma ideale per chi utilizza l’auto anche tutti i giorni.Come si è fatto con i parchi occorre dichiarare area protetta il bene pubblico, cioè la strada, vietarla al traffico privato e a tutti i veicoli che non svolgono servizio pubblico. Ma questo significa scontrarsi con il deficit culturale di un pubblico che spesso non riesce più a immaginare altre realtà, significa scontrarsi con i mass media che quotidianamente osannano i benefici delle automobili, le mucche sacre dei nostri tempi. Viviamo in anni in cui Albertini vinse le elezioni a Milano promettendo di trasformare i marciapiedi in parcheggi. Ma qualche posto in più non risolve la questione della sosta. Basterebbe fermarsi e cominciare a rivalutare una vita con lentezza, recuperare la socievolezza utilizzando i mezzi pubblici (oramai sempre più utilizzati da stranieri e studenti), a riflettere sul preoccupante incremento del tasso di motorizzazione (il nostro è il più alto della UE). E’ sufficiente pensare che laddove si parcheggia un’automobile potrebbero parcheggiarsi 18 biciclette!Bisognerebbe imporre la scritta su tutte le automobili “Nuoce gravemente alla salute”. “Quest’auto può uccidere”. Se lo si fa per le sigarette perché non farlo con le automobili che, tra scarichi e incidenti, sono molto più pericolose? E quando ce ne disfiamo, le traghettiamo nella loro second life, nei paesi in via di sviluppo. Vengono sostituite bielle o pistoni, rivendute, e il giro d’affari ricomincia. E poco importa se, renderanno l’aria irrespirabile in Niger, nel Mali o nel Burkina Faso, perché è lì che vanno a finire le nostre vetture. È questo il prezzo da pagare per una “vita con auto”?Alberto Valsecchi