OCCHI VERDI A LECCO

L'ideologia del lavurà


Durante le vacanze appena trascorse ho avuto l’occasione di ascoltare un interessante intervento di Tom Hodgkinson, giornalista e scrittore inglese. Tema: il lavoro. Condividendone in larga parte il pensiero, ne propongo il succo in questi giorni di ritorno in fabbrica, in ufficio, in bottega ecc.L’idea che il lavoro sia la risposta a buona parte delle tribolazioni individuali e sociali è uno dei miti più deleteri della società moderna. Il mito, fomentato da moralisti, industriali, politici di destra come di sinistra, nasce con la rivoluzione industriale e la sua benzina è costituita dall’etica protestante, calvinista e metodista in particolare. I lavoratori indipendenti divennero dipendenti e le famiglie cominciarono a vivere esclusivamente dei salari e ad acquistare i generi alimentari che le precedenti generazioni avevano prodotto da sé. Forse guadagnavano più denaro, ma, probabilmente, la qualità della loro vita cambiò in peggio. Fu da allora che si iniziò a parlare insistentemente di progresso. Ma cos’è il progresso? Ce ne dà un’idea Clint Eastwood nel “Cavaliere pallido”. Un pezzo grosso di una cittadina locale gli raccontava di un gruppo di cercatori d’oro indipendenti che si rifiutavano di lasciare la loro terra per far spazio alla sua impresa. Concludeva affermando: “Ostacolano la via del progresso”. Al che Eastwood domanda: “Il vostro o il loro?”.E’ sempre in quei tempi che orologio e macchina prendono il sopravvento sulla persona e, col loro prevalere, portano alla violenta separazione tra uomo e natura, oggi forse ancor più evidente di allora.Intanto si affermarono scuole di pensiero, come quella incarnata dal reverendo Andrei Townsend, che sostenevano quale miglior metodo per imprimere nella testa dei lavoratori la nuova etica del lavoro la fame. “La fame –sosteneva il pastore- non solo è forma di pressione mite, silenziosa e incessante, ma essendo la più naturale delle motivazioni al lavoro produce gli esiti più pacifici”. La filosofia dei bassi salari fu adottata con entusiasmo: tanto più bassa fosse stata la paga, quanto più il proletario avrebbe sgobbato. Mi domando se è cambiato molto da allora? Mi rispondo di no, se non che le motivazioni per lavorare “appassionatamente” sono più variegate. Nell’era del consumismo, la possibilità di accumulare merci (spesso inutili) e simboli che identificano un alto status sociale sono motore altrettanto efficace della fame, che pur non ha cessato di esistere.  In effetti l’attuale sistema economico si regge su questo equilibrio precario. Indurre a credere che l’acquisto di un prodotto migliorerà la nostra vita; per comprare il prodotto ci vuole denaro; per procurarsi denaro bisogna lavorare molto o fare debiti; lavorando molto o facendo debiti si arricchiscono i pochi e i più continuano a lavorare per pagare i debiti o comprare la versione uguale, ma più aggiornata del prodotto acquistato qualche tempo prima.In tutto il mondo la smania di merci di consumo ha determinato una cultura letale del superlavoro. In un rapporto dell’ONU si dichiarava che il lavoro uccide due milioni di persone ogni anno. L’equivalente di due 11 settembre al giorno. Eppure nessuno dichiara guerra a questo sistema economico. Troppo pochi si levano a dire (e ancor meno ad agire) che quello che serve non è più lavoro, ma più giustizia e moralità.Alberto Valsecchi