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omicidio dal robivecchi

Post n°2 pubblicato il 16 Gennaio 2010 da piluchini
 


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Aveva perso il lavoro e di conseguenza gli era stato ingiunto lo sfratto.
Nei suoi quarant'anni di vita aveva smarrito tante cose, piccole e grandi; quando era bambino viveva in un bel palazzo signorile con quattro domestici, un istitutore e il giardiniere Guerrino.
I suoi genitori, due esseri umani viziosi e molesti, abitavano separatamente nella metropoli industriosa e con lui non avevano rapporti perché troppo impegnati a far soldi.

Guerrino lo portava nel giardino e gli faceva vedere le meraviglie del Creato, lo alzava sopra di sé e lo metteva con la faccia vicino ai frutti maturati e quasi marciti; fu l'epoca in cui sviluppò il senso dell'odorato in maniera più che eccezionale.
L'istitutore gli insegnava le solite materie, ma peccava di pigrizia, non spingendosi mai ai limiti della propria precaria istruzione. I quattro domestici vivacchiavano come fanno i vecchi: pulivano un po' in giro e sdormicchiavano.

Poi tutto andò alla malora: si scoprì che Guerrino in giardino seppelliva oro e cadaveri, entrambi portati nella villa dai bravi del padre e dai guardaspalle della madre, a seconda di chi aveva più tempo libero per il viaggio in campagna.
Era stato Guerrino a snocciolare tutto alla polizia, li aveva portati in loco e con un badile aveva bucato il giardino facendo rinvenire ossa e tesoro.
La vita dorata era quindi finita assieme alla libertà dei suoi genitori.

Il nostro eroe ormai ventenne si fece quindi hidalgo: come facevano nel XVI secolo gli spagnoli di nobili origini caduti in disgrazia, si arruolò in una scaramuccia mondiale nel ruolo di soldato mercenario.
Gli toccò in sorte di partecipare al conflitto scoppiato nell'isoletta oceanica di Kiriati.
Sbarcato dalla nave che lo aveva portato nel luogo della sua impresa guerresca, era stato accolto da una voce: “Sono qui signorino Cacioski, sono venuto a prenderla... sono il suo capitano!”; era Guerrino vestito di tutto punto con la mimetica.
Guerrino gli chiese subito: “Signorino, non ha con sé la valigia?”.
Cacioski replicò che nel momento dello sbarco non l'aveva più trovata.
Pazienza signorino, tanto il bagaglio non le servirà a nulla qui. Conto di far terminare questa pagliacciata di guerra tra una mezz'ora”, così dicendo Guerrino gli prese il braccio e lo accompagnò in un desolato parcheggio a lisca di pesce dove una Volkswagen color pruneto attendeva sotto ad un sole cocente.
E ad attendere stava anche una ragazza nascosta in un fularone bianco, che subito si tolse mostrando il viso a Cacioski. Era bella, anche se tutta la sua pelle era cosparsa di nei scurissimi, gli occhi le ridevano come un fuoco artificiale e la bocca, pur aprendosi per salutare e dire il proprio nome (Nalda), non mostrava nulla del proprio contenuto.
Nel frattempo Guerrino accese il motore e partì, e tra lui e la ragazza iniziò una conversazione serrata in una lingua sconosciuta a Cacioski; la cosa strana fu che dopo qualche minuto l'idioma diventò per il giovane familiare, ma solo quando era Nalda a parlare.
Così ai suoni incomprensibili emessi da Guerrino si contrapponevano risposte intellegibili quali:
Non credo sia il caso” oppure “Potevo essere d'accordo con il tuo piano, ma vedendolo con quest'aria ...fiduciosa...”.
La città sconosciuta faceva intanto dai finestrini sfilata di sé, e l'abito con il quale vestiva era certamente pezzato e miserevole: uomini del color della sabbia bagnata stavano buttati davanti a case che il terremoto costante e inarrestabile della povertà distruggeva di minuto in minuto.
Lo portarono su un enorme spiazzo asfaltato che faceva da anticamera ad un palazzo barocco; Nalda, che aveva appena terminato di fumare una sigaretta, guardò Cacioski con intensità e quella visione fu per lui l'ultima prima di finire all'inferno.
Proprio così, l'inferno.
Risvegliandosi, per qualche ora pensò che il buio totale in cui era precipitato fosse l'aldilà (quello punitivo però) e che le voci che ogni tanto sentiva appartenessero agli altri dannati che in quel luogo continuavano sfortunatamente la vita.
Ben presto si rese conto di stare invece in una prigione: nella più grande casa di correzione dell'isola, come amava definirla il secondino che gli passava il cibo da una feritoia e che parlava un po' d'inglese da dietro al muro.
Cacioski non vide mai il volto del suo cameriere speciale (altro termine usato dal guardiano), perché non gli fu mai permessa una luce piena che desse a quella voce un volto.

Quando fu rimpatriato, scoprì di aver trascorso in quel buco due anni e di essere stato imprigionato poiché giudicato dalle autorità kiriatesi il capobanda della fazione antigovernativa.
Per questo motivo, cioè per il clamore suscitato nella nazione dal fatto che un connazionale fosse implicato così gravemente in un fattaccio del genere, nessuno per parecchio tempo volle dargli un lavoro, e si ritrovò in una situazione allarmante di disgrazia. Inoltre, il tempo passato nell'oscurità gli aveva provocato una malattia agli occhi: veniva colto improvvisamente da black-out visivi che potevano durare anche parecchie ore, e fu proprio a causa di una crisi che perse il misero lavoro che si era faticosamente conquistato.

Pur abitando nello stesso paese, vidi Cacioski per la prima volta quella fatidica mattina di luglio nella quale gli diedi un passaggio in automobile. Fui io a chiedergli se desiderava un trasporto dopo che rischiai di metterlo sotto; vagava infatti alla cieca sulla sede stradale, passando con disinvoltura da un lato all'altro.
La magrezza del suo viso e le labbra spellate e bruciate mi fecero pensare ad un sopravvissuto del mare. I suoi occhi azzurri non vedevano ma erano espressivi e sembravano essersi presi solamente un momento di riposo.
Quando mi disse il suo nome io, che faccio il giornalista, lo misi subito a fuoco inquadrandolo come
la celebrità della nostra piccola comunità.
Così, mi feci raccontare la sua storia.
Sono un pessimo autista e, nelle parti più originali della sua vicenda, la macchina ha rischiato seriamente di finire in bocca al fosso che costeggiava la stradina, fino ad arrivare magicamente, nello stesso momento in cui Cacioski terminò, davanti al posto in cui mi aveva chiesto di andare.
L'indigenza lo aveva portato a recarsi a vendere la sua merce usata al robivecchi; era il secondo giro che faceva quel giorno. La prima volta aveva rotolato verso il negozio due gomme d'automobile quasi nuove ma era stato fortunato perché ancora non era incorso quel giorno nel suo patologico black-out.
Questa volta invece portava al robivecchi un bel modello di trapano marcato Cacioski Tech (un cimelio di quando la famiglia era ancora fatta di capitani d'industria) ed aveva avuto la fortuna che il suo amico giornalista (così ormai mi considerava) quasi gli sbattesse contro e che fosse così gentile da accompagnarlo in sicurezza.
Aprì la portiera dell'auto e guardandomi come se ci vedesse mi ringraziò (non volle essere aiutato ulteriormente) e si avviò, tenendosi appigliato ad una siepe, verso la porta del negozio con il fagotto di tela blu che conteneva il trapano. Riavviai il motore e feci una manovra da ritiro della patente per tornare in strada ed andare finalmente al lavoro.
Uno sparo di pistola proveniente dalla bottega festeggiò la mia partenza.

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