Creato da veuve_cliquot il 10/01/2011

La Specola

"Non mi piace la via che conduce qui e là. Non bevo alla fonte verso cui tutti s'intruppano. Detesto ciò che é comune, popolare e senza regole" Callimaco

 

CHURCHILL

Post n°103 pubblicato il 02 Novembre 2011 da veuve_cliquot

“Lo scorso venerdì sera ho ricevuto da Sua Maestà l'incarico di formare un nuovo governo. C'era l'evidente volontà del Parlamento e della nazione che questo fosse concepito sulle basi più larghe possibili e che includesse tutti i partiti. Ho già completato la parte più importante di questo compito.

E' stato formato un gabinetto di guerra di cinque membri rappresentante, con il Partito laburista, l'opposizione, e i Liberali, l'unità della nazione. Era necessario che questo venisse fatto in un solo giorno in considerazione dell'estrema urgenza e durezza degli eventi. Altre posizioni chiave sono state completate ieri. Sottoporrò un'ulteriore lista al re questa notte. Spero di completare domani l'indicazione dei ministri principali.

L'indicazione di altri ministri richiede di solito un po' più di tempo. Confido che quando il Parlamento si riunirà di nuovo, questa parte del mio compito sarà completa e che l'amministrazione sarà completa in ogni aspetto. Ritengo nel pubblico interesse di chiedere allo Speaker che il Parlamento sia convocato oggi. Alla fine dei lavori di oggi, l'aggiornamento del Parlamento sarà proposto entro il 21 maggio, con l'eventualità di riunioni anticipate in caso di necessità. In questa eventualità ciò sarà notificato ai membri del Parlamento appena possibile.

Invito ora il Parlamento ad approvare una risoluzione che registri il suo consenso per i passi intrapresi e dichiari la sua fiducia nel nuovo governo.

La risoluzione:

"Il Parlamento approva la formazione di un governo che rappresenta l'unità e l'inflessibile determinazione della nazione di proseguire la guerra con la Germania fino ad una conclusione vittoriosa".

Formare un'amministrazione di questa entità e complessità è in se stesso un compito difficile. Ma noi siamo nella fase preliminare di una delle più grandi battaglie della storia.

Siamo in azione in molti altri punti -- in Norvegia e in Olanda -- e dobbiamo essere pronti nel Mediterraneo. La battaglia dell'aria è in corso e molti altri preparativi devono essere predisposti qui in patria.

In questa crisi penso di dover essere scusato se oggi non mi rivolgo al Parlamento in modo esteso, e spero che i miei amici e colleghi o i precedenti colleghi che sono coinvolti nella ricostruzione politica, concederanno tutte le attenuanti per ogni carenza cerimoniale con la quale è stato necessario agire.

Dico al Parlamento come ho detto ai ministri di questo governo,
che non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore
. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalìe. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza.

Voi chiedete: qual è la nostra linea politica? Io rispondo: fare la guerra per terra, mare, aria. Guerra con tutta la nostra potenza e tutta la forza che Dio ci ha dato, e fare la guerra contro una mostruosa tirannia insuperata nell'oscuro e doloroso catalogo del crimine umano. Questa è la nostra linea politica.

Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. E' la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c'è sopravvivenza.

Che sia chiaro. Nessuna sopravvivenza per l'Impero britannico, nessuna sopravvivenza per tutto ciò su cui l'Impero britannico si è retto. Nessuna sopravvivenza per  l'anelito, la forza motrice dei tempi, che l'umanità muova avanti verso il suo traguardo.

Assumo il mio incarico con slancio e speranza. Sono sicuro che i popoli non permetteranno che la nostra causa sia sconfitta. In questo frangente, in questo momento, mi sento in diritto di chiedere l'aiuto di tutti e di dire: "venite dunque, andiamo avanti assieme con le nostre forze unite".

 

Questo è il discorso che Winston Churchill tenne alla camera dei comuni il 13 maggio del 1940 quando venne chiamato a formare un governo di unità nazionale durante la guerra. Vi chiederete: che c’entra? C’entra! L’Italia in questo momento deve affrontare una guerra, non contro dei nemici ben visibili come lo erano i tedeschi allora, ma contro dei nemici più subdoli e sfuggenti: quelli che hanno deciso di far crollare il nostro paese, di indebitarlo e quindi indebolirlo sempre di più per ottenere loro stessi i massimi guadagni speculativi.

La situazione in fondo è la stessa: siamo in guerra. Una guerra la cui sconfitta ci porterà indietro di decenni, in cui molti diventeranno poveri e dovranno affrontare la fame (non solo metaforica). E di un uomo come Churchill avremmo bisogno, di uno che ci prometta lacrime e sangue ma che ci dia anche la speranza di potercela fare. Un uomo che riesca a riunire tutte le forze, che sappia uscire dalle logiche dell’interesse partitico per entrare nella logica dell’interesse della nazione. Una nazione che dovrebbe dimenticare i propri interessi personalistici per pensare a interessi comuni nella solidarietà che dovrebbe unire chi sa che se precipita il vicino, il rischio è che il giorno dopo  precipita anche lui.

Non so chi potrebbe essere questa persona, non so se esiste nella nostra classe politica così interessata solo alla propria rielezione. Ma so che solo una persona del genere, che abbia il coraggio di dirci che tutti dobbiamo stringere la cinghia, infischiandosene di colpire lobby e interessi personali, potrebbe portarci fuori da questa situazione. Soprattutto facendoci capire che TUTTI dobbiamo un po’ sacrificarci e non i “soliti noti”!

 
 
 

APOCALISSE

Post n°102 pubblicato il 01 Novembre 2011 da veuve_cliquot

Durer: I cavalieri dell'Apocalisse

Dovrei scrivere un nuovo post, ma qualsiasi argomento mi sembra frivolo davanti a quello che sta succedendo intorno a noi. Ma la cosa che mi lascia più stupita è di non riuscire a capire come tutto questo sia potuto accadere e soprattutto l’impotenza a cui sembra siamo condannati mentre vediamo franare tutto il nostro mondo. Perché, almeno personalmente, il sentimento profondo che sento è proprio questo senso di impotenza, di incapacità di capire e spiegare cosa stia veramente accadendo. Quello che ci sta succedendo sembra sovvertire tutte le cose a cui abbiamo sempre creduto, che ci hanno insegnato per ritrovarci in balia di cose che non puoi assolutamente arginare ma che influenzeranno la tua vita e quella della tua nazione.

Ma come è possibile che uno stato come l’Italia che fino a qualche mese fa, pur avendo un debito molto elevato, non sembrava in così pessime condizioni, si trovi sull’orlo della bancarotta? Cosa è cambiato nel giro di poche settimane? Come mai le nostre banche, sempre considerate solide e con pochi titoli tossici (proprio oggi sentivo al telegiornale che ne posseggono solo il 4%), di botto perdono così tanto in borsa? Come è possibile che il reddito della finanza sia otto volte il reddito che deriva dal lavoro? Che ricchezza è quella della finanza? E' una ricchezza che non ha basi reali, che si nutre di soldi che non esistono, che specula sui mercati. Ma chi c’è dietro questi disegni che vogliono distruggere intere nazioni? Il loro profitto getterà nella fame milioni di persone ed è facile che le persone affamate reagiscano cercando di mutare la situazione.

E’ vero che noi italiani abbiamo forse vissuto per decenni al di sopra delle nostre possibilità permettendo allo stato di accumulare debiti per acquisire diritti che forse non dovevamo avere (le pensioni e la sanità ne sono un esempio eclatante). E’ vero che i nostri politici hanno sempre speso senza ritegno per ottenere voti e favori dalle lobby del momento. E’ vero che noi italiani ci siamo adagiati in diritti acquisiti pensando che il bengodi sarebbe durato in eterno, che lo stato avrebbe sempre pensato a tutto, non rendendoci conto che oltre ai diritti forse dovevamo avere anche qualche dovere. E’ vero che noi italiani abbiamo sempre ritenuto che lo stato fosse una mucca da mungere e da ingannare non pagando le tasse. Ma non siamo nemmeno un popolo che vive sui debiti e sullo spreco. Gli italiani, quando hanno potuto, hanno sempre cercato di comprarsi la casa e di mettere da parte qualche soldo, di mettere su un’attività cercando di farla funzionare.

Ma il problema è che le cause vere trascendono da tutto questo: quello che ci sta inghiottendo è un sistema che truffa e crea denaro non con il lavoro, la ricerca, la tecnologia, l’intelligenza ma con la speculazione che rapina il lavoro e i sacrifici della persone e degli stati. Gli interessi di pochi superano gli interessi di tutti e gli stati e la politica non hanno mai creato una legislazione che potesse arginare questi affari, mostrandosi impotenti davanti a questi giochi. E solo ora ce ne stiamo rendendo conto!

Cos’è successo adesso di così drammatico da ritrovarci sull’orlo del fallimento, senza nessuna prospettiva per i nostri giovani e, ancora peggio, per chi a cinquant’anni si può ritrovare senza lavoro? Nel giro di pochi mesi sembra che non ci sia più futuro.

Ecco, la sensazione che ho, è quella della mancanza di futuro. Ma non per me, ormai alla mia età il mio futuro cambierà ben poco, ma per le generazioni più giovani a cui lo stanno rubando, scippando, rapinando. Ma si rendono conto queste persone di cosa voglia dire togliere il futuro a intere generazioni? Togliere i sogni e le speranza che sono le cose che danno senso alla vita credo sia uno dei peggiori delitti che si possa commettere.

 

 
 
 

POLITICAMENTE POCO CORRETTO 12

Post n°101 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da veuve_cliquot

G. De Chirico: Piazza d'Italia 1948

In Italia bastano 24 ore di pioggia per far franare interi paesi. Ci sentiamo dire dal presidente della repubblica francese che “se avessimo lasciato cadere la Grecia, dopo sarebbe toccato all’Italia” (o.k., un grazie alla Grecia che ci è servita da argine) e cosa fanno i nostri parlamentari davanti a disastri e sorrisini e ghigni di politici stranieri? Si azzuffano in parlamento, come nei mercati, per ragioni assolutamente stupide. E tutto questo davanti agli occhi di tutti, del mondo e di una scolaresca che assisteva alla seduta della camera. Ma queste sono le persone che ci dovrebbero rappresentare? Io mi vergogno di essere rappresentata da persone come queste che non hanno un minimo di pudore e di decenza, una minima idea non dico di come si dovrebbe comportare un parlamentare ma almeno una persona educata. Ma dove li siamo andati a raccattare questi mentecatti che l’unica qualità che hanno è l’incompetenza? Ma li abbiamo cercati con il lanternino o sono realmente i rappresentanti che ci caratterizzano?

Ma noi italiani siamo realmente caduti così in basso da presentare al mondo come nostri rappresentanti queste persone? L’unico canale RAI che non mi fa rimpiangere il canone che pago è RAI storia che spesso mette in onda documentari che parlano dell’Italia del dopoguerra, un’Italia che uscì distrutta e affamata dalla guerra. Quando rivedo quelle immagini e penso a come l’Italia è riuscita a uscire da quel disastro mi chiedo: ma dove sono finiti quegli italiani che hanno saputo rialzare la testa e ricostruire un paese distrutto, dandoci benessere e boom economico, facendoci diventare una delle prime potenze economiche mondiali? Ma sono morti tutti lasciando degli eredi così inetti e beoti come mi sembra siamo ormai diventati? Oppure l’italiano ha bisogno di trovarsi nella melma fino agli occhi prima di risollevarsi e far uscire quel carattere che ha permesso nel dopoguerra di risollevarci? Cosa manca a noi italiani rispetto ai tedeschi che usciti ancora più distrutti dalla guerra si sono risollevati, hanno digerito l’annessione della Germania dell’EST e sono ancora una potenza che può dettar legge, mentre noi dobbiamo subire le imposizioni altrui, imposizioni che in fondo servono per cercare di non farci precipitare, perché se aspettassimo di imporcele da soli, a quest’ora saremmo già a picco. Perché il carattere degli italiani, quella capacità di riuscire a risollevarsi, ad andare avanti, quella flessibilità e adattamento che ci permette poi alla fine di uscirne sempre fuori, non deve essere usata un po’ prima di avere l’acqua alla gola, prima di farci disprezzare perché considerati persone inaffidabili?

Una delle nostre caratteristiche è senza dubbio quella di essere dei “naviganti a vista”, non per nulla in un vecchio detto eravamo considerati un popolo di naviganti. Ma ormai la navigazione a vista è superata in un mondo che si serve di radar e GPS. La visione dei nostri governanti non va oltre la legislatura (e basta guardare le nostre politiche energetiche), e non è molto dissimile da quella di coloro che si costruiscono le case in zone franose o vecchie fiumare: si vive alla giornata, poi si spera nel miracolo. Sarà la nostra tradizione cattolica che ci fa credere nel miracolo di qualche santo che alla fine ci salverà? Ma ultimamente di miracoli non ne vedo molti in giro se non quelli che colpiscono chi ci governa: credo che solo loro siano miracolati perché non ho altre motivazioni per giustificare come riusciamo a sopportarli.

Gli italiani mi ricordano le olive: danno il meglio solo dopo che vengono strizzate sotto il torchio. E ben venga chi ci strizza senza levate moralistiche di indignazione. Non meritiamo di meglio!

 

 
 
 

100

Post n°100 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da veuve_cliquot

Jan Josef Horemans: L'ora del thé

 

Post “ad personam”: è il post n° 100 e voglio parlare un po’ del mio blog.

E’ un traguardo che non pensavo di raggiungere: avevo iniziato a scrivere un blog su insistenza di un caro amico, ma per mesi avevo desistito pensando che non sarei stata capace di trovare argomenti di cui scrivere e scrivere di argomenti personali non mi interessava. Poi, pian piano, gli argomenti son venuti fuori e così sono arrivata al centesimo post. Devo riconoscere che man mano che andavo avanti la cosa mi ha appassionato sempre di più. E senza dubbio, il fatto di avere dei “fedeli” frequentatori ha la sua importanza (è inutile nascondersi dietro un dito: se si fa un blog è perché si vuole che esso sia letto, in caso contrario si potrebbe scrivere su una paginetta di word e tenere tutto in una cartella).

Non è un blog frequentatissimo, al massimo una dozzina di commentatori e qualcuno che viene senza commentare, ma viene sempre, per cui spero che legga e gli piaccia quello che legge, ma ci sono due cose che mi fanno molto piacere:

1)     Nessun commentatore mi ha abbandonato fino ad ora per strada.

2)     I commenti sono sempre interessanti e stimolano una discussione e un ampliamento dei temi trattati nel post, portando sempre contributi interessanti e a volte punti di vista diversi dal mio, cosa che trovo sempre auspicabile in una discussione.

Fino a poco tempo fa avevo un unico cruccio: nessuna donna mi commentava e me ne chiedevo sempre la ragione. L’amico che mi aveva spinto a fare il blog me ne aveva dato una spiegazione: i miei post sono poco “appassionati”, non hanno mai posizioni estreme, non stimolano un dibattito “di cuore” ma solo “di cervello”. Sono troppo moderati per stimolare un pubblico femminile che invece ama la passionalità, il prendere posizione “con il cuore”. Insomma il mio sarebbe un blog che potrebbe essere scritto anche da un uomo. Pur ammettendo questo punto di vista, lo trovavo “troppo stretto” e poco coincidente con l’immagine che io ho del mondo femminile.

Ma da qualche tempo anche delle donne commentano i miei post, in maniera assolutamente brillante e intelligente…e la cosa mi fa veramente piacere!

Finisco questo post dicendo cosa realmente penso del mio blog: che la parte migliore non sono i miei post ma i commenti che vengono fatti. Per questo voglio ringraziare tutti quelli che hanno permesso, con il loro contributo, di renderlo quello che è.

Grazie di cuore a tutti voi!

 

 

 
 
 

FELICITA'

Post n°99 pubblicato il 23 Ottobre 2011 da veuve_cliquot

Livia Drusilla come Cerere, dea dell'abbondanza. Museo del Louvre

 

Quanti di noi non hanno mai pensato almeno una volta nella vita che sarebbero più felici se avessero più soldi? Ma allora c’è un rapporto tra denaro e felicità?

Secondo studi condotti da Robert Lane, professore emerito di scienze politiche a Yale che ha verificato la situazione negli Stati Uniti e Richard Layard professore di economia alla London school of economics che invece si è occupato di dati provenienti da altri paesi, la soddisfazione di vita aumenta in modo parallelo alla crescita del prodotto nazionale solo fino al punto in cui il reddito riesce a soddisfare i bisogni essenziali, le esigenze di sopravvivenza, mentre si ferma o rallenta molto quando l’agiatezza aumenta ulteriormente.

 Le società occidentali dalla fine della seconda guerra mondiale sono diventate sempre più ricche ma questo non si è automaticamente accompagnato ad un aumento della felicità percepita, forse perché buona parte dei beni cruciali per la felicità non hanno un prezzo di mercato e non si possono acquistare nei negozi. Certamente l’amore e l’amicizia, una piacevole vita familiare, l’autostima per un lavoro ben fatto, la simpatia, il rispetto degli altri, cioè la maggior parte di quello che riteniamo indispensabile per vivere felici, non sono acquistabili in un centro commerciale. Inoltre, se ci pensiamo un po’,  guadagnare il denaro che ci permette di acquistare i beni che si trovano nei negozi incide molto sul tempo e sulle energie che restano per procurarsi e godersi beni come quelli non acquistabili. Quante volte si sono acquistati regali costosi per la persona amata per compensarla del poco tempo che si è passato con lei, delle poche occasioni che si hanno per parlarle e delle scarse attenzioni o premure che le si sono dedicate? Quante volte riempiamo i nostri figli di giochi o gadget elettronici perché ci sentiamo in colpa del poco tempo che dedichiamo loro? Quanto più si riduce la possibilità di offrire beni che non si possono acquistare con il denaro, tanto più aumentano infelicità e sensi di colpa e allora si va alla ricerca di surrogati che si possono trovare in commercio e quindi a utilizzare ulteriormente il proprio tempo per guadagnare denaro.

Ma avere la possibilità di acquistare beni (avere quindi denaro per farlo), fa sentire più felici? La pubblicità è intrisa di questo tipo di messaggio, in modo più o meno subdolo: ogni prodotto è sempre accompagnato da immagini di gente felice che si diverte con il “giocattolo” di turno, dalla bella macchina al biscotto. Per la nostra società di mercato basata sui consumi, questi messaggi da far entrare nel cervello dei consumatori sono assolutamente necessari. E lentamente diventiamo succubi di questo tipo di pubblicità, pensiamo che potremmo essere più felici possedendo quell’oggetto. Ma questa è una rincorsa senza limiti: quando riusciremo a possedere quell’oggetto, ecco che spunterà un nuovo oggetto migliore e più bello ad alimentare la nostra ricerca della felicità in una frustrante rincorsa all’irraggiungibile proprio perché non saranno mai degli oggetti che riusciranno a darci la felicità. E’ su queste basi che si fonda la società dei consumi in un circolo vizioso che non avrà mai fine se non saremo noi stessi a metterci una fine.

Il denaro è senza dubbio importante ma il suo limite è nel raggiungimento della soddisfazione dei bisogni primari. Oltre non può andare. Gli oggetti rendono senza dubbio la vita migliore ma dobbiamo dare agli oggetti il loro giusto significato: una macchina serve per spostarsi e rendere più facile la nostra vita. Sta a noi capire che questo scopo può essere raggiunto anche dall’utilitaria e non solo dalla macchina di lusso. Nel momento stesso che abbiamo bisogno della macchina di lusso, forse dovremmo chiederci cosa ci manca veramente, cosa dobbiamo dimostrare non solo agli altri ma anche a noi stessi, il surrogato di che cosa è questa macchina. Imparare a recuperare il senso delle cose che ci circondano, piuttosto che voler dare un senso alle cose.

La felicità non è una merce acquistabile con il denaro, ma è quel senso di soddisfazione che deve nascere dentro di noi coltivando affetti, soddisfazioni personali e solidarietà verso gli altri.

 

 
 
 

INTELLIGENZA

Post n°98 pubblicato il 16 Ottobre 2011 da veuve_cliquot

Leonardo da Vinci: Autoritratto

Secondo uno studio di due ricercatori inglesi, più bassa è l’intelligenza di una persona misurata secondo i test, maggiore è il rischio che queste persone abbiano una vita più breve, contraendo più facilmente malattie degenerative, e andando incontro a suicidi o incidenti. Da decenni vengono fatti studi per trovare quali siano i fattori che influenzano la lunghezza della vita, ed è stato riscontrato che un fattore predittivo indipendente sia proprio il punteggio ottenuto da giovane nei test di intelligenza.

Precedenti ricerche avevano stabilito che la gente meno istruita, chi svolge lavori manuali, chi percepisce redditi più bassi si ammala di più e tende a morire prima sia per malattia che per incidenti, suicidi o omicidi. E’ facile quindi pensare che i giovani intelligenti arrivando a livelli di istruzione più alti, imparino meglio come difendere la loro salute e quindi vivano più a lungo. Ma anche eliminando questi fattori dallo studio, i ricercatori hanno sempre trovato che la probabilità di vita aumenta in queste persone.

Tutti ormai sappiamo che non esiste un solo tipo di intelligenza: c’è chi brilla nelle materie scientifiche ma è debole nel ragionamento verbale, ma si è anche visto che sottoponendo i soggetti a un’ampia gamma di abilità mentali diverse, colui che riesce brillantemente in un tipo di test in genere riesce abbastanza bene anche negli altri. Questa viene chiamata intelligenza generale ed è questa che influenza la lunghezza della vita.

Per quel che riguarda le morti per omicidio o incidenti, i ricercatori ritengono che chi ha punteggi più bassi nei test di intelligenza, avendo condizioni socioeconomiche peggiori, vive in quartieri più poveri e più pericolosi andando quindi incontro a rischi maggiori. Essi inoltre avrebebro una percezione del rischio molto bassa mentre invece le persone con una maggiore intelligenza potrebbero essere più consapevoli dei rischi cui possono andare incontro e quindi evitano certe situazioni coscientemente. Infine un’ultima possibilità potrebbe essere legata al ragionamento e all’espressione verbale: le persone con minore intelligenza potrebbero essere meno brave a risolvere i contrasti con il ragionamento e le parole, passando quindi all’aggressione fisica spesso non accompagnata dalla valutazione del rischio che un simile atteggiamento può determinare.

Invece riguardo alla possibilità di ammalarsi, le persone con minor punteggio nei test di intelligenza hanno più probabilità ad andare incontro a obesità, alcolismo, malattie cardiovascolari o malattie degenerative (diabete, ipertensione, aterosclerosi, ictus). Questi eventi potrebbero essere anch’essi legati a fattori sociali come una minor conoscenza che certi stili di vita si possono associare alla malattia (fumo, alcol, cibo), e a una visione limitata dei rischi che lo stile di vita può determinare.

Ed è qui che la società potrebbe agire: insegnando a tutti, a prescindere dai test di intelligenza buoni o cattivi, quale sia lo stile di vita corretto per mantenere la salute, facendo capire che il fattore chiave per vivere a lungo non è l’intelligenza ma agire e prendere decisioni da "persona intelligente". Ed è qualche cosa che dovrebbe iniziare già dalle prime classi che il bambino frequenta insegnandogli cosa sia corretto mangiare, facendogli vedere quali siano i rischi del fumo, dell’alcol, della velocità e soprattutto insegnandogli che le divergenze possono essere anche risolte con la testa e non solo con le mani.

Insegnare ai bambini e ai ragazzi che non dobbiamo diventare succubi dei geni che ereditiamo e che codificano la nostra intelligenza, ma far sì che la cultura ribalti quello che l’indeterminabilità della nostra nascita ci dà.

 

 

 
 
 

ERRORI

Post n°97 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da veuve_cliquot

 

 

Nei giorni scorsi è comparso sui giornali l’ennesimo caso etichettato come “mala sanità”: un’infermiera di un ospedale di Torino ha iniettato nella vena del paziente del potassio, che risulta tossico se non diluito, e il paziente è in coma, dopo lunghi tentativi di rianimazione. I fatti si sono svolti in questo modo: una prima infermiera doveva mettere una fiala di potassio nella flebo del paziente. Invece lascia la siringa con dentro il potassio sopra il comodino del paziente e va via. Una seconda infermiera arriva, vede la flebo e prima di attaccarla alla via venosa già pronta, lava il cateterino nel braccio del paziente prendendo da sopra il comodino questa siringa ritenendo che contenga solo dell’acqua sterile, iniettando quindi potassio puro nella vena del paziente. Il risultato è un’immediata aritmia cardiaca con tutte le conseguenze nefaste che può determinare. Già pochi anni fa un bimbo era morto in un altro ospedale per un fatto similare e da allora il potassio è sempre stato custodito in un posto diverso da quello che contiene gli altri farmaci in modo da impedirne lo scambio. Ma come si vede questa volta l’evento si è verificato ugualmente con una dinamica differente ma quasi con gli stessi risultati.

Secondo la concezione tradizionale, i medici, i farmacisti e gli infermieri, non devono fare errori; l’errore medico è giudicato una colpa individuale. Negli ultimi anni invece si stanno sviluppando delle teorie che considerano l’errore in sanità come l’evento conclusivo di una catena di fattori, nella quale il contributo dell’individuo che l’ha effettivamente commesso è l’anello finale e non necessariamente il maggior responsabile.

Come dice James Reason, uno psicologo di Manchester che si è occupato proprio degli errori che possiamo commettere: "L'errore è un fatto abituale di qualsiasi esperienza umana la quale esperienza, da sempre, progredisce proprio imparando dai propri sbagli”. Entrambe le infermiere hanno commesso due errori notevoli, la prima lasciando un farmaco potenzialmente tossico sul comodino del paziente e la seconda prendendo quella siringa e immaginando, in modo assolutamente superficiale, che contenesse acqua.

 

Gli errori e le mancanze più ovvie sono in genere quelle che rappresentano la causa diretta dell’incidente e questi errori sono prevalentemente non intenzionali. Ma sono spesso fattori a monte che gettano le basi degli incidenti. Nella sanità è molto diffusa l’idea di colpa e quello che si pensa è sempre che dipendano da avventatezza o trascuratezza e immediatamente incolpiamo le persone che sembrano essere causa dell’incidente. Invece servirebbe soprattutto comprendere l’intero avvenimento non per non punire il colpevole ma per impedire che l’errore si ripeta un’altra volta.

Gli errori sono frequenti e compiuti anche dalle persone migliori e spesso sono scatenati da circostanze che sono fuori dal nostro controllo e la ricerca del colpevole diventa non tanto moralmente sbagliata ma irrilevante ai fini della sicurezza. Generalmente si imputa all’errore umano tutti gli incidenti che avvengono perché questo tranquillizza: se si elimina questa persona l’errore non si ripete. Invece l’operatore finale è chi fisicamente commette l’errore ma spesso ci sono fattori a monte che hanno determinato che l’incidente avvenisse.

I tanto paventati tagli alla sanità fanno solo pensare che ricadono sui cittadini con l’aumento dei ticket o la soppressione di esenzioni che ormai vengono ritenute un diritto acquisito portando al malumore dei cittadini. Ma questi stessi cittadini che mugugnano per non pagare qualche euro in più su una prestazione sanitaria non si rendono conto che il disastro maggiore non tocca solo a loro ma anche a chi lavora PER loro: la riduzione dei posti letti che porta a un sovraffollamento e a un turnover eccessivo nelle corsie e la riduzione del personale attraverso i pensionamenti che non vengono reintegrati da nuove assunzioni con una conseguente drastica riduzione  del personale e quindi a turni molto pesanti per il personale che deve lavorare. Spesso corsie sovraffollate hanno pochissimo personale che deve “arrangiarsi” come meglio può. Ma in situazioni di questo genere, la stanchezza, l’ansia, lo stress sono degli ottimi terreni su cui l’errore è sempre in agguato.

E’ giusto che l’individuo sia responsabile delle proprie azioni ma cerchiamo di non gettare tutte le croci solo su di lui, cercando anche di capire il contesto in cui l’errore è avvenuto per migliorarlo e cercare di evitare un nuovo errore.

 

 
 
 

REGOLE

Post n°96 pubblicato il 24 Settembre 2011 da veuve_cliquot

Raffaello Sanzio: La giustizia

 

I comportamenti di un individuo rispetto alle regole sociali devono essere regolamentati da leggi o fare in modo che nei cittadini si sviluppino dei comportamenti moralmente corretti? Evidentemente questa seconda ipotesi sarebbe la più auspicabile attraverso l’interiorizzazione della regola. Ma quanti di noi lo fanno realmente? Dal parcheggio selvaggio all’occupazione dei posti auto per portatori di handicap, al rispetto dei limiti di velocità al pagamento delle tasse, in Italia la regola imposta dalla legge è spesso poco seguita.

L’atteggiamento di coloro che seguono le regole solo per la paura della punizione e non le seguono quando pensano di non essere punti è il tipico atteggiamento dei bambini in cui la regola viene rispettata per timore dell’autorità e della punizione. Passare da questa morale imposta dall’esterno a una morale in cui il divieto viene accettato perché lo si ritiene giusto dovrebbe essere l’evoluzione dallo stato infantile allo stato adulto. Eppure spesso tra giudizio e comportamento vi possono essere molte discrepanze in quanto il comportamento è spesso succube anche di fattori emozionali, affettivi, sociali: regole che a mente fredda possono essere ritenute giuste, quando ci ritroviamo magari in compagnia non vengono seguite . E a questo atteggiamento vengono spesso trovate migliaia di ragioni come giustificanti della cattiva condotta (quante volte abbiamo sentito giustificare il parcheggio in seconda fila con un : solo due minuti…sono di fretta? Quante volte abbiamo ritenuto giusto non guidare dopo aver bevuto alcolici e invece ci siamo messi in macchina dopo una bella serata al ristorante?).

Ecco che l’interiorizzazione della regola da sola non basta e che quindi le regole e le eventuali punizioni sono necessarie. Io penso che il rispetto delle regole e l’eventuale punizione alla loro trasgressione dovrebbe rientrare nei metodi educativi. L’interiorizzazione delle regole dovrebbe essere messa in atto già dai primi anni di vita e il controllo sociale è assolutamente necessario, cosa che spesso manca nel nostro paese (chi osa ormai far alzare un ragazzo seduto sul pullman per far sedere un anziano? Chi osa richiamare qualcuno che getta per terra qualche cosa?).

E la punizione dovrebbe far parte del processo educativo in quanto una regola che si può impunemente ignorare perde progressivamente valore. Se non c’è differenza di trattamento tra chi rispetta la regola e chi non la rispetta, ciò  porterà a far pensare che quella regola vale ben poco e non verrà interiorizzata o, se la si è già interiorizzata, pian piano viene a cadere.

Ecco perché l’esempio che ci viene dato da chi ci governa (o ci dovrebbe governare) diventa importantissimo: se vediamo che queste persone non rispettano le regole e quando non le rispettano riescono a farla franca ognuno di noi potrà pensare che anche noi possiamo infrangerle e se per loro la punizione non arriva, perché dovrebbe arrivare per noi?

 

 
 
 

AMORE

Post n°95 pubblicato il 14 Settembre 2011 da veuve_cliquot

E. Hopper: Room in New York

Cos’è l’amore nella nostra cultura occidentale, come viene visto e interpretato in questa epoca di individualismo interconnesso in cui oggi viviamo? Se ci guardiamo indietro, dal medioevo in poi, la “passione d’amore” si è trasformata in “amore della passione”, del patire. Da Tristano e Isotta a Giulietta e Romeo, da Eloisa e Abelardo a Jacopo Ortis o al giovane Werther, gli ostacoli, i tradimenti, le lacrime, i tormenti e infine la stessa morte, sono diventati “misura” del vero amore: l’amore è vero solo se impossibile e fa versare tante lacrime. Ma, chi dice che il vero amore debba essere solo un bollettino di fatti tragici o piuttosto queste storie non sono un antidoto alla noia depressiva dei protagonisti?

 

Ancora oggi, nell’epoca di Internet, l’amore viene inteso soprattutto come emozione, come qualche cosa che non dipende da noi, che va, che viene, che ci sorprende per poi scomparire velocemente. La facilità con cui si possono instaurare i contatti permette il facile sviluppo di emozioni virtuali che spesso come arrivano se ne vanno per lasciare spazio a nuove emozioni. In rete è facile nascondere la propria identità e proporre un’immagine virtuale di sé e se la relazione rischia di diventare troppo vincolante, è facile disconnettersi. Poi, se la frequentazione passa dal web all’incontro, le sorprese spesso non mancano. E quella che sembrava essere un’emozione estremamente coinvolgente, crolla davanti alla realtà.

L’amore è certamente una passione, ma non è solo questo. Le passioni sono infatti qualche cosa che si patisce, che si subisce: esse sono passeggere, mutevoli, fugaci. L’amore non si risolve in una semplice fusione di anime: questo tipo di amore dura ben poco!

 L’amore non dovrebbe essere solo un sentimento passivo ma anche e soprattutto un atto impegnativo e voluto, una costruzione nel quale caratteri, identità, sensibilità diverse si incontrano e trovano modo di crescere e svilupparsi insieme. L’amore è qualche cosa che si impara perché esso è soprattutto una paziente costruzione. Se lasciamo tutto al caso, all’emozione, senza un atto di volontà forte, un impegno che deriva da una scelta per arrivare a un duraturo sentire comune, difficilmente le storie d’amore avranno lunga durata.

 

 
 
 

FALLIMENTI

Post n°94 pubblicato il 10 Settembre 2011 da veuve_cliquot

Henri Rousseau: Nave nella tempesta

 

Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto.”

Questa frase è tratta dal romanzo di G. Orwell  “1984”,  e non potrebbe indicare meglio quanto sta succedendo in questo periodo nel mondo occidentale. E senza dubbio  l’Italia non sarà una di quelle che avrà il fallimento migliore. Alla crisi politica, economica e morale italiana si aggiunge anche quella finanziaria, che pur  toccando tutto l’occidente,  trova noi italiani già malati per cui ha gioco più facile.

 

In un paese dove nel giro di pochi giorni vengono cambiate ben quattro finanziarie che dovrebbero essere lo strumento per salvarci dalla catastrofe, credo che anche la speranza che sia possibile salvarci, sia ormai scomparsa.

In un paese in cui qualsiasi piccolo sacrificio richiesto a una lobby che potrebbe dare consenso ai politici viene immediatamente ritirato e si finisce con il tassare indirettamente chi ha meno soldi (aumentando l’IVA e riducendo i finanziamenti a comuni e regioni).

In un paese in cui una pletora di politicanti  strapagati (chiamarli politici offenderebbe alcune grandi figure del passato che si rivolterebbero nella tomba), sa solo cianciare e porre ostacoli a qualsiasi miglioramento che tocca i propri interessi personali e di partito.

In un paese in cui l’opposizione l’unica cosa che sa fare è scagliarsi contro il governo in carica (come se, miracolosamente, la caduta del governo raddrizzerebbe i nostri conti)  invece di pensare a cosa può fare per aiutare a risollevarci.

In un paese in cui qualsiasi iniziativa che potrebbe dare lavoro deve passare sotto le forche caudine di leggi, leggiucole e soprattutto interessi privati e popolari e si accettano scontri e sommosse che bloccano tutto.

In un paese in cui l’unico welfare rimasto è quello familiare  in cui i padri e le madri dovranno continuare a lavorare fino allo sfinimento per mantenere i propri figli che invece non trovano  nessun lavoro.

In un paese in cui i sindacati sono rimasti all’età della pietra e non  riescono a rendersi conto che l’economia è ormai globale e continuano a difendere piccoli interessi settoriali, rifiutando pochi licenziamenti (perché questa per loro è una parola maledetta)  rischiando la chiusura dell’azienda e la cassa integrazione per tutti.

In un paese in cui tutti ritengono di avere diritti e nessun dovere, in cui la sanità è un pozzo senza fondo e i troppi benefici sanitari concessi in passato,  porteranno al nessun beneficio per le generazioni future, anche per chi ne avrebbe diritto.

In un paese in cui ci si indigna se qualcuno ci dice che forse dovremmo migliorare i nostri conti e accusa di mancanza di solidarietà chi ormai è stufo di vedere i propri soldi buttati al vento per aiutare chi non sa reggersi sulle proprie gambe.

 

Personalmente mi sento come se fossi su  una nave che ormai non ha più timone ed è in balia di una tempesta e l’unica cosa che si può fare è pregare  affinché  la tempesta passi prima che la nave affondi.

 
 
 

MALVAGITA'

Post n°93 pubblicato il 04 Settembre 2011 da veuve_cliquot

Tiziano Vecellio: Caino e Abele

"Torno, Maestro, a parlare della malvagità osservando che la sua vera forza non risiede negli stessi malvagi ma nella rinuncia ad avversarla. La malvagità non è prevalente negli uomini, come non è prevalente la generosità. Vi sono uomini in cui prevale l'una o l'altra indole, ma l'umanità in generale non inclina a priori per la malvagità o per la bontà. Nell'infinita e informe zona grigia che separa le due estremità si annida una rassegnata complicità con la malvagità e un'omertà remissiva verso la prepotenza, che induce a scendere a patti con lei, perché appare più forte e vincente. Meglio servire chi ci fa del male -si pensa- perché cesserà di nuocere ai suoi servitori; meglio farsi alleati del più prepotente per indurlo a spostare su altre vittime l'esercizio della sua cattiveria. Così la malvagità dilaga e alla fine comanda, e diventa il modello cui conformarsi. Ma è la viltà altrui la ragione del suo successo.

L'uomo, dimmi se sbaglio, Seneca, non nasce cattivo e nemmeno buono, ma per difendersi o per vivere meglio sceglie la strada in discesa, che gli sembra più facile. La via più breve, di solito, è quella che costa meno, dove rischi di meno tollerando di più. Meglio avere per nemici i generosi che se trionferanno saranno più clementi, piuttosto che i feroci che saranno di certo impietosi. La malvagità trionfa più facilmente perché incute paura e genera servi e alleati. Tenersi buoni i malvagi, perché i buoni lo sono già da se stessi."

Questo brano è tratto dal libro di Marcello Veneziani, che sto leggendo,  "Vivere non basta. Lettere a Seneca sulla felicità", dove l'autore immagina che siano state ritrovate le lettera che Lucilio avrebbe scritto a Seneca in risposta a quelle che il Maestro gli inviava.

Devo riconoscere che questo brano mi ha colpito molto perché mi ha dato un punto di vista diverso sulla malvagità, con cui non si può non convenire. Credo che tutti noi abbiamo conosciuto persone che abbiamo ritenuto malvage e ci siamo chiesti spesso come abbiano fatto ad accedere a certi posti di comando. Veneziani ce ne dà una ragione assolutamente realistica. La malvagità governa perché incontra ignavi e codardi che per interesse, quieto vivere o mancanza di coraggio si adattano pur di continuare a vivere senza problemi. In questi giorni ricorre, come mi ha fatto ricordare un amico sul suo blog, l'anniversario della morte di don Puglisi, uno di quegli uomini (pochi in verità) che ha voluto sfidare la malvagità, che quindi non apparteneva a quella zona grigia di cui parla Veneziani che invece è quella in cui sta la maggioranza delle persone. Un uomo che ha saputo sfidare la malvagità e ha perso la propria vita. E come lui molti altri, rari esempi di coerenza alle proprie idee contro i malvagi.

Sicuramente chi appartiene a quella zona grigia penserà che sono stati stupidi a sfidare i malvagi, che in fondo è molto più intelligente chi si sa adattare alle situazioni scendendo a patti con chi è più forte. Se tiriamo le somme, hanno anche ragione, loro sono vivi, gli altri morti.

Leonardo Sciascia scriveva: "Ci sono gli uomini, i mezz' uomini, gli ominicchi e i quaraquaquà". Certamente don Puglisi apparteneva alla categoria degli uomini. E gli altri, a quale categoria appartengono?

 
 
 

PUDORE

Post n°92 pubblicato il 01 Settembre 2011 da veuve_cliquot

Masaccio: La cacciata dal paradiso terrestre

 

 “L’uomo è l’unico animale che arrossisce ma è anche l’unico ad averne bisogno”. E’ una frase di Mark Twain, ma più passa il tempo, meno persone vedo arrossire. In una società come la nostra in cui l’occhio dell’altro è portato ad intrufolarsi ovunque trovando dall’altra parte altrettanta disponibilità all’esibizione, credo che la parola pudore non trovi più posto. Il pudore è una condotta che può essere considerata da diversi punti di vista, etico, etnico, sociologico, religioso e quindi subisce le pressioni dell’ambiente: esso è una realtà di comportamento, una condotta di relazione e può subire, come di fatto ha subito e subisce, le pressioni e le oscillazioni dell'ambiente non solo presso i cosiddetti popoli primitivi, ma anche presso quelli civili e nelle varie epoche di civiltà.

Ormai viviamo in un mondo che vuole la pubblicizzazione del privato: nella nostra società consumistica in cui le merci per essere vendute devono essere pubblicizzate, anche gli esseri umani hanno la sensazione di esistere solo mettendosi in mostra. Il mondo è diventato un enorme supermercato e chi non si mette in mostra, chi non si pubblicizza, non sollecita gli altri, non li coinvolge. Per esserci bisogna allora apparire. E chi non ha nulla da mettere in mostra, che sia una merce, un corpo, un’abilità, allora mette in mostra la propria interiorità, alla ricerca di una trasparenza  e di una sincerità a tutti i costi. Anche nella moderna Confessione l'individuo mira solo ad essere glorificato dalla società e a compensare in ammirazione per la sua sincerità quella riprovazione che sa di meritare per i singoli comportamenti trasgressivi sui quali si compiace di intrattenere gli altri. Così, pur avendo fallito, ammettere il proprio fallimento diventa un modo per mostrarsi autentico agli occhi degli altri divenuti un’autorità in campo morale.

La televisione, i giornali,  le community diventano sempre più indiscreti, attraverso confessioni intime, emozioni in diretta, storie d’amore. E l’individuo consegna agli altri la sua parte più intima, i suoi sentimenti, le sue emozioni, con una perdita totale di pudore che di trasforma in spudoratezza. E a questo punto, questi sentimenti, queste emozioni non sono più personali ma diventano proprietà comune e il messaggio che fanno passare è che  il pudore non è più una virtù, ma lo è diventata la spudoratezza: essa diventa sinonimo di sincerità  e di libertà mentre il pudore diventa simbolo di insincerità, di chiusura in se stessi, di inibizione. La riservatezza viene considerata un tradimento, mentre l’esibizione di sé è verità e lealtà verso gli altri. Il pudore viene deriso in tutte le sue manifestazioni ed è osteggiato come una forma di oscurantismo, come il residuato di una mentalità arcaica, incentrata sulla rimozione del sesso e degli aspetti corporei dell’esistenza umana. Invece il pudore è un sentimento che nasce e si sviluppa dal bisogno di proteggere la propria intimità e l’intimità altrui, ma ormai le sole cose che custodisce sono la malattia e la morte, unici mostri da tenere nascosti!

 

 
 
 

ONORE

Post n°90 pubblicato il 26 Agosto 2011 da veuve_cliquot

 

Antica Stampa Giapponese: Samurai

 

“Honesta mors turpi vita potior (una morte onorevole è migliore di una vita di vergogna)”. Chissà quante persone leggendo questa frase di Tacito, concordano con lui. In questa nostra società, penso pochissimi.

Suona strano oggi parlare di senso dell’onore, una virtù desueta, un valore ormai non più di moda.

 

L’onore non è esattamente un sentimento, è qualcosa di più costruito che appartiene  a un sistema di regole sociali: è il senso della propria dignità e rispettabilità sul piano sociale.

In realtà esistono due forme di onore: una esteriore che è la stima che gli altri hanno di noi; una interiore che è la stima che noi abbiamo di noi stessi

Una volta per onore si intendeva una condotta di vita ispirata a onestà e integrità morale. Ma adesso che la coerenza non è più una virtù, non lo sono neppure l’onestà e la rettitudine. In effetti in una società come la nostra, dove il profitto a tutti i costi è diventato lo scopo della vita, dove l’unica vergogna che esiste è quella di non avere successo, di essere “nessuno”, l’onore non rappresenta più un valore.

 

L’onore è guardarsi allo specchio senza doversi vergognare. Ma se i principi morali sono assenti, se manca il termine di paragone a cui fare riferimento per il proprio agire, gli esseri umani non provano più neppure vergogna a guardarsi allo specchio.

E stranamente questa parola ormai viene usata solo per indicare i mafiosi, “uomini d’onore”: essa è stata degradata al punto di rappresentare dei criminali!

 

 

Forse bisognerebbe ricominciare un po’ a riscoprire il senso di questa parola per combattere la logica dell’arricchimento a qualunque costo, per riscoprire leggi morali e impedire di svendere i propri principi e persino il proprio corpo alla fiera della vanità

 
 
 

APPARIRE

Post n°89 pubblicato il 22 Agosto 2011 da veuve_cliquot

P. Delvaux: Lo specchio

Di molte persone si può affermare quanto vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la cornice”. La moglie di un mio amico si dilettava di pittura. Il marito, suo ammiratore e innamorato, inseriva quei dipinti in preziose cornici antiche. Durante una vacanza i ladri visitarono l’abitazione e al ritorno, allibiti, i coniugi trovarono per terra tutte le tele, naturalmente senza le cornici. Nella frase sopra citata Emile Cioran, l’ateo teologo di cui celebriamo quest’anno il centenario, sembra trasformare in metafora il mio apologo. Sì, molti sono tutto e solo cornice, cioè apparenza, esteriorità, vanità, finzione, illusione: sotto il vestito, niente. La regola capitale del successo è, soprattutto nell’era televisiva, l’apparire, il trucco, la superficie. Per dirla con un collega di Cioran, Gide: “In questo mondo l’importante è non avere mai l’aria di ciò che si è”. Ricordiamo, allora che non è tutto oro quello che luccica, ma in verità neppure tutto quello che è oro, luccica”.

Sono parole scritte da Gianfranco Ravasi nel Domenicale del sole24ore con cui non possiamo non concordare. Ma quanti di noi conoscono anche nella vita di tutti i giorni persone così? Quanto il virtuale e soprattutto la televisione stanno creando splendidi contenitori di nulla? Quanto questi contenitori senza contenuto stanno diventando modelli nella nostra società? Apparire o essere (parafrasando Fromm)?

Nella nostra società la maggior parte dei rapporti si basano ormai sull’apparire ma l’apparire è la cosa più facilmente falsificabile, la maschera che ognuno di noi può indossare per sembrare quello che non è. La persona diventa quello che appare, esiste negli altri per quello che attraverso l’apparenza è riuscita a far credere quindi non esiste per quello che è, esiste per quello che appare.

Ma questo apparire quanto è pieno di contenuti? Cosa si nasconde dietro quello che si è voluto far credere? Gli altri percepiscono il contenitore e lo scambiano per il contenuto. E quando questo modo di essere viene proposto attraverso i mass media, quali sono i messaggi che vengono introiettati in coloro che invece, scambiando questa apparenza con la realtà, pensano che questo sia il traguardo da raggiungere e il modello da imitare?

 
 
 

OZIO

Post n°88 pubblicato il 15 Agosto 2011 da veuve_cliquot

J-A Watteau: Le gioie della vita

Piccolo post dedicato a chi, in questo pomeriggio di ferragosto, ha preferito restarsene a casa.

La vita di tutti i giorni ci chiede di produrre a ritmi sempre più accelerati, si vive assillati dall'orologio, come se la vita fosse una serie di tappe al cronometro. E anche le vacanze vengono spesso programmate come tappe da raggiungere e il "tempo libero" deve essere travolto da frenetici tentativi di divertirsi a tutti i costi. E guai a non avere a portata di mano un cellulare o un p.c. (o qualsiasi altra diavoleria che ci tiene sempre collegati) per essere sempre raggiungibili. (Ai fanatici della raggiungibilità vorrei ricordare una frase detta da Gianni Agnelli quando un giornalista gli chiese come mai non aveva un cellulare: Solo gli schiavi sono sempre raggiungibili!). Senza questa rincorsa al divertimento o alla connessione, non si sa come riempire i momenti vuoti della nostra esistenza, si ha il terrore della solitudine.

Invece bisognerebbe dare valore a quei momenti della nostra esistenza che non dedichiamo al lavoro, ad attività produttive, riscoprendo il gusto di riflettere e di guardare in prospettiva la nostra vita: riscoprire cioé il valore dell'ozio. Ormai si percepisce l'ozio come noia, se non con un significato negativo, mentre è esattamente il contrario: l'ozio non è un vizio, ma un lusso, è tempo per noi stessi e non avere tempo è la vera povertà, possederne è veramente un lusso.

Bisognerebbe ricominciare ad apprezzare l'ozio come momento per rimettersi al servizio di se stessi e non degli altri, come momento per apprendere e come tempo per godere: della lettura, della conversazione, del sogno, e anche dell'amore. Come tempo per fermarsi e guardarsi intorno, non più ossessionati dalle lancette dell'orologio, per scoprire cose che non abbiamo mai visto, fuori e dentro di noi. E dovremmo imparare a non sentirci in colpa dei nostri momenti di ozio, la maggior parte delle cose per cui ci affrettiamo sono spesso inutili, servono solo a riempire inutilmente il tempo o forse a farci sentire importanti.

Recuperiamo quindi un po' di ozio, per riappropriarci del nostro tempo e della nostra vita.

 
 
 

DONNE

Post n°87 pubblicato il 13 Agosto 2011 da veuve_cliquot

H. de Toulouse-Lautrec: La danse au Moulin Rouge

Secondo una ricerca della società italiana di medicina, le donne usano ansiolitici e antidepressivi, due volte e mezzo più degli uomini.

Negli ultimi anni la percentuale di donne etiliste è triplicata, arrivando a un quarto degli uomini.

Il 21% delle donne italiane fuma, smettono ma poi riprendono molto più facilmente degli uomini.

L’8% delle donne italiane è obesa, mentre il 23.5% è in sovrappeso.

E le statistiche dicono che questi dati sono in aumento.

Perché tutte queste dipendenze da alcool, fumo, cibo nelle donne? Cosa spinge una donna a ricercare conforto in queste “droghe”? Forse quando si deve conciliare tutto, lavoro, casa, famiglia e magari amore, ecco che arriva l’ansia e con l’ansia la ricerca di qualche cosa che ci liberi da essa come l’alcol, gli ansiolitici o il cibo. E spesso queste dipendenze si cerca di nasconderle, si vivono in solitudine: al massimo si confessa che si beve solo quando si è in compagnia, si nega l’uso di ansiolitici, si ingrassa (perché questo è visibile), non mangiando nulla, dando la colpa a qualche ipotetica disfunzione.

Forse bisognerebbe fermarsi un attimo e riflettere che se un certo tenore di vita ci porta a usare qualche “supporto” per venirne a capo, vuol dire che questo tenore di vita non è adatto a quella persona. Ma ormai la società vuole una donna sempre perfetta, lavoratrice migliore dell’uomo (dobbiamo dimostrare di esserlo), moglie perfetta (da mulino bianco), mamma meravigliosa (da libro cuore), elegante e femminile (da copertina), amante instancabile (da film hard). Forse rendersi conto che riuscire a conciliare tutte queste cose è un obiettivo troppo difficile da raggiungere, che i modelli che la società ci presenta sono costruiti su un modello maschile che però ha sempre delegato ad altri (prima la madre e poi la moglie ) buona parte di ciò che invece la donna ritiene di dover fare, accollandosi sia il vecchio modello maschile (lavoro) che quello femminile (famiglia) non tralasciando la propria femminilità. E allora si manda giù il bicchierino per tirarsi su, si accende la sigaretta per rilassarsi un attimo, si prende l’ansiolitico per vincere l’ansia di non farcela, si butta giù cibo per resistere. Ma siamo veramente convinte che questo porti la donna a una vita migliore o tutti questi modelli non siano ulteriori cappi che le donne si stanno mettendo intorno al collo? Se il prezzo da pagare è l’alcolismo o la depressione, penso che siano prezzi piuttosto alti da pagare per raggiungere le “pari opportunità”.

 

 

 
 
 

CORRUZIONE

Post n°86 pubblicato il 10 Agosto 2011 da veuve_cliquot

 

"Gli Stati Parte alla presente Convenzione, preoccupati dalla gravità dei problemi posti dalla corruzione e dalla minaccia che essa costituisce per la stabilità e la sicurezza delle società, minacciando le istituzioni ed i valori democratici, i valori etici e la giustizia e compromettendo lo sviluppo sostenibile e lo stato di diritto...". E' questo il preambolo della Convenzione delle Nazioni Unite dell'Ottobre 2003. In un articolo del sole24ore dello scorso Luglio, Guido Rossi si chiede se sia dunque la corruzione il male e la disgrazia del nuovo millennio. Probabilmente sì: quando il più importante criterio per valutare una "buona vita" è la ricchezza e il suo raggiungimento diventa l'unico valore della vita, la corruzione diventa uno degli strumenti utilizzati.

I casi di corruzione a cui assistiamo quasi quotidianamente in Italia, la dicono lunga sull'importanza e la diffusione del fenomeno: dalle tangenti ai privilegi, dal clientelismo alla distribuzione dei posti pubblici e ai favori in cambio di sostegni elettorali, tutto questo ormai è endemico in Italia.

Lottare contro la corruzione diventa essenziale non solo per la soluzione dei problemi di sviluppo economico, delle diseguaglianze, della crescente disoccupazione e povertà, della difesa delle classi più deboli, ma soprattutto per la sopravvivenza della stessa democrazia e la cultura della giustizia, della dignità e della libertà dovrebbe prendere il sopravvento sulla cultura della corruzione.

Quanto ancora ci indignamo davanti alla corruzione dilagante nel nostro paese? Mi sembra che ormai stiamo quasi diventando indifferenti davanti alle notizie che giornalmente riempiono i giornali e la televisione, borbottiamo qualche cosa per poi rioccuparci del "nostro orticello". Quanti di noi davanti a una proposta molto allettante si farebbero corrompere? La corruzione non è solo quella delle "alte sfere" ma la possiamo incontrare anche nel nostro piccolo. Ed è proprio dal nostro piccolo che dovremmo cominciare a ribellarci, e non insegnare ai nostri giovani che basta una raccomandazione o una piccola mazzetta o uno scambio di favori per ottenere qualche cosa.

 
 
 

BIODIVERSITA'

Post n°85 pubblicato il 08 Agosto 2011 da veuve_cliquot

V. Van Gogh: Campo di grano con cipressi

Chi come me ha superato il mezzo secolo sicuramente avrà qualche ricordo infantile della campagna o perché abitava in qualche paesino o magari perché ci abitavano i nonni. E sicuramente ricorderà dei "sapori" che adesso non riesce più a ritrovare. Io ricordo delle piccole mele, irregolari e puntualmente bacate ma con un sapore che non ho più ritrovato. E un albero di pesche di cui si sentiva il profumo a distanza di diversi metri o delle piccole susine gialle, dolcissime. E un enorme albero di fichi, con frutti piccoli e dolcissimi in cui si formava nella parte inferiore una specie di miele, fichi che dovevamo contendere a uccelli e api. Ora, quando compriamo la frutta, i pezzi sono tutti perfettamente uguali e torniti, senza un baco o una piccola imperfezione ma spesso "incolore, inodore, insapore".

L'incipit di questo post mi è venuto in mente leggendo un articolo del National Geographic del mese di Luglio intitolato "L'arca del cibo" dove si parla di come per aumentare la produttività siano ormai state selezionate poche specie ad alta resa, le cui principali caratteristiche devono essere l'aspetto uniforme e il sopportare bene il trasporto. Ormai l'alimentazione del pianeta dipende da poche specie di piante e animali, avendo lasciato estinguere moltissime varietà autoctone. E questo può diventare un problema in quanto se le poche specie o razze che attualmente utilizziamo dovessero essere decimate da una malattia o da variazioni climatiche, il problema sarebbe estremamente serio: piantare su terreni molto estesi solo una varietà di semi geneticamente uniformi, permette di aumentare la resa e sfamare molta gente nel breve periodo, ma le varietà ad alto rendimento sono anche piante geneticamente più deboli e perciò richiedono l'uso di fertilizzanti chimici e pesticidi tossici. Lo stesso vale per il bestiame ad alto rendimento che spesso ha bisogno di mangimi e farmaci costosi

L'uomo ha impiegato circa diecimila anni per creare la biodiversità alimentare che invece adesso stiamo facendo scomparire a favore delle alte rese nel breve periodo. Per arginare la perdita della biodiversità che nel futuro potrebbe diventare indispensabile si è cominciato a raccogliere e mettere al sicuro i semi delle più diverse varietà di colture prima che scompaiano per sempre. Certo, la resa di un prodotto è importante, ma è importante anche mettersi al riparo da malattie, siccità, inondazioni avendo alternative su cui contare. Con il riscaldamento globale, per esempio,  l'umanità avrà bisogno di piante e animali che crescono in condizioni climatiche differenti e che non sono quelle che invece coltiviamo e alleviamo attualmente.

La sfida è aumentare la produttività senza sacrificare la diversità. E fa piacere pensare che al mondo esistono persone che lavorano a questo scopo, per un futuro che forse non è poi così lontano. E chissà se questa diversità non riporti alle generazioni future quei sapori e profumi che ormai si sono persi e che solo i "vecchi" ricordano!

 
 
 

OVVIO

Post n°84 pubblicato il 30 Luglio 2011 da veuve_cliquot

R. Magritte: Ritratto di Edward James

Il turista tedesco che trovandosi a campeggiare vicino all’isola di Utoya, rendendosi conto di quello che stava succedendo, è salito sulla sua barchetta e in questo modo ha salvato molti ragazzi, alla domanda delle ragioni per cui l’avesse fatto ha risposto che la cosa gli era sembrata “ovvia”.

Dal dizionario italiano si apprende che questa parola significa: che si impone immediatamente e naturalmente al pensiero. Sinonimi di ovvio sono: evidente, naturale, logico, lampante, chiaro….

Ma stranamente questa ovvietà spesso sfugge a molte persone: il caso avvenuto nei pressi della metropolitana di Roma in cui un uomo sferra un pugno a una donna e questa cade ma tutti coloro che passano davanti al corpo caduto della donna non si fermano, non guardano, non danno aiuto, o i bagnanti che continuano a prendere il sole mentre accanto a loro c’è un cadavere coperto da un telo bianco, o i passanti che scavalcano il cadavere di un uomo ucciso con un colpo di pistola o quelli che assistono al massacro di una filippina da parte di un uomo e non intervengono a fermarlo.

Probabilmente tutte queste persone non conoscono il significato della parola “ovvio”, nessuno di loro guarda, si ferma, interviene. Nei campi di concentramento nazisti guardare la punizione di un compagno equivaleva a una condanna a morte: bisognava ignorare e far finta di nulla continuando il proprio lavoro. Ma le nostre città, la nostra vita non è quella dei campi di concentramento nazisti. Oppure le persone sono diventate come gli internati di quei campi in cui era stata soppressa ogni idea di individuo, di persona, di umanità? Le persone sono diventate cadaveri viventi incapaci di pietà, di sensibilità, di reazioni emotive? L’unico sentimento che è rimasto loro sembra esclusivamente la paura di venire coinvolti.

 

 
 
 

STUPRI DI GUERRA

Post n°83 pubblicato il 28 Luglio 2011 da veuve_cliquot

Giambologna: Il ratto delle Sabine

 

Qualche sera fa su RAI storia (uno dei pochi canali della RAI che vale la pena guardare), è stato messo in onda un documentario su quello che fecero le truppe francesi coloniali alla popolazione della ciociaria dopo la caduta di Cassino, fatto diventato famoso attraverso il libro di Moravia e successivamente il film “La ciociara”.

Quello che ho provato è stato orrore: Il generale Juin, al termine della battaglia di Cassino, diede ai suoi reparti militari marocchini, come premio della vittoria, carta bianca per due giorni, che implicava il diritto di vita e di morte sulle popolazioni civili, il furto dei loro beni e la violenza sulle donne: donne e bambine vennero brutalmente stuprate dai “vincitori”. La furia bestiale che si abbattè sulle campagne e sui villaggi italiani è ancora in parte sconosciuta, salvo che alle 60.000 donne, adolescenti e bambine, che ne furono le vittime. Un episodio di cui la storia dovrebbe vergognarsi ma gli stupri di guerra sono sempre esistiti, in tutte le guerre, dalle più antiche a quelle che ancora insanguinano la terra.

Fin dall’antichità le donne sono state considerate bottino di guerra, dal ratto delle Sabine all’Iliade dove Achille si adira contro Agamennone per la sottrazione della sua schiava preferita. Da sempre in guerra violentare le donne dei nemici non solo è tollerato, ma autorizzato e suggerito in quanto lo stupro, oltre a permettere ai soldati di sfogare sadismi repressi, colpisce gli avversari nella "proprietà " allo stesso modo che il saccheggio e la distruzione: quando l 'uccidere è visto come un comportamento non solo ammissibile ma addirittura eroico, sanzionato dal proprio governo o dalla propria causa, la sottile distinzione fra la soppressione di una vita umana e altre forme di intollerabile violenza va perduto  e lo stupro diventa una deplorevole ma inevitabile conseguenza.  La violenza sessuale è una parte significativa del conflitto, un modo per terrorizzare intere comunità ed implementare politiche di genocidio e "pulizia etnica" secondaria alla guerra.  Soldati regolari ed irregolari hanno sempre saputo che, nel dopoguerra, le loro azioni sarebbero state biasimate, ma all'interno di una nozione culturale largamente diffusa, ovvero che gli uomini fanno cose irrazionali durante un conflitto armato per cui per molti secoli lo stupro è stato definito non come un attacco violento alla donna, ma come l'ingiuria alla "proprietà" di un altro uomo. Per lungo tempo sottovalutata, la violenza sulle donne ha rappresentato uno dei prezzi più alti che un popolo ha dovuto pagare per la sconfitta e l'occupazione militare. E il trauma delle vittime non sempre è stato superato, anche a causa della congiura del silenzio praticata da famigliari e comunità. Le donne continuano a pagare un prezzo altissimo nei conflitti in atto nel mondo: indifese e vulnerabili, esse sono l'oggetto dell'arma di guerra più spregevole, la violenza sessuale.  Esse diventano beni mobili, oggetti di proprietà ad arbitraria disposizione delle forze di occupazione. Durante ogni guerra le donne divengono letteralmente i bersagli dei combattenti: picchiate, mutilate, sfregiate, violentate, le donne coinvolte nelle guerre degli uomini sono le vittime silenziose dei conflitti e spesso queste donne invece di ricevere sostegno dalla società, sono respinte, rifiutate, costrette al silenzio. Sono vittime due volte.

Il processo di Norimberga non ne fece cenno (probabilmente sapendo che i vincitori non si erano comportati meglio dei vinti) e  nel 1949 lo stupro viene ancora definito come lesione all'onorabilità ed alla decenza, e non come lesione alla persona umana che lo subisce. Solo il 17 luglio 1998 i plenipotenziari delle Nazioni unite approvano lo Statuto della Corte Penale Internazionale che include fra i crimini contro l’umanità “stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità”.

Oggi il diritto internazionale stabilisce che la violenza sessuale durante un conflitto è crimine di guerra contro l’umanità, ma chi potrà mai “compensare” ciò che non potrà mai essere dimenticato?

 

 
 
 

QUESTO BLOG

Perché un altro blog? Non credo che il mondo ne abbia necessità ed esso non nasce nemmeno da un mio bisogno di esprimere fatti o sensazioni personali.

Non sarà quindi né un diario personale, né una valvola di sfogo di sentimenti ed emozioni.

Scriverò di fatti, articoli di giornali, libri, frasi che mi hanno fatto pensare, ragionare, riflettere, che mi sono piaciuti o non piaciuti, che hanno risvegliato il mio senso critico e anche qualche rotellina un po' arrugginita del mio cervello.

Sarà il blog di una persona che ritiene ancora di avere un cervello pensante libero da ideologie, dottrine, fedi e prese di posizione o di campo acefale.

 

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