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Amare e Desiderare la Vita

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Post n°2 pubblicato il 04 Gennaio 2007 da ufficiofamiglia.na

AMARE E DESIDERARE LA VITA


Non si può non amare la vita: è il primo e il più prezioso bene per ogni essere umano. Dall’amore scaturisce la vita e la vita desidera e chiede amore. Per questo la vita umana può e deve essere donata, per amore, e nel dono trova la pienezza del suo significato, mai può essere disprezzata e tanto meno distrutta. Certo, i giorni della vita non sono sempre uguali: c’è il tempo della gioia e il tempo della sofferenza, il tempo della gratificazione e il tempo della delusione, il tempo della giovinezza e il tempo della vecchiaia, il tempo della salute e il tempo della malattia... A volte si è indotti spontaneamente ad apprezzare la vita e a ringraziarne Dio, “amante della vita” (Sap 11,26), altre volte la fatica, la malattia, la solitudine ce la fanno sentire come un peso.
Ma la vita non può essere valutata solo in base alle condizioni o alle sensazioni che la caratterizzano nelle sue varie fasi; essa è sempre un bene prezioso per se stessi e per gli altri e in quanto tale è un bene non disponibile. La vita, qualunque vita, non potrà mai dirsi “nostra”. L’amore vero per la vita, non falsato dall’egoismo e dall’individualismo, è incompatibile con l’idea del possesso indiscriminato che induce a pensare che tutto sia “mio”; “mio” nel senso della proprietà assoluta, dell’arbitrio, della manipolazione. “Mio”, ossia ne posso fare ciò che voglio: il mio coniuge, i miei figli, il mio corpo, il mio presente e il mio futuro, la mia patria, la mia azienda, perfino Dio al mio servizio, strumentalizzato fino al punto da giustificare, in suo nome, omicidi e stragi, nel disprezzo sommo della vita.
Se siamo attenti, qualcosa dentro di noi ci avverte che la vita è il bene supremo sul quale nessuno può mettere le mani; anche in una visione puramente laica, l’inviolabilità della vita è l’unico e irrinunciabile principio da cui partire per garantire a tutti giustizia, uguaglianza e pace. Chi ha il dono della fede, poi, sa che la vita di una persona è più grande del percorso esistenziale che sta tra il nascere e il morire: ha origine da un atto di amore di Colui che chiama i genitori a essere “cooperatori dell’amore di Dio creatore” (FC n. 28). Ogni vita umana porta la Sua impronta ed è destinata all’eternità. La vita va amata con coraggio. Non solo rispettata, promossa, celebrata, curata, allevata. Essa va anche desiderata. Il suo vero bene va desiderato, perché la vita ci è stata affidata e non ne siamo i padroni assoluti, bensì i fedeli, appassionati custodi.
Chi ama la vita si interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla, sapendo però che il diritto alla vita non gli dà il diritto a decidere quando e come mettervi fine. Amandola, combatte il dolore, la sofferenza e il degrado – nemici della vita – con tutto il suo ingegno e il contributo della scienza. Ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà. Né si accanirà con terapie ingiustificate e sproporzionate. Nei momenti estremi della sofferenza si ha il diritto di avere la solidale vicinanza di quanti amano davvero la vita e se ne prendono cura, non di chi pensa di servire le persone procurando loro la morte.
Chi ama la vita, infatti, non la toglie ma la dona, non se ne appropria ma la mette a servizio degli altri. Amare la vita significa anche non negarla ad alcuno, neppure al più piccolo e indifeso nascituro, tanto meno quando presenta gravi disabilità. Nulla è più disumano della selezioni eugenetica che in forme dirette e indirette viene sempre più evocata e, a volte, praticata. Nessuna vita umana, fosse anche alla sua prima scintilla, può essere ritenuta di minor valore o disponibile per la ricerca scientifica. Il desiderio di un figlio non da diritto ad averlo ad ogni costo. Un bambino può essere concepito da una donna nel proprio grembo, ma può anche essere adottato o accolto in affidamento: e sarà un’altra nascita, ugualmente prodigiosa.
Il nostro tempo, la nostra cultura, la nostra nazione amano davvero la vita? Tutti gli uomini che hanno a cuore il bene della vita umana sono interpellati dalla piaga dell’aborto, dal tentativo di legittimare l’eutanasia, ma anche dal gravissimo e persistente problema del calo demografico, dalle situazioni di umiliante sfruttamento della vita in cui si trovano tanti uomini e donne, soprattutto immigrati, che sono venuti nel nostro Paese per cercare un’esistenza libera e dignitosa. È necessaria una decisa svolta per imboccare il sentiero virtuoso dell’amore alla vita. Non bastano i “no” se non si pronunciano dei “sì”, forti e lungimiranti a sostegno della famiglia fondata sul matrimonio, dei giovani e dei più disagiati.
Guardiamo con particolare attenzione e speranza ai giovani, spesso traditi nel loro slancio d’amore e nelle loro aspettative di amore. Capaci di amare la vita senza condizioni, capaci di una generosità che la maggior parte degli adulti ha smarrito, i giovani possono però talora sprofondare in drammatiche crisi di disamore e di non-senso fino al punto di mettere a repentaglio la loro vita, o di ritenerla un peso insopportabile, preferendole l’ebbrezza di giochi mortali, come le droghe o le corse del sabato sera. Nessuno può restare indifferente.
Per questo, come Pastori, vogliamo dire grazie e incoraggiare i tanti adulti che oggi vivono il comandamento nuovo che ci ha dato Gesù, amando i giovani come se stessi. Grazie ai genitori, ai preti, agli educatori, agli insegnanti, ai responsabili della vita civile, che si prendono cura dei giovani e li accolgono con i loro slanci entusiasti, ma anche con i loro problemi e le loro contraddizioni. Grazie perciò a quanti investono risorse per dare ai giovani un futuro sereno e, in particolare, una formazione e un lavoro dignitosi.
Sì, la vita umana è un’avventura per persone che amano senza riserve e senza calcoli, senza condizioni e senza interessi; ma è soprattutto un dono, in cui riconosciamo l’amore del Padre e di cui sentiamo la dolce e gioiosa responsabilità della cura, soprattutto quando è più debole e indifesa. Amare e desiderare la vita è, allora, adoperarsi perché ogni donna e ogni uomo accolgano la vita come dono, la custodiscano con cura attenta e la vivano nella condivisione e nella solidarietà.


Il Consiglio Episcopale Permanente


novembre 06

Commenti al Post:
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Anonimo il 04/01/07 alle 22:44 via WEB
Amare e desiderare la Vita è un messaggio forte in un momento in cui tutti abbiamo bisogno di parole chiare sul significato della vita e sui valori della vita. La cultura dell'indifferenza alla Vita è come o peggio della cultura della morte. Tra le tante parole che vanno in rete, dovremmo lanciarne tante, tante a favore dei valori della vita. La vita va vissuta dall'inizio alla fine e va difesa dall'inizio alla fine. Marialucia
 
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Anonimo il 06/01/07 alle 18:23 via WEB
La giornata per la vita offre l'occasione alle tantissime famiglie cristiane di Napoli di annunciare i valori in cui credono e di testimoniare con la loro presenza il sano ottimismo che le distingue e la speranza cristiana che le anima. Le invito a partecipare compatte alle iniziative del 4 febbraio. sac.Raffaele ponte, direttore Ufficio Diocesano Famiglie
 
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Anonimo il 08/01/07 alle 22:54 via WEB
La celebrazione del Battesimo di 6 neonati di domenica 7/1, presieduta dal nostro Arcivescovo, é un'ulteriore riprova che tante famiglie promuovono, amano e lottano per comunicare la vita, e non solo quella fisica. A tutti noi il compito di contagiare gli altri a questo meraviglioso valore. RP.
 
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Anonimo il 09/01/07 alle 12:07 via WEB
vita
 
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Anonimo il 09/01/07 alle 16:39 via WEB
Una preghiera speciale e un ringraziamento sincero a quanti, con grande senso di responsabilità, non si stancano mai di annunciare a tutti il Vangelo della Vita. "Amare e desiderare la vita" è un dovere per noi credenti in Cristo. Che non restino queste solo parole...crediamoci tutti veramente! MImmo
 
 
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Anonimo il 17/01/07 alle 22:51 via WEB
Spesso sono solo parole!E quanta gente ci crede? E non pensi che molte colpe le abbiano anche i cristiani se le cose non vanno bene e se soprattutto i giovani si stanno allontanando dalla chiesa? Luca
 
   
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Anonimo il 18/01/07 alle 14:27 via WEB
caro luca, è vero che tante colpe le abbiamo noi cristiani, dovute soprattutto a una cattiva testimonianza. Ma è anche vero che esiste tanto bene, fatto e testimoniato da molti uomini di buona volontà. Io ci credo e con me tanta altra gente! Forse siamo in pochi, ma il Vangelo non ha cominciato a diffondersi nel mondo con la povera testimonianza di soli dodici uomini? I giovani hanno bisogno di testimoni gioiosi di Cristo. Invece di piangerci addosso perchè se ne vanno dalle chiesa, diamoci da fare!!!!
 
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Anonimo il 09/01/07 alle 18:55 via WEB
Tutti dovremmo chiederci se amiamo veramente la vita difendendola, promuovendola e testimoniandola con le nostre scelte e col nostro impegno. Non è più tempo di delegare altri (società - politica- media) è il tempo di far sentire la nostra voce con coraggio per testimoniare il nostro si alla vita e il nostro no alla cultura di morte dilagante. Facciamolo tutti insieme il 4 febbraio. Non mancare.
 
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Anonimo il 14/01/07 alle 22:32 via WEB
Ci sono tante, belle coppie giovani, che, nonostante le ben note propagande e le tante latitanze di quelli che pur avendo le possibilità e i mezzi non fanno niente per aiutarli, amano e promuovono la vita. Sono proprio queste coppie che ci offrono segnali di speranza e costruiranno il futuro che noi sogniamo. Lello
 
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Anonimo il 17/01/07 alle 22:42 via WEB
Mentre prepariamo la Giornata per la vita, leggiamo il messaggio, cerchiamo di costruire , di parlarne... ecco che la nostra città è ancora un tragico teatro di violenza gratuita: succede di tutto. Abbiamo ancora la forza e la voglia di gridare basta quando si uccide senza un motivo, quando la vita non ha valore, quando ad uccidere è un ragazzino che per niente ammazza un suo coetaneo? Dobbiamo trovare le ragioni per sperare, per non cadere nell'indifferenza e per continuare a credere che è possibile cambiare... Marianna
 
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Anonimo il 17/01/07 alle 22:47 via WEB
Le attività che si stanno organizzando per la XXIX giornata per la Vita sono a Napoli e in tutta Italia sono un bel momento di presenza e di testimonianza gioiosa che vede la preparazione di tante manifestazioni in cui saranno presenti milioni di persone che vivono con consapevolezza e gioia la scelta di essere famiglia, nonostante il fatto che si parli poco di famiglia e sembra che i diritti delle famiglie interessino solo il Papa, i Vescovi e pochi altri. Sappiamo, invece, da ricerche non di parte, che la maggioranza degli Italiani sceglie la famiglia fatta da padre madre e figli, come la risorsa naturale della società e futuro per le generazioni a venire e che questo dato incontestabile viene taciuto a favore di realtà che sono da considerare e da rispettare come unioni, ma che niente hanno a che vedere con la famiglia. . Il binomio famiglia e Vita è inscindibile, e per questo alla Giornata per la Vita sono chiamate a testimoniare le famiglie e quanti credono alla famiglia e ai suoi valori. Scegliamo, allora di stare insieme domenica 4 febbraio 2007 e di riconoscerci come famiglie cristiane, dicendo la gioia di esserci, ma anche chiedendo ad alta voce di essere protagonisti nella vita sociale della nostra città. Quest’anno , come per gli anni precedenti, passeggeremo per via Toledo, partendo da P.zza Dante, per raggiungere la Galleria Umberto I, dove sarà celebrata la Santa Messa presieduta dal Cardinale.. Alla “passeggiata in famiglia” parteciperà lo stesso cardinale Sepe, che ,sin dall’inizio del suo mandato, si è presentato chiedendo ai napoletani di ritrovare l’orgoglio delle proprie radici religiose, storiche e culturali a e soprattutto di riscoprire la speranza e di lavorare per costruire una città degna delle sue tradizioni. Di tutto questo le famiglie devono fare tesoro e rispondere con entusiasmo, riprendendo in mano il destino dei propri figli, recuperando la responsabilità educativa e il protagonismo nell’affermazione dei valori legati alla Vita. La “passeggiata in famiglia”vuole riprendere simbolicamente anche un’esperienza tradizionale delle famiglie napoletane, che di domenica, usavano e ancora usano passeggiare via per Toledo,al completo, con i figli. Lo “struscio”, la “camminata” dei napoletani sono legate alle ore di calma , dedicate al passeggio fatto con le persone a cui vuoi bene, con cui vuoi condividere il tempo le idee, con la famiglia tutta, con gli amici... La passeggiata è anche un modo per riaffermare l’importanza del tempo che va vissuto nella sua dimensione di grazia, come occasione per comunicare con gli altri le nostre idee, le sensazioni, le speranze, soprattutto oggi che spendiamo il tempo correndo ognuno per la sua strada e affannandoci in giornate senza spazio per ascoltare e ascoltarci.… La Passeggiata è anche questo e non solo: i bambini che verranno con le famiglie, troveranno ad accoglierli tanta musica e animazione , gli adulti proveranno la gioia di vedere condivisa le loro scelte incontrando le tante realtà familiari, le associazioni e i movimenti che hanno fatto della difesa e della promozione dei diritti delle famiglie e della Vita i loro obiettivi e soprattutto, insieme, testimonieremo alla nostra città, spesso distratta e indifferente, che è possibile sperare, che c’è ancora spazio per credere, sperare e avere fede e che vale la pena spendere la vita scegliendo la Vita e la famiglia . L'equipe dell'UF di Napoli
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 18/01/07 alle 22:34 via WEB
Il problemo odierno é la formazione delle giovani generazioni ai valori, sta a noi adulti aiutare i giovani a formulare una gerarchia di valori. Bisogna aiutare i giovani a sognare e a farli comprendere che già vivere vuol dire realizzare un sogno. Sergio
 
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Anonimo il 18/01/07 alle 23:24 via WEB
NAPOLI, 13 GENNAIO 2007 1. PREMESSA A un certo punto, senza annunciarsi né chiedere permesso, è arrivata la bioetica. Sarebbe meglio dire che ha fatto irruzione mettendo a soqquadro teoremi consolidati, costringendo a spostare la pesante mobilia di abitudini ormai indiscusse, volta a volta smascherando ed esaltando antichi vizi e tic recenti. Oggetto di questo terremoto – o forse bersaglio involontario ma ideale, per il suo immobilismo – è il mondo dell’informazione italiana, che da due anni esatti fa i conti con un nuovo commensale alla tavola delle notizie, inatteso e per ciò stesso ingombrante: la vita umana, con i formidabili interrogativi spalancati lungo l’intero suo corso (è il caso di dire: dalla prima scintilla all’ultimo alito) per effetto dello sviluppo di tecnoscienze, biomedicina e procreatica. 2. L’INIZIO DI TUTTO Oggi sono due anni esatti dalla sentenza numero 47 della Corte costituzionale datata proprio 13 gennaio (depositata poi il 28 e pubblicata in Gazzetta ufficiale il 2 febbraio) con la quale si dichiarava l’ammissibilità dei quattro referendum abrogativi di passaggi rilevanti della legge 40, sui quali ci siamo espressi poi il 12 e 13 giugno 2005 con il risultato clamoroso che sappiamo. Bene: oggi, due anni dopo, possiamo dire che fu quella sentenza a inserire il tema della bioetica nell’agenda del sistema mediatico italiano, sino a quel momento riluttante a impegnarsi nel dare ai cittadini una vera conoscenza di una materia che pure si andava imponendo come uno dei grandi temi da “governare” culturalmente in modo maturo. I segnali c’erano già tutti: lo stesso lunghissimo iter di approvazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita aveva svelato in più occasioni l’importanza di avvicinare all’opinione pubblica le questioni “eticamente sensibili”, in modo rispettoso ed equilibrato data la delicatezza della materia, e quindi possibilmente al riparo dalle tossine immesse a piene mani nel dibattito pubblico da contese aprioristiche e meschini calcoli elettorali. La sentenza della Corte ha però messo tutti con le spalle al muro: non si poteva più continuare a occuparsi di bioetica come fosse un dibattito carsico, uno dei tanti che all’improvviso appaiono e altrettanto repentinamente spariscono dai titoli dei giornali, tipo – per citare notizie degli ultimi giorni – il confronto sull’energia nucleare, o la cosiddetta “malasanità”. E se sul momento si pensò forse di poterne fare il consueto trattamento che si riserva alle deflagrazioni istantanee (la notizia esplode, ma poi si sa che la polvere si posa in fretta), nel giro di qualche settimana l’illusione scomparve di fronte al profilarsi di un fatto e di alcune considerazioni. Il fatto: la bioetica è un incrocio di questioni destinato a non tramontare in fretta dall’orizzonte della politica e dunque del giornalismo. Le considerazioni sono invece almeno tre: 1) embrioni e provette richiedono competenze nuove in redazione; 2) servono spazi e accorgimenti adeguati in pagina per spiegare ogni volta daccapo termini e concetti aspri per la stessa classe giornalistica, figuriamoci per la gente, ad esempio ricorrendo con frequenza a glossari, grafici, schede riepilogative, offrendo un panorama completo e realistico delle posizioni in materia; 3) diventano indispensabili un’attenzione continua e una sensibilità nuova per non perdersi lungo la strada i lettori per colpa di un approccio troppo intellettualistico a temi dei quali sempre più italiani hanno esperienza diretta. Vedendola con l’occhio del giornalista, si poteva trattare dunque di un’occasione imperdibile per aggiornare un registro informativo mai come in questi anni messo in discussione dalla concorrenza di altri “linguaggi”, in primis quello forgiato dai media digitali. 3. IL VIZIO D’ORIGINE Cos’è accaduto in realtà dopo quel fatidico 13 gennaio 2005? Forse ricorderete che il sistema dell’informazione si gettò affannosamente a spiegare la portata dei quattro referendum, ma già con il vizio d’origine che in materia di bioetica poi non s’è più perso, come abbiamo potuto ancora di recente constatare con l’amara vicenda di Piergiorgio Welby: a scatenare l’interesse dei media infatti era – ed è – essenzialmente il risvolto politico delle questioni che hanno a che fare con le frontiere della vita, o meglio, i riflessi e non di rado gli sconquassi provocati nei due schieramenti dai grandi nodi etici che sono parte inseparabile di qualsiasi confronto su quelle frontiere. E’ stato come se, nella turbinosa mischia delle alleanze e degli sgambetti tra leader e peones, partiti e fazioni, qualcuno si fosse divertito a gettare all’improvviso una nuova regola potenzialmente capace di rimescolare ancor di più carte già confuse, con prospettive di assoluto divertimento per mass media che hanno imparato a cibarsi delle liti condominiali tra i poli e di questi al loro interno. Dobbiamo tener presente anche questo aspetto della “informazione come intrattenimento” – nient’altro che il compiersi della nota profezia di Guy Debòrd datata 1967 sulla “società dello spettacolo” nella quale tutto deve obbedire alla legge del divertimento – per comprendere ciò cui abbiamo assistito, tra giornali a televisione, da due anni a questa parte. Questo riflesso condizionato (la bioetica come prosecuzione della politica con altri mezzi) è figlio di una peculiarità del giornalismo italiano, che ne ostacola storicamente il radicamento tra la gente e zavorra in particolare la diffusione della stampa quotidiana: vale a dire il suo essere espressione organica di una élite politica-intellettuale della quale la categoria dei giornalisti spesso si trova a far parte, inesorabilmente sorda alla domanda di un’informazione sensata e utile che – perlopiù inespressa – giunge in modo sempre più pressante dal Paese “vero”. Ibridare ogni argomento con le categorie della politica sino ad asservirlo alle sue logiche del tutto parziali è il modo ordinario con il quale si fa informazione nel nostro Paese, sino a oscurare fatti che non fanno tornare i conti, come vedremo. Chi di noi ha esperienza di stampa estera sa che altrove – sebbene ovunque la politica occupi una posizione di rilievo nel menù informativo di una comunità, com’è ovvio che sia – questa passione per la politica concepita come eterna contesa è quasi del tutto estranea al costume e al consumo informativo di grandi Paesi mediaticamente evoluti quanto e più del nostro, ed è estraneo in particolar modo il risvolto tutto italiano di un giornalismo sovente schierato con l’uno o l’altro attore della scena, l’una o l’altra strategia di potere, di leadership o egemonia culturale e ideologica sul Paese. L’esito di questa caratteristica genetica del giornalismo italiano è il canyon che lo separa ormai dalla gente, tanto più largo quanto più i temi toccano nella carne la vita concreta, la coscienza individuale, le domande sul futuro. Ecco perché l’irruzione della bioetica due anni fa sulla scena dell’attualità può essere considerato, a ben guardare, uno spartiacque per l’informazione: vita concreta, coscienza individuale e domande sul futuro si intrecciano in modo straordinariamente pressante quando si parla di concepimento in provetta e sterilità, denatalità e paura del domani, specie tra i giovani, timore di assumersi impegni e definitivi e responsabilità che comportino doveri e insieme desiderio di lasciare il proprio segno in una società che pare indifferente ai singoli. E ancora: nel profondo di ciascuno scavano un solco le grandi questioni legate all’identità e al destino degli embrioni e al modo in cui essi vengono “prodotti” (come si dice nel linguaggio un po’ zootecnico della scienza procreativa), così come la dignità della vita umana appena concepita e la sua relazione con quella “adulta”, per non parlare del tramonto della vita, della libertà del malato di decidere di se stesso e del dovere del medico di assisterlo. Ecco: si pensava che fossero faccende private, come si tende a far credere che sia anche la religione (altra vittima insigne della “politicizzazione informativa”). E invece hanno preso casa nelle redazioni di quotidiani e telegiornali imponendo di trovare un modo per raccontarle. In sintesi. Il giornalismo italiano si è lasciato sorprendere dall’alluvione improvvisa di provette, embrioni, staminali, fecondazioni artificiali, e ultimamente testamenti biologici e spine da staccare o meno: cioè un capitolo della conoscenza che pensava riservato a un manipolo di scienziati, clinici e filosofi, eventualmente qualche teologo, ma se proprio insiste. E questo stesso giornalismo mostra tuttora di avere della bioetica un’idea goffa e imprecisa, pensandola in fondo come un sapere tecnico che non sarebbe per nulla interessante se non venisse sapientemente impastato e cucinato con la vera specialità della casa, la politica, ripiena di tutti i suoi riti e le parti in commedia. 4. LA TENTAZIONE DELLA “RIVOLUZIONE CULTURALE” Sulla bioetica l’informazione in Italia semplicemente ricicla antiche consuetudini, aggiornate nella forma ma non nella sostanza, mostrando così una volta in più la sua scarsa propensione a mettersi in discussione, a rinnovarsi negli approcci quando si fanno largo nuove questioni socialmente avvertite e a mettersi in ascolto dei cittadini. Al condizionamento della lettura politica di tutto ciò che ha a che fare con la vita umana si somma poi la presunzione così diffusa nei grandi quotidiani di doversi proporre come l’avanguardia ideale di un Paese che si crede riluttante a farsi finalmente “moderno”: un Paese che va quindi svezzato introducendolo nell’era della libertà individuale trasformata in criterio assoluto di comportamento, di giudizio e di elaborazione culturale. Con tanti saluti a qualsiasi antropologia che abbia da ridire su un simile modello di superuomo che non conosce più alcun limite se non il proprio desiderio. Entriamo qui in un nuovo capitolo della nostra riflessione, altrettanto significativo rispetto a quello che ho sin qui esaminato insieme a voi: cioè la “leadership ideologica” che il giornalismo nostrano si assegna e che nella bioetica trova un insperato fronte di riaffermazione, convinto com’è che sia suo preciso dovere mettersi a capo di una qualche storica rivoluzione culturale. Così facendo però spesso finisce soltanto per aprire i cassetti e pescarci quel che c’è, alla rinfusa, rieditando concetti polverosi e ormai superati dalla vitalità di una comunità civile che per interrogativi e valori sembra assai più avanti di chi vuole raccontarla, interpretarla e guidarla. C’è in questa rinnovata pretesa il pesante condizionamento di un ingenuo pregiudizio materialista secondo il quale tutto ciò che la scienza identifica e la tecnologia consente è per ciò stesso buono e desiderabile, con buona pace di ogni possibile dubbio etico. Al giornalista spetterebbe il dovere di aprire gli occhi alla gente e far giustizia di ogni suo oscuro timore esponendo fatti davanti ai quali nessuno possa più aver nulla da eccepire. Il problema è che, da due anni a questa parte, come abbiamo documentato dozzine di volte sulle pagine di Avvenire, i fatti hanno voltato le spalle a chi si attendeva di tenerli al guinzaglio. Sulle staminali embrionali, destinatarie da anni in centinaia di laboratori d’avanguardia di ingentissimi fondi e sinora prive del benché minimo risultato clinico, la stampa italiana s’è giocata la sua credibilità senza sinora fare ammenda delle illusioni irresponsabilmente sparse a piene mani tra i malati e le loro famiglie. La verità – lo sappiamo bene, almeno noi di Avvenire che non ci stanchiamo di ripeterlo – è che i successi ci sono, a decine, ma esclusivamente nel campo delle staminali adulte e di altre nuove categorie di cellule che vengono individuate da una ricerca scientifica finalmente senza paraocchi, proprio perché priva del pregiudizio che rende miope larga parte dell’informazione in Italia. Di fronte all’ostinazione con la quale si continua a sostenere che comunque la sperimentazione sugli embrioni è doverosa viene il sospetto che il bersaglio vero di questa campagna bio-mediatica sia in realtà un altro: e cioè il sistema di principi ispirati al Vangelo sui quali ancora poggia la nostra società, la Chiesa che non cessa di alimentarne la vitalità e i cattolici che a quei principi offrono mani e intelligenze perché continuino a reggere “casa Italia”. La tutela dell’embrione viene catalogata ad arte come battaglia confessionale, mentre noi cattolici e i tanti che hanno condiviso con noi questo impegno nel nome della ragione non facciamo che difendere la scienza che nell’embrione – è notizia di questa settimana – vede un progetto di persona umana sin dal primissimo stadio di moltiplicazione cellulare. Allora, cosa si vuole cancellare, in realtà: forse l’evidenza scientifica che invece si pretende di esaltare? Sembra improbabile. Proprio per questo abbiamo voluto che, accanto alla testata del nostro inserto settimanale “è vita” che ogni giovedì da 115 numeri (per un totale di 460 pagine) aggiorna, documenta e informa su tutti i temi della bioetica, comparisse un interrogativo, proposto a mò di pungolo: “Si può ragionare dando torto alla realtà?”. La bioetica, intrisa com’è di argomenti scientifici, esige una ragione libera da deformazioni e paraocchi. I mass media italiani sono capaci di fare questo esercizio? La vicenda mediatica di Paolo De Coppi, il giovane medico italiano che nei giorni scorsi è salito alla ribalta grazie alla sua scoperta sulla presenza di cellule staminali simili alle embrionali nel liquido amniotico, è lì a dimostrare che su questa capacità è lecito nutrire qualche dubbio. Di fronte a un uomo di scienza che confessava candidamente di aver evitato la ricerca sulle staminali embrionali per motivi etici i grandi giornali hanno vacillato: c’è chi ne ha preso atto senza insistere (il Corriere della Sera), chi ha serenamente ignorato la cosa (l’Unità). Tutti hanno glissato su un altro fatto evidentemente ritenuto “scandaloso”, o forse solo inspiegabile: De Coppi, autore della più clamorosa scoperta nel campo delle staminali da molto tempo a questa parte, si dice cattolico praticante. L’ha confermato nella lunga intervista che ha rilasciato ad Avvenire, pubblicata su “è vita” di giovedì, ribadendo che – sono sue parole – “è stata la fede a spingermi in questo settore”, “a chiedermi di trovare alternative alla ricerca sulle cellule degli embrioni”. Ma non basta: “La fede per me – ci ha detto De Coppi – è una ricchezza, non certo un ostacolo”. Cosa dite? Impresentabile! 5. UNA NUOVA IDEOLOGIA Eccoci giunti a un altro punto importante: i mass media sembrano aver colto l’irruzione della bioetica come nuova occasione per scardinare un sistema di valori cercando di liquidare l’esperienza credente come obsoleta, attardata com’è a interrogarsi sull’uomo e la sua dignità, un ostacolo alla modernizzazione del Paese che la scienza dovrebbe incaricarsi di mettere definitivamente fuori gioco. Così facendo però si è ideologizzato irreparabilmente il confronto, distogliendo l’attenzione dall’eloquenza dei fatti scientifici e dalle domande che ne scaturiscono per spostarla sul diritto di cittadinanza di chi esprime riserve (a ragion veduta), cioè perlopiù i cattolici. Per spuntarla non si esita a truccare le carte, offrendo a lettori e telespettatori quasi esclusivamente i pronunciamenti della gerarchia e ignorando invece la vitalità di un laicato che nel mondo delle professioni sta imparando proprio nelle trincee della bioetica a mettere la faccia e a esporsi in proprio, senza nascondersi dentro la sacrestia. E’ un laicato cattolico nuovo, che si è affacciato sulla scena durante la campagna referendaria di due anni fa e che abbiamo raccontato con sorpresa sulle pagine del nostro giornale, una presenza fresca, preparata, grintosa che ha animato il Convegno ecclesiale di Verona dell’ottobre scorso portandovi l’aria nuova delle sfide sulle quali già si batte: la vita, ma anche la famiglia e l’educazione, cioè i tre “principi non negoziabili” enunciati da Benedetto XVI nel suo famoso discorso al Partito popolare europeo del 30 marzo 2006, princìpi espressione diretta della “grammatica scritta nel cuore dell’uomo”, secondo la splendida espressione usata dal Papa nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace appena celebrata. Bene: di questo laicato alla grande stampa pare non interessare granché: raramente li si interpella, sembrano non esistere. E si finisce così per dare ragione a Ernesto Galli della Loggia quando scrive (l’ha fatto sul Corriere del 20 dicembre 2006) di “una società senza cattolici”, dipinta cioè come tale dai mass media che rappresentano in modo “massicciamente squilibrato” (Corriere in testa, verrebbe da dire) “la realtà del Paese”: sebbene sia noto che “sui temi bioetici” “l’opinione pubblica è più o meno divisa a metà, di fatto, invece – scrive Galli della Loggia – nel circuito culturale e comunicativo i valori laici tendono a presentarsi come la norma assoluta”. E’ come osservare il mondo con il cannocchiale rovesciato: cosa se ne può capire? Al massimo, si vede il proprio occhio riflesso, e lo si crede un mondo bellissimo. Ai media italiani è stata offerta l’occasione per guardare il Paese in faccia: il non voto ai referendum del giugno 2005 in proporzioni così eclatanti (tre quarti rispetto a un quarto) era un messaggio chiaro inviato alla comunicazione e alla politica. Queste dandosi la mano per mesi avevano cullato l’idea che l’Italia fosse tutta come l’avevano dipinta, e cioè duramente contraria a una legge talebana e medievale, un Paese arcistufo delle asserite “ingerenze vaticane”, pronto al primo di una serie di strappi. La lezione invece non è stata capita. Non si è voluto vedere, una volta di più. E ancora adesso nel dibattito sull’eutanasia e sui Pacs ci si ostina a rappresentare un’Italia che non c’è, dove l’urgenza numero uno sarebbe il riconoscimento per legge delle coppie di fatto e non i diritti più elementari dei giovani che si vogliono sposare e non trovano una casa per le loro tasche, delle famiglie che si fanno carico di persone anziane, disabili, malati, di quelle più numerose, delle madri che lavorano… Si strilla per legalizzare l’eutanasia, ma non si alza un mignolo per esigere che venga garantito a tutti i malati terminali il diritto alle cure palliative. Neppure si sa, ad esempio, che in Italia non esiste una specializazione universitaria in materia, come se il problema non esistesse, o l’unico modo per risolverlo fosse “staccare la spina”. Ideologizzare la questione bioetica nel resconto che se ne fa sui mezzi di comunicazione ha per effetto la perdita di realismo, l’estraniamento dalla realtà, la convinzione indotta nell’opinione pubblica che l’agenda delle priorità sia quella di un pugno di individui molto ben organizzati e muniti di efficaci megafoni. 6. IL DISPREZZO PER LA REALTA’ Vorrei documentare brevemente questo crescente sprezzo per la realtà – paradossale e letale per chi fa informazione – con un caso giornalistico recente che a me pare clamoroso. Forse ricorderete il clamore col quale in piena estate (era il 23 agosto) i media italiani rilanciarono una notizia proveniente dagli Stati Uniti: l’autorevole scienziato americano Robert Lanza annunciò di essere riuscito a estrarre cellule dagli embrioni senza causarne la morte, come invece accade sempre. Secondo l’interpretazione che ne fu subito data entusiasticamente, la scoperta avrebbe consentito di “aggirare” il dilemma etico sull’uso delle cellule embrionali. Noi dicemmo subito che le riserve restavano intatte: a cominciare dal fatto che non si capisce come possa rimanere indenne un embrione di otto cellule al quale ne venga estratta una. Spesso infatti, nella foga prometeica di dimostrare la grandiosità di una scienza senza zavorre etiche, il giornalismo di casa nostra dimentica il buon senso. Detto fatto. Tre giorni dopo a un più attento esame della sedicente scoperta venne a galla la verità: quello di Lanza era solo un auspicio, e dei 16 embrioni sottoposti all’esperimento nemmeno uno era sopravvissuto. Sin qui la storia raccontata con molto imbarazzo da tutti i media italiani. Qualche settimana dopo il Wall Street Journal pubblicava una documentata inchiesta nella quale si leggeva che: 1) Lanza era dirigente della Act, società di biotecnologie quotata a Wall Street; 2) la Act aveva bruciato milioni di dollari in vane ricerche sulle cellule embrionali, sperando di poter brevettare una qualsiasi scoperta; 3) la Borsa americana, delusa da promesse non mantenute, aveva voltato le spalle alla Act che versava ormai in una situazione finanziariamente precaria; 4) dopo l’annuncio-bidone di Lanza il titolo della Act era schizzato in alto in un giorno solo del 357%; 5) il giorno prima che si scoprisse la bufala la società aveva incassato 13 milioni e mezzo di dollari da finanziatori convinti di aver trovato la gallina dalle uova d’oro; 6) anche dopo l’ovvio tonfo borsistico seguito al dietrofront sulla scoperta il titolo si era assestato su valori più che doppi rispetto a pochi giorni prima. E lo stesso Lanza aveva in tasca un bel gruzzolo di azioni. Una storia incredibile no? Da farci un film… A raccontarla era stato il Wall Street Journal, il quotidiano più diffuso al mondo, con oltre due milioni di copie. Eppure pensate che un solo giornale italiano l’abbia ripresa? Sì, uno c’è stato: Avvenire. Solo noi. Possibile che corrispondenti da New York sempre così attenti a qualsiasi refolo politico e finanziario non abbiano creduto opportuno raccontare il lato oscuro del caso Lanza? Come dicevo, la bioetica sembra aver esaltato il vizio di selezionare la realtà sulla base del teorema che si è deciso di sposare. 7. LA STRATEGIA DEI “CASI UMANI” Sottrarsi a questo riflesso obbligato è cosa da giornalisti liberi di testa. La domanda della gente è di capire e non essere costretta a misurarsi sempre con gli strattoni emotivi dei “casi umani” sui quali vengono imbastite martellanti campagne mediatiche, e che purtroppo sin dal primo apparire del dossier bioetica sulle pagine dei quotidiani è stato il modo ordinario col quale si è offerta l’informazione in questo settore. Penso alla ricorrente nenia sulle coppie italiane “costrette” al cosiddetto “turismo procreativo” perché la “cattiva” legge 40 custodita dagli “spietati” cattolici vieta la fecondazione eterologa. I numeri di questo turismo sono risibili – qualche centinaio di coppie in alcune cliniche di Barcellona e di Lugano – ma tant’è: basta una sola storia a dimostrare che la legge 40 va riscritta. E pazienza se il crollo delle nascite che s’era paventato per effetto della stessa legge non c’è stato proprio, come ha documentato nel giugno scorso il Ministero della Salute. E’ appena il caso di ricordare ancora, a questo proposito, la triste vicenda Welby, terribilmente esemplare del cinismo col quale ambienti politici minoritari ma fortemente appoggiati da ampi settori del sistema informativo si muovono per uno scopo lucidamente perseguito: plasmare l’opinione pubblica in modo da farle accettare - e anzi chiedere, sondaggi alla mano - la legittimazione di scelte individuali contrarie al diritto naturale, alla sensibilità ancora largamente diffusa nel Paese, alla nostra civiltà giuridica e persino al codice deontologico dei medici, rinnovato appena un mese fa con l’esplicito divieto all’articolo 17 di “effettuare o favorire trattamenti finalizzati a provocare la morte” del paziente, anche se è quest’ultimo a farne richiesta. La strategia è sempre la stessa: creare il caso pietoso, presentarlo senza altre vie d’uscita se non quella desiderata, tener desta l’attenzione ogni giorno sulla vicenda in modo da renderla comprensibile e familiare alla gente, condirla di parole e concetti che – a caso archiviato – resteranno come eredità incancellabile, un passo in là verso la frontiera che si vuole valicare e dal quale non si torna più indietro. Accadde così per l’introduzione in Italia della legge sull’aborto, con la campagna per convincere l’opinione pubblica dell’urgenza assoluta di cancellare l’obbrobrio degli aborti clandestini, trascurando ciò che oggi abbiamo sotto il naso, e cioè che il primo diritto che lo Stato deve garantire alla donna è a non vedersi “costretta” ad abortire da circostanze esterne. Lo stesso accade oggi, con il medesimo argomento della clandestinità brandito per far credere che l’eutanasia in Italia sia già largamente praticata ma di nascosto. Un falso assoluto, che passa per l’etichetta di “eutanasia clandestina” appioppata a quella che è invece la “sedazione terminale”, comunemente praticata nei casi in cui non resta altro da fare per evitare il rischio di accanirsi su un paziente ormai vicino alla morte. Passaggio determinante per spuntarla su questo fronte è ridicolizzare la Chiesa, truccandone in modo grottesco la posizione fino al ripugnante paradosso di rovesciarne lo strenuo impegno per difendere la dignità della vita di ogni persona umana nel suo opposto: è accaduto così di sentir dire che quanti volevano restituire una speranza a Welby in realtà esprimevano solo una spietata crudeltà. Per completare l’operazione mediatica e culturale i radicali hanno fatto largo uso di una terminologia che ci è familiare: pietà, misericordia, veglie per la vita, dignità della morte, coscienza, con patenti di coerenza evangelica gentilmente elargite all’uno e negate all’altro da esponenti di un partito programmaticamente anticlericale… Un marchingegno brevettato e “perfezionato” sino al capolavoro del ribaltamento della verità sul doveroso diniego del funerale cristiano per un uomo, affidato alla misericordia di Dio e alla preghiera della comunità, che sino all’ultimo istante ha coscientemente rigettato ciò in cui la Chiesa crede da due millenni. Questa manipolazione del vocabolario e dei concetti, svuotati del loro significato e riempiti di nuove suggestioni in linea con il pensiero spugnoso di una società “liquida” – per dirla con Zygmunt Bauman –, trova nella bioetica un terreno assai favorevole ovviamente solo se si può contare sulla complicità dei mezzi di comunicazione, incaricati di spianare la strada alla legalizzazione degli eccessi creando attorno a essi un consenso artificiale (o una sottomissione, per sfinimento). Anziché farsi carico di domande che lacerano le coscienze, i media tagliano il nodo con un colpo secco, come se esistesse una sola risposta possibile. Se i cattolici hanno da ridire, si rassegnino: sui mass media la loro battaglia viene caricaturizzata fino a diventare la flebile obiezione o la fisima tutta sulla difensiva di una categoria debole di cuore e gravida di scrupoli, che va semplicemente rassicurata oppure piegata con la forza dei fatti, nel nome del costume che cambia. E se non si adegua pazienza: un giorno capirà. 8. TIRANDO LE SOMME: E L’INFORMAZIONE? Ha detto il Papa pochi giorni fa – era l’Epifania, sabato scorso – che “i mass media se da una parte moltiplicano indefinitamente le informazioni dall’altra sembrano indebolire le nostre capacità di una sintesi critica”. Nell’era dell’alluvione comunicativa a ciclo continuo, l’informazione è una risorsa indispensabile per tener desta la coscienza e quella capacità di sintesi critica che è la chiave della nostra libertà. A chi ci vuole narcotizzati da un flusso di notizie che disorientano, facendo di tutto per persuaderci che in mezzo a questo labirinto sarebbe vana la fatica di cercare la verità, rispondiamo continuando ad alzare ogni giorno con mite determinazione la vela di Avvenire e dell’informazione libera. Francesco Ognibene di "Avvenire"
 
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Anonimo il 25/01/07 alle 12:26 via WEB
Cara amica/o, è importante incontrarsi su questo blog per parlare di Vita, probabilmente, sei una persona sensibile e attenta, amante della vita. è importante trasmettere ai giovani la passione di difendere la Vita e la Verità. Da un pò di tempo mi occupo nel MPV dei giovani ed i giovani, se adeguatemnte formativi, sono talmente amanti della vita da impegnarsi per difendere e valorizzare non soltanto la loro vita, ma anche quella degli altri.penso che il "manifesto programmatico" dei giovani a Napoli dovrebbe essere il seguente: "Noi crediamo che tutti gli esseri, dal concepimento fino alla morte naturale, siano uguali e, in virtù di questa uguaglianza, meritevoli degli stessi diritti, primo tra tutti il diritto alla vita. Noi crediamo nella libertà e ci impegniamo, nel nostro piccolo, in una grande battaglia di civiltà, affinchè ogni essere umano sia libero di vivere questa meravigliosa avventura che, nonostante i momenti difficili, sa ancora regalarci grandi emozioni." Se ci credi anche tu, partecipa in Galleria alla Giornata per la Vita,perché chi salva una vita salva tutto l'Universo. ciao leo pergamo
 
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Anonimo il 03/02/07 alle 22:36 via WEB
Domani 4 Febbraio, testimonieremo con la nostra presenza lungo le strade di Napoli, che la vita non è un affere privato e che la famiglia è l'istituzione primaria, creata per accoglierla, custodirla, promuoverla e difenderla dalle insidie di chi vuole snaturarla dell'autentico valore. Se amiamo e desideriamo la vita, difendiamo la famiglia. Gigi Giliberti
 
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claudia il 22/08/09 alle 07:29 via WEB
io invece non amo un mioeventuale bambino,non son disposta a soffrire per averlo,mica son una martire,dio e la natura facevan le cose fatte meglio,e se mi obbligassero ad averlo appena nato gli spezzerei il collo.non e' vero che la donna ama sempre i suoi figli.
 
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