Creato da vitotroiano il 08/01/2008
politica-attualità
 

 

Troppi talk show e poca politica

Post n°211 pubblicato il 03 Marzo 2011 da vitotroiano

La proposta del Pdl di introdurre settimane alterne per le conduzioni di trasmissioni di dibattito politico in Tv ha scatenato una serie di discussioni. L'idea non è del tutto da buttare, ma Sgarbi, per parlare di un formidabile conduttore appare perplesso. Mentre Sergio Zavoli, uno dei grandi del giornalismo e fra i migliori Presidenti della Rai che ora siede a capo della commissione parlamentare di vigilanza, parla di passi in avanti della maggioranza. Urlano contro la censura i Pdinni e contro il Minculpop i vari Santoro, presumibilmente a nome dei suoi colleghi che da parecchio, forse da troppo tempo hanno preso in mano le sorti della politica in (Tv), con risultati ben noti. Qualche giorna fa il Foglio di Ferrara faceva notare che sulle nostre televioni passano almeno una quarantina di trasmissioni politici alla settimana. Un'overdose, naturalmente. Dovuta, parafrasando un desaparecido, dalla politica ma non dalla valorosa professione forense, Mino Martinazzoli, ad un eccesso di oppiacei ideologici abusati in quelle fumerie-trasmissioni. E diceva questo ancora nei primi '90, anni nei quali, per l'appunto, presero il sopravvento le diverse fumerie: Santoro, Lerner, Deaglio etc mentre tambureggiava quotidianamente l'implaccabile Telekabul di Curzi. Da allora la situazione è peggiorata quanto a dispersione di fumi, tanto obnubilanti quanto distruttivi della politica. Distruttivi perchè la sostituivano promuovendone da un lato una visione manichea, da ordalia, dall'altra unom svuotamento in nome dell'antipolitica. L'antipolitica il vero cancro del nostro paese, ovverero il rovesciamneto del canone tradizionale fatto di confronto, dialettica, conduzione neutrale e rispetto dell'avversario in uno scontro aal'arma bianca, in una rissa permanente, col conduttore trasformato in partecipante attivo e aizzatore, deus ex machina politico, unico protagonista dello show. I politici sono stati relegati, dunque, in una sorta di cammeo, magari dall'Annunziata o da Fazio, ma inn sostanza la loro missio, la loro stessa raison d'etr, è stata ampiamente ridotta in una simile Tv. E' l'antipolitica di cui la Tv è, al un tempo, la causa e l'effetto, anche soprattutto perchè la politica si è indebolita, è troppo fragile, molto disattenta, lontana dalla relatà del paese. Non è (solo) colpa di una certa Tv se la politica è diventata un oggetto di sistematica irrisione, una specie arena che mette alla berlina chi si occupa di Politica. Si ha come l'impressione che molti politici guardini troppo la Tv e troppo poco il paese e il loro ruolo, dal loro orizzonte sfuma la politica e s'ingrandiscono le tentazioni degli show che li rendono ridicoli.

 

 
 
 

Sinistri tromboni Vecchi e giovani

Post n°210 pubblicato il 28 Febbraio 2011 da vitotroiano

Tratto da l'opinione
Paolo Pillitteri

La febbre dell’ormai leggendaria Piazza Tahrir ha contagiato proprio quelli che da noi dovrebbero saperla lunga a proposito di rivolte in piazza. Invece i nostrani intellettuali, gli uomini della cultura impegnata e del giornalismo più corretto politicamente sembrano aver contratto il morbo della rivoluzione pret-a-porter, ovvero a portata di mano, basta fare come – nell’ordine – in Tunisia, Egitto, Libia ecc .
C’era una volta una canzone di rito chiaro bolscevico che recitava: “e noi farem come la Russia/falce martello trionferan”; adesso s’invocano le folle stanche e tiranneggiate dal regime del Caimano, perché manifestino nelle piazze, cantando l’ultimo palmares sanremese di Vecchioni, assurto a inno della rivolta di tutti quelli che non ne possono più del Cav: perché c’è “chi ha vent’anni e se ne sta a morire/in un deserto come in un porcile”.
Capirai l’afflato rivoluzionario di una canzonetta che è, probabilmente, fra le più banali e bolsamente retoriche di Vecchioni. Cosicché, qualcuno sostiene che Sanremo è cambiata in meglio perché è il sensore attento dei mutamenti in atto, mentre, al contrario, è molto più vero che ad essere cambiata, e in peggio, è la sinistra nella sua adesione ai moduli sanremesi.

Da Gerusalemme il guru della cultura di sinistra, Umberto Eco, ha lanciato un assist importante a quelli che, in Italia, attendono un analogo bagno di sangue, con relativi martiri, funzionale alla cacciata del satrapo. Ma quale satrapo, quale Mubarak e men che meno Gheddafi, ha spiegato l’autore de “Il nome della rosa”: un Fuhrer, un novello Hitler, ecco che cos’è il nostro Premier, che è andato al potere con libere elezioni, proprio come Adolf.
Gli ha risposto in tempo reale, dall’Italia, un giornale molto, molto giustizialista che ha semplicemente invitato a ribellarci.
Ora, il fatto curioso sta, a nostro sommesso parere, in questa sorta di clamoroso conflitto con la realtà italiana di molti intellettuali engagée, i quali scambiano l’Italia berlusconiana per una landa percorsa da fremiti rivoluzionari e pronta ad incendiarsi con una qualsiasi scintilla perché non ne può più del regime.
Qualche filosofo del pensiero debole chioserebbe, maligno, che simile analisi esprime il malessere di un club delle zitelle della Bassa Sassonia. Non diverso il giudizio, a dir poco sommario, tanto più se svolto da penne autorevolissime, come una Barbara Spinelli. La quale ha inneggiato, pure lei, alla canzone di Vecchioni salutandola come la novità che “ci consente di vedere con una certa chiarezza uno stato d’animo diffuso, qualcosa che rivela una stanchezza diffusa nei confronti del regime di Berlusconi.
.. una canzone non anodina come non lo erano quelle di Bierman nella Germania dell’Est”. Germania dell’est, ecco a quale orrenda dittatura somiglia l’Italia del Cav, forse per via delle migliaia di intercettazioni che la Stasi attuava per decenni prima della caduta del Muro, ricattando e devastando “le vite degli altri”, come ebbe a ricordare proprio il nostro Premier parafransando la terribile Stasi di Berlino Est trapiantata in Italia con le impressionanti intercettazioni di cui è vittima lui come tanti altri.

Scambiare lucciole per lanterne è sempre stato il cattivo vezzo degli intellos che confondono il reale con l’irreale, i sogni con la realtà, pur sapendo che la democrazia e la libertà di cui godono gli italiani è un patrimonio ricchissimo di una nazione che nulla ha a che fare con regimi totalitari, dittatoriali e sanguinari, in genere musulmani, che vengono mandati al macero per conquistare diritti civili e libertà di pensiero e di azione.
Non a caso si parla di un nuovo 1989, di una nuova Caduta del Muro riferita al paesi arabi del mediterraneo. Che si stanno liberando uno alla volta dei loro tiranni. Ma ai giovani e vecchi tromboni dell’Italia di sinistra viene l’orticaria al sentir parlare di caduta del comunismo. Per loro, l’unica caduta da provocare, in massa, ribellandoci, scendendo subito in piazza, è quella del Cav.
Al suono dell’inno di Vecchioni, beninteso.

 
 
 

Ecco chi è il pontiere tra Bersani e Bossi

Post n°209 pubblicato il 23 Febbraio 2011 da vitotroiano

Tratto da Affaritaliani


Daniele Marantelli

Daniele Marantelli (Pd)

Le trattative tra la Lega e il Pd sono all'ordine del giorno da qualche mese. La dimostrazione più evidente l'abbiamo avuta con l'intervento in prima pagina su la Padania del segretario del Pd Pierluigi Bersani che ha esplicitamente chiesto al Carroccio di mollare Silvio Berlusconi e fare il federalismo insieme alla sinistra. Ma l'artefice dell'avvicinamento tra i due partiti ha un volto e un nome ben precisi. Si chiama Daniele Marantelli, deputato del Pd,  varesotto e amico personale di Umberto Bossi e di Roberto Maroni. Marantelli nato a Varese il 18 gennaio 1953 sposato e padre di due figli, dopo essersi diplomato all'istituto tecnico commerciale ha lavorato come  dipendente di un'azienda bancaria. Entra in politica nel 1985 e fino al 1995 è consigliere comunale a Varese con funzioni di capogruppo e presidente Commissione Bilancio e successivamente diventa vice sindaco della città lombarda.

Dal 1995 al 2005 è Consigliere regionale della Lombardia. Nel 2006 il trasferimento a Roma dove viene eletto alla Camera nella lista dell'Ulivo e fa parte dell'Assemblea nazionale del Partito democratico. E' proprio lui a dividere i colonnelli del Senatùr: al fianco del sinistro Maroni, pronto a diventare premier anche con l'appoggio di Bersani (come propose Enrico letta mesi fa), ci sono il governatore del Piemonte Roberto Cota, il sindaco di Verona Flavio Tosi e il leader della Lega Lombarda Giancarlo Giorgetti. Sul fronte dei berlusconiani, ovvero i fedelissimi del ministro Calderoli, troviamo Marco Reguzzoni, Angelo Alessandri, presidente federale del Carroccio e Rosi Mauro, vice presidente del Senato.

 

 
 
 

Il Berlusconi felino

Post n°208 pubblicato il 07 Febbraio 2011 da vitotroiano

Piaccia o no, Silvio Berlusconi ha sette vite come i gatti. L’hanno dato più volte per spacciato, ma poi come Lazzaro è risuscitato. Giovedì scorso, giorno della doppia votazione sul federalismo e sull’autorizzazione a procedere contro il presidente del Consiglio, è riuscito a pareggiare sul federalismo e a vincere sulla Procura di Milano.

Eppure, in pochi avrebbero scommesso che ce l’avrebbe fatta. Ma Berlusconi ci ha ormai abituati ai suoi scatti di reni nei momenti di maggiore difficoltà. Tanto ha fatto e brigato che ha messo su una maggioranza, mentre lo davano già per morto, politicamente si intende. Avendo un’alta considerazione di sé, Berlusconi si considera un “uomo necessario” ed è convinto di non essere un personaggio nato per caso, ma figlio di una felice congiunzione astrale.
Quando un giorno lontanissimo morirà, sarà difficile collocarlo nella storia della politica, non essendo un politico a tutto tondo ma facendo parte di questo da circa vent’anni. Nato, politicamente, con la fine della guerra fredda e con il crollo della Prima repubblica, da analfabeta politico, è riuscito a sbaragliare i professionisti della politica e ad inventarsi un partito a sua immagine e somiglianza, conquistando il potere.
A conti fatti, per tre volte è stato inquilino di Palazzo Chigi e non è detto che non potrebbe esserlo anche per la quarta volta, visto il nanismo politico che lo circonda. Epperò, se non ci fosse stato la fine di Yalta e quella dell’ancien règime, Silvio Berlusconi sarebbe stato un imprenditore di successo, ma in politica non sarebbe mai sceso.
Troppo compromesso con il potere della Prima repubblica e poco politico per sfidarlo, essendo impolitico e antipolitico. Due attitudini che sono state la sua fortuna nella Seconda repubblica, ma che da sole non bastano, perciò, per incantare l’elettorato, uscito sfiduciato, frustato e depresso dagli avvenimenti di Mani pulite, occorreva quel qualcosa in più per riportare fiducia negli elettori.
Personaggio fuori del comune, fuori dell’immaginario popolare, è stato preso di punta da media internazionali, che non gli hanno perdonato nulla, riducendolo ad “ecce homo”: per il suo stato di imprenditore “self made man”, per le sue diverse vicende giudiziarie comprese le notti “boccaccesche” di Arcore, che hanno fatto il giro del mondo, e, per il suo status di Capo di governo anomalo, avendo più conflitti di interesse che capelli.
Per “l’Economist” non era adeguato a guidare l’Italia, per il “Financial Times”: “Il salvatore è il sintomo dei mali dell’Italia” e per il “Daily Telegraph” il “clown prince of Europe”. Basta e avanza. Fatto sta che Berlusconi, un po’ per la situazione economica che non decolla e un po’ per la sua vita privata vissuta sulla falsariga di un famoso  motivo di Vasco Rossi, vive ora un momento difficile e, per giunta, inseguito dalla Procura di Milano per il Rubygate.
Ciononostante, pare riuscire a destreggiarsi alla grande, nonostante la procura di Milano, con a capo la rossa Ilda Boccassini non gli dia tregua. Comunque sia, ha dato dimostrazione di avere una maggioranza per governare, che sebbene risicata potrebbe trovare nuovi proseliti visto il percorso sbagliato intrapreso dagli avversari, che con la storia che “Berlusconi è bell’e fritto” non avendo i voti sufficienti per governare, hanno illuso gli elettori.
E continuato tuttora a farlo, credendo che si possa realizzare quel “Miracolo a Milano”, che poco ha a che fare con il film di Vottorio De Sica in cui i barboni iniziano a volare a cavallo delle scope dei netturbini in cielo. L’opposizione vuole il miracolo di San Vittore. Non c’è che dire, per Berlusconi, giovedì è stato un giorno fortunato: ha vinto sulla procura di Milano, l’opposizione ha perso e Bossi, non portando a casa il federalismo (anzi, ha peggiorato la situazione, facendo approvare dal Cdm il federalismo con un decreto, il Quirinale l’ha respinto al mittente), dovrà stringersi a lui ancora di più.
A ben vedere, tutti i giri delle sette chiese fatti da Calderoli non hanno sortito alcun effetto. In conclusione. Casini ha perso la fiducia di costruire un governo diverso dall’attuale, Fini non ha raggiunto l’obiettivo di defenestrarlo da Palazzo Chigi e Bersani spera che sia la Procura di Milano a sconfiggerlo.
Ma per come si è messa la vicenda giudiziaria, non è detto che potrebbe dargli una mano: la questione della competenza posta dagli avvocati del Cavaliere potrebbe rivelarsi un boomerang.

 
 
 

Le parole a ruota libera della Lega

Post n°207 pubblicato il 05 Gennaio 2011 da vitotroiano

Sarà pur vero che la Lega ormai è l'unico partitito che si occupa del territorio sarà parzialmente vero che Bossi non va mai in vacanza, salvo che a Ponte di Legno - mentre gli altri, da Fini a Casini, svernano ai Tropici - e sarà verissimo che mentre gli altri riposano, i leghisti lavorano, per il loro Nord, beninteso: soprattutto dichiarano, parlano, esternano.
Ogni parola viene amplificata dalla stampa, anche perchè sono giorni di vacanze di Natale e comunque la fogliazione dei giornali va riempita. Cosicché, si è ripetuto il teatrino delle dichiarazioni che non dichiarano, dando spesso l’impressione di un affollarsi ora di allarmismi, ora di inviti alla calma, avendo sempre lo stesso comun denominatore: o il federalismo o le elezioni.
Ultimo in ordine di tempo, il ministro Calderoli, con la sua intervista a “Il Sole 24 Ore”, con l’ennesimo ultimatum. A chi? Al Premier? A Fini? A Casini? A Bersani? Il Federalismo come pietra filosofale e, al tempo stesso, come punto irrinunciabile, approdo inevitabile, ragion d’essere d’un alleanza e di una maggioranza.
Insomma, una questione di vita o di morte. Ma stanno proprio così le cose? C’è tanta ragione per allarmare e allarmarsi? L’impressione è che la Lega tenga tutti, e in primis il Cav, sotto pressione perché a sua volta pressata dalla base che vorrebbe la terra promessa (federalismo) subito, vede in Fini e Casini il vecchio sistema partitocratico che resiste e taglia la strada, mentre si fa difficile la resistenza leghista al Governo per via delle oggettive difficoltà economiche, fiscali, di sicurezza: la cosiddetta palude romana.
E’ quest’ultima la vera ratio del malessere bossiano, qualcuno dice esteso se non scaturito da Tremonti, convinto che se non si andrà presto alla conta elettorale, i malumori creati dalle difficoltà berlusconiane si irradieranno fino al corpo leghista, drenando i voti a favore innanzitutto di Casini che condivide con Fini, ma molto più di costui, almeno nell’entourage leghista, la palma dell’antipatia.
Anche perché la Lega sa perfettamente che il suo vero antagonista resta Pier Ferdinando destinato, prima o poi, a giocare un ruolo decisivo, sia per questa maggioranza (di tre voti) sia per altre maggioranze più o meno larghe o allargate. Mentre per la Lega Fini è il vero sconfitto del 14 dicembre, la ripresa di un suo ruolo autonomo dentro un vaghissimo polo dei moderati sarebbe comunque agevolata dal rinvio delle elezioni e nel frattempo metterebbe i bastoni fra le ruote nelle Commissioni Parlamentari, logorando il Governo e la stessa Lega.
La quale attende il responso della Commissione per il Federalismo previsto per metà gennaio, col voto determinante del finiano Baldassarre. I timori leghisti che emergono dall’accavallarsi delle dichiarazioni, fra una “cimice” non trovata e un petardo a Gemonio scaturito più che dalla palude romana che dalla testa del giovane figlio di leghisti (?!), non hanno convinto il Premier, nonostante l’aggiunta dei veleni su Tremonti dipinto come machiavellico tessitore di trame contro il Principe.
Il Cavaliere sa che una bocciatura del Federalismo, anche da parte di Fini&Casini, non è politicamente praticabile per il semplice motivo che ne deriverebbero automaticamente elezioni anticipate: un rischio mortale per Fini e un favore grande come una casa a Bossi. Semmai, il problema più serio sarà la sentenza della Corte Costituzionale, nel fatale11 gennaio, anche se le voci parlano di un dispositivo non drastico, ultimativo, prescrittivo.
Per il resto, Berlusconi non ignora che la palude romana, ovvero la mancanza di una vera maggioranza che consenta il decollo di riforme incisive, sarebbe fatale tanto a lui che alla sua maggioranza. Sa che se non riuscirà ad allargarla, il ricorso al voto degli italiani sarà inevitabile.
Nel frattempo continueranno le interviste leghiste. Un po’ a ruota libera, un po’ per la base. Verrà infine l’Epifania, che tutte le dichiarazioni si porta via...

 
 
 

La guerra tra Magistrati nell'IdV

Post n°206 pubblicato il 28 Dicembre 2010 da vitotroiano

C'era da aspettarselo che prima o poi l’eroe di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, dovesse vedersela con la questione morale di cui lui è stato il principale propagandista e accanito propugnatore.

Proprio lui, che ha sconfitto la Prima repubblica dei partiti finanziati illegalmente di cui Bettino Craxi fu preso come capro espiatorio, per cui fu soggetto al lancio di monetine dai comunisti e fascisti all’uscita dell’Hotel Raphael, mentre nel bunker del Palazzo di giustizia di Milano, l’eroe se la godeva per il fattaccio accaduto, ha subito la medesima onta da parte dei suoi militanti e simpatizzanti all’entrata di un cinema di Matera.

Brutto Natale per Di Pietro. Un anno “horribilis per il fustigatore dei costumi politici non consoni alla morale. 

 Per la legge del contrappasso si potrebbe dire che Di Pietro ha subito la pena afflitta alle anime dei peccatori per le colpe da loro commesse sulla terra.

La goccia che fa fatto traboccare il vaso Idv è stata la fuoruscita dal partito di tre parlamentari verso la maggioranza berlusconiana.

Nella scorsa legislatura, invece, ci fu il caso del senatore napoletano De Gregorio che prese cappello è lasciò Di Pietro di stucco, mettendo, di fatto, in crisi la già fragile maggioranza a Palazzo Madama del governo Prodi, sostenuta finché fu possibile dal gruppo dei senatori a vita. In questa legislatura, i dissidenti dell’Idv hanno funzionato come una sorta di soccorso rosso, salvando la maggioranza berlusconiana traballante.

Per il primo caso e per il precedente, si dice che il miglior alleato di Berlusconi  è Di Pietro.

Va da  sé che sul banco degli imputati, ironia della sorte, sta l’ex Pm, accusato di aver  voluto liste a sua immagine e somiglianza che, alla prova del fuoco, si sono rilevate dei boomerang.

Chi muove le accuse nei suoi confronti per aver fatto dell’Idv una sorta di legione straniera o, come dicono in molti, una specie di “armata Brancaleone”, sono i suo avversari interni capeggiati da Luigi De Magistris, l’ex Pm di Catanzaro arrivato alla notorietà per via dell’inchiesta “Why not, che, alla fine, si è risolta in fumo, senza arrosto.

Naturalmente, la perdita di parlamentari ha dato il pretesto a De Magistris e ad esponenti dell’Idv di sollevare la questione morale.

In verità, non è la prima volta, infatti da tempi non sospetti, si muovo critiche a Di Pietro, colpevole di gestire il partito in termini personalistici, facendo di tutta un erba un fascio. Siccome la gestione di Di Pietro tende a mettere assieme vicende di famiglia e affari politici, questo modo di fare politica e governo interno non va per nulla giù alla corrente più radicale di De Magistris, legata alla rivista MicroMega, sostenitrice dell’alleanza tra Idv e Sel di Vendola , con la partecipazione straordinaria del movimento di Beppe Grillo. Il che non significa la costituzione di un quarto polo a sinistra del Pd, anzi tutt’altro, un partito alleato del Pd.

Tutti insieme appassionatamente per fare la fine dell’Unione, con i ministri di Prodi che scioperavano contro il loro medesimo governo. 

Tuttavia, De Magistris precisa, nel contempo, che l’attacco non è rivolto nei confronti dell’eroe – fondatore, bensì è un modo chiaro per dirgli che così come stanno le cose non vanno, ragion per cui, occorre un cambio di passo dentro l’Idv, introducendo la democrazia interna ed evitando che ci sia un uomo solo al comando.

Una dialettica che dura da mesi, per l’esattezza prima del congresso nazionale, ma Di Pietro da questo orecchio non ci sente e va avanti come crede e piace, non ascoltando la coscienza critica al suo interno.

 

 

 
 
 

I due nodi da sciogliere nel Pdl: donne e cultura

Post n°205 pubblicato il 24 Novembre 2010 da vitotroiano

Il Pdl, olltre a vivere con preoccupazione i problemi della tenuta della maggioranza di governo, sta vivendo malamente due crisi davvero inedite: la questione femminile e il caso della cultura. Per questo, se si andasse al voto anticipato, questi due nodi non sarebbero scioti. Soprattutto la questione delle donne è un'occasione persa che serba in sè notevoli potenzialità e novità, mentre il caso cultura appare ormai irrecuperabile, nonostante le capacità del ministro Bondi e la presenza, alla nascita di Forza Italia, di alcuni intellettuali di altissimo livello. Il fatto clamoroso, però, è che il Pdl ha perso terreno non solo sulla cultura, ma anche nel terreno natutrale di Berlusconi: la tv. Non si potevano di certo cancellare programmi come "Anno zero", "Ballarò"e "Vieni Via con me", ma a questi si potevano contrapporre programmi della stessa portata bellica è questo Berlusconi non è stato in grado di farlo. Insomma è mancata una controinformazione berlusconiana verso quellain mano all'opposizione di centrosinistra e della sinistra radicale. E, comunque, ha sottovalutato quest'arma mediatica micidiale, strano per uno che viene dalla televisione, per cui sta pagando prezzi altissimi politici e di immagine. Dirte che Porta a Porta è alleata di Berlusconi è dire una fesseria. Bruno Vespa è un professionista non fazioso che gioca di certo sul versante del centrodestra, ma con quel equilibrio e con quella moderazione tipicas della scuola ex Dc di Ettore bernabei e di Biagio Agnes. Per quanto riguarda la questione femminile, la minaccia di dimissioni dellla Carfagna l'ha fatta esplodere sebbene covasse come carboni ardenti sotto la cebnere. La questione è venuta fuori per la politica di arruolamento fatta da Silvio Berlusconi. Questa operazione gli farebbe onore se fosse stata concepita per aprire una sorta di breccia nel mondo maschilista della politica. E', come si suol dire, la vicenda del ministro Carfagna è da leggere come una crisi di crescita, che non può essere banalizzata con il gossip, nè tantomeno presa sottogamba. Queste donne parlamentari e di governo venute da esperienze diverse ne hanno fatto di strada. In questo Berlusconi nopn c'entra un fico secco, semmai è tutta farina del loro sacco. Parafrasando Simone de Beauvoir: "Donna non si nasce , si diventa". Questo vale soprattutto in politica. Parliamo di quelle che correttamente e in modo serio e impegnato fanno il loro mestiere e non di quelle che fanno di tuttto per mettersi in vista, facendo più danno che bene a Berlusconi e alla maggioranza. Berlusconi, nelle variecampagne elettorali ha messo in lista un gruppo di giovani donne, senza alcuna motivazione politica, bensì, a mio avviso come oggetto d'amore e per farsi bello. Alcune di queste sono state elette parlamentari e addirittura sono nel governo. Per come si sono mosse, hanno dimostrato di avere fegato, qualità che alcuni loro colleghi di partito e di governo si sognanoe hanno anche portato una ventata di aria nuova nella vita politica Italia, dall'altro. E adesso, piaccia o non piaccia, vogliono contare di più all'interno del partito. Proprio per come sono cresciute politicamente, partendo praticamente da zero, sono da ammirare e da tenere a debita considerazione. Gli esempi non mancano: Maria Stella Gelmini in Lombardia, Jole Santelli in Clabria, Michaela Biancofiore in Trentino Alto Adige, Deborah Bergamini in Toscana, Stefania Prestigiacomo in Sicilia. Sono tutte ormai navigate che vivono in un partito in cui la plotica è maschile. Non possono essere trattate con sufficienza, per il fatto che Berlusconi abbia fatto loro il regalo parlamentare e ministeriale. Proprio per questa ragione c'è la rivolta delle donne del Pdl che vogliono essere "mai ombre a nessuno".

 
 
 
 
 

La svendola al Pd

Post n°202 pubblicato il 16 Novembre 2010 da vitotroiano

Lo schiaffo al Pd c’è stato, eccome. La vittoria alle primarie di Pisapia, non candidato dal Pd che gli aveva preferito Boeri, archistar amato da una certa borghesia progressista, e non solo, può portare a inedite svolte sia dentro la vecchia sinistra milanese e lombarda (vecchia anche per sconfitte ripetute) sia nell’intero panorama politico.
Come sempre, chi partiva favorito ha perso e viceversa, anche se il terzo incomodo Onida ha giocato un ruolo per dir così destabilizzante. Pisapia era stato incoronato da Vendola, ma una corona del genere, troppo schierata, non gli stava comoda, tant’è vero che la sua campagna elettorale ha puntato anche sul tema del garantismo assicurandosi un consenso non effimero di alcuni ambienti socialisti, e persino di Emanuele Macaluso.
In questo senso lo smacco del gruppo dirigente Pd, in special modo della nomenclatura Ds, è stato netto, tenendo anche presente un dettaglio non insignificante: che dal 1993 la sinistra non governa la città di Milano, che è sostanzialmente moderata, e in cui il voto dei socialisti è, da quella data,patrimonio in un certo senso acquisito da Berlusconi e dai sindaci Albertini e Moratti.

Pisapia, al di là delle benedizioni laiche di Vendola, non ha pigiato il pedale di sinistra,ha avuto parole di stima per l’elettorato socialista, non ha mai dato l’impressione di radicalizzare ma, semmai, di convergere al centro,sia pure in termini nebulosi. Da tenere d’occhio anche e soprattutto dalla Moratti che ha avuto l’investitura per il secondo mandato direttamente dal Cavaliere, con un radiomessaggio alla convention ambrosiana del Pdl.
A Milano si sta muovendo qualcosa, come è naturale prima di ogni elezione amministrativa. Questa volta, però, la situazione politica è diversa perchè l’asse portante milanese e nazionale, ovvero il Pdl, mostra crepe e malesseri di cui la scissione di Fini è l’evidenziatore principale.
Non si sa quanto possa incidere la scelta finiana nelle prossime scadenze politico-amministrative, ma la storia insegna che gli strappi non vanno mai sottovalutati, tanto più che al sindaco non irridono,a quanto pare, sondaggi esaltanti, sui quali potrebbero pesare negativamente le scelte e/o liste di disturbo di ex assessori allontanati dalla Moratti. Da non dimenticare poi, il ruolo, che potrebbe essere dirompente dell'ex sindaco Gabriele Albertini, indicato da un Cacciari come la scelta più opportuna se non decisiva per l’opposizione. La Lega, che sembra aver messo il silenziatore sulle ambizioni per Palazzo Marino, dovrebbe essere in crescita, anche grazie al terremoto finiano e alle vicende di varia umanità con al centro la vita privata di un Premier, sul quale continua l’accanimento giudiziario, bilanciato, tuttavia, dalla lealtà di Bossi e Maroni, mentre la base mugugna, è insoddisfatta, se ne scorgono malumori, tensioni, divisioni.
In questo quadro in movimento merita una sottolineatura la posizione di Roberto Formigoni, che è apparso in gran forma alla convention ambrosiana, tanto da essere indicato come un punto di riferimento dentro un Pdl percorso da malesseri e incertezze. ll Celeste ha gettato tutto il peso politico ed elettorale della sua leadership, mettendo subito in chiaro che il Premier è e sarà Berlusconi, e che il voto è tanto inevitabile quanto imminente, magari a gennaio.
E lui vorrà esserci,“perché le vicende estive hanno staccato molti, anche nostri elettori, dalla politica e dovremo andare al recupero riconoscendo errori, e spiegando che continuaiamo a essere quelli che difendono il lavoro, l’economia, la famiglia. Sarà un momento difficile, delicato, e le elezioni dovremo sudarcele, voto dopo voto”.
Poche promesse, molto lavoro.

 
 
 

Il vuoto della politica rispecchiata dalla Rai

Post n°201 pubblicato il 25 Ottobre 2010 da vitotroiano

Un mondo a sè, cambiato, diverso, capovolto. No, non è (più) la Rai. Nella parabola discendente del suo direttore generale Masi e in quella sempre più in sù e sempre meno frenabile dei vari anchor men/women che vanno per la maggiore, c’è tutta la “non Rai” di oggi, l’autobiografia di una nazione in cui la politica è stata colpita al cuore e sostituita da un gruppo ristretto di protagonisti dei mass media i quali, più o meno in accordo con Procure talvolta amiche, stanno dettando l’agenda politica dell’opposizione. Sono, anzi, loro l’opposizione, ne determinano le sorti, la linea, i successi. La Rai, che è da sempre il termometro della nostrana Polis, il suo sismografo che anticipa le mosse del Palazzo, è in tutto e per tutto lo specchio vuoto della politica italiana. Al tempo stesso, l’irresistibile ascesa dei conduttori militanti ha di fatto modificato la struttura per dir così storica, politicizzata della Rai, con la sua endemica lottizzazione. Il costituirsi di un pezzo della azienda pubblica in un partito a sè è la vera novità, suo modo rivoluzionaria, di quanto sta accadendo. Noi possiamo addirittura seguire gli sviluppi di questa mutazione giorno per giorno, puntata dopo puntata. In cui prende forma, al posto del Partito Unico Rai, una serie di movimenti politico-populisti a sè stanti, con i relativi leader di riferimento, genericamente giustizialisti, che ignorano sistematicamente la loro genesi, la loro come dire legittimità storica, chè anzi la rifiutano contestandola alla base e sbeffeggiandone chi la rappresenta, ovvero il direttore generale. Se il potere della politica si fonda sulla auctoritas, la quale è tale anche nelle diverse branchie in cui si articola, in modo particolare la Rai, che è statuariamente dipende dal Parlamento e dunque dai partiti politici, se questa autorità riconosciuta e condivisa viene meno perché respinta al mittente, ecco che il vuoto creatosi viene immediatamente riempito da un’altra forma di auctoritas, da un altro potere. Quello che i conduttori tipo Michele Santoro, ma non solo, vanno oggi mostrando, dati dell’audience alla mano, altro non è che un contropotere che essi oppongono al parlamentarismo e che fanno derivare direttamente dal popolo. Anche il Presidente del Consiglio si comporta spesso così, invocando la sua investitura popolare, ma a differenzaa loro, Berlusconi è appunto, plurilegittimato dal voto del popolo, non da un indice di gradimento. Ma a certi conduttori poco importa se l’Auditel è una cosa e il popolo italiano un’altra. La dinamica che li spinge inesorabilmente a contestare Masi e dunque l’autorità che è responsabile dell’Azienda Rai, ha un sottofondo autoritario la cui autoreferenzialità modifica alla radice la mission della Rai e, prima o poi, ne segnerà la crisi. Troppo facile e sommariamente superficiale invocare le nefandezze del conflitto d’interessi, i fondi di Minzolini, il Tg di Fede, gli effetti del duopolio. A parte il fatto che il duopolioo non c’è più e da tempo (Murdoch, digitale terrestre, La 7 ecc) il fatto vero è che il servizio pubblico radiotelevisivo è tale nella misura in cui tutti i suoi componenti si riconoscono non tanto o soltanto in un Cda voluto dal Parlamento quanto, soprattutto, nel direttore generale che del servizio pubblico è garante e gestore massimo. Il giorno in cui questo principio viene infranto, anche alla luce dei colpi esterni inferti da magistrati che hanno imposto e ricollocato dirigenti e conduttori,la Rai perde inesorabilmente l’identità e lo scopo. Del resto,già da anni si assiste ad una parcellizzazione del potere,nel senso che quote di questo potere Rai vengono sottratte alla dirigenza interna e attribuite all’outsoursing, ovvero ai padroni dei Format. Ill discorso ci porterebbe lontano,ma se osserviamo la decadenza progressiva delle idee e delle progettualitàRai, non è difficile comprenderne una delle ragioni proprio nell’invasione di decine e decine di i Format, pensati e  realizzati fuori dalla Rai. Alla fine, che resterà del mitico Servizio Pubblico Radiotelevisivo?

 
 
 

IL destino e la storia di una grande città

Post n°200 pubblicato il 24 Settembre 2010 da vitotroiano
Foto di vitotroiano

 Ci sono diversi modi per collocare i problemi di Milano (“la città più città d’Italia”) in una prospettiva storica tale da ricomporre in un ampio affresco i tasselli che l’hanno messa insieme, da Roma, anzi dei Celti, ai giorni nostri, di Albertini e Moratti. Quello scelto da Lodovico Festa e Carlo Tognoli nel loro “Destino di una città”, Boroli editore, è di certo il modo più consapevole e istruttivo, mai disattento, spesso ricco di spunti, intrigante, suggestivo. E’ una vera e propria conversazione a due voci in cui il ruolo di chi è stato per un decennio Sindaco, oltre che Ministro ed europarlamentare socialista, è come nascosto, per la naturale vocazione all’understatement tognoliano, dietro il narratore storico, col controcanto attento, integrante e graffiante politicamente, di un acuto giornalista, Lodovico Festa, peraltro ottimo saggista, sempre per la Boroli, con il non dimenticato pamphlet: “Il partito della decadenza”, che già nel titolo è una narrazione politically uncorrect, fuori dal mainstream. Tognoli e Festa, delineando il destino milanese “dalla città romana all’Expo 2015” partono da una premessa, che vuole essere un preambolo storico-politico per respingere le letture sommarie e semplificatorie di una città periodicamente insidiata dalle emergenze (gli immmigrati), sull’orlo dell’abisso (mafia e ndrangheta), sulla strada dell’inesorabile declino (non c’è più lavoro), vittima di uno dei tanti crolli della modernità (la droga e l’inquinamento). Un immagine volutamente deformata di città, in nome di quella filosofia spicciola e strumentale che si ispira all’antico adagio “non è più la Milano di una volta,signora mia”. Infatti, per dirla con l’ex Sindaco di Milano: “Abbiamo vissuto abbastanza per vedere noi stessi diversi ‘crolli’ di Milano al di là delle ultime macerie della Seconda Guerra mondiale... dall’immigrazione dei ’50 all’inquinamento industriale del boom, alla delinquenza dei sessanta e agli sconvolgimenti successivi” quando, nei ’70, non potevi andare in centro, vuoi per la contestazione vuoi, soprattutto, per il terrorismo. L’approccio alla storia di Milano si ispira evocare, qua e là, alle impostazioni e agli accenti del grande lombardo, Alessandro Manzoni, con la sua serena e paziente capacità di declinare una parentesi, quella sì davvero tragica e catastofrica, la Peste del 1628 (con la mirabile figura di Federico Borromeo, omaggiato giustamente dal libro come personalità eccezionale di un epoca), ricorrendo oltre che ai disegni della Provvidenza, alla memorabile esclamazione di un personaggio, con quel “Va va povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano”, frase quant’altre mai emblematica, che racchiude l’inconfondibile “cifra” di una evocazione storica della città lontana dagli stereotipi. Una Milano cui il destino ha riservato anche il ruolo di capitale dell’impero romano,pur sapendo conservare,come in una felice contraddizione, quel carattere di indipendenza da Roma “ imposto da Ambrogio, suggerita,pare , da Sant’Agostino,diffidente verso i pagani” , e il conseguente ,mai rinnegato,rito ambrosiano , iscritto nel dna cittadino,ben oltre i dettami puramente liturgici.La cavalcata è lunga e appassionante, per via di una non linearità della storia milanese, con le sue fermate e le sue rinascite. La conversazione di Tognoli e Festa non dimentica le caratteristiche geografiche, oltre che storiche, di MIlano dove ha contato il suo essere spartiacque tra la Lombardia irrigua e agricola e quella prealpina a vocazione manifatturiera. Una sorta di città stato, si direbbe, collocata al centro dell’asse padano, prima tra la Gallia e Roma imperiale successivamente al crocevia dei traffici verso l’Europa carolingia. Mentre la stessa conformazione urbana si trasforma da castrum, da accampamento/presidio militare a città medioevale quindi sforzesca e leonardesca e via via teresiana (da Maria Teresa, grande imperatrice e grande riformatrice, che fa risorgere la città dopo la opaca parentesi spagnola, ricorda giustamente Tognoli) e napoleonica, giù giù, passando per la rivoluzione industriale che incorona la città come vera capitale economica, cuore pulsante e trainante nella compiuta unità risorgimentale. Centro di richiamo internazionale e, al tempo stesso, custode di una milanesità in cui una borghesia imprenditrice sa confrontarsi con la concorrenza mondiale mentre nascono i movimenti di massa, a cominciare dal socialismo riformista, turatiano, nordico, non senza le repressioni di fine 800 con Bava Beccaris,e le successive rinascite democratiche con i sindaci socialisti Caldara e Filippetti. Dopo la Guerra Mondiale, eccoci al fascismo con lo stato forte, onnnipresente e autoritario, l’architettura piacentiniana, i quadri memorabili di Mario Sironi con le ciminiere e le periferie, le prime Triennali che rispecchiano la vocazione creativa del design, l’arte applicata all’industria. E siamo al postfascismo, alla rinascita dalle macerie belliche, alle rinnovate guide socialiste a Palazzo Marino, da Greppi in poi. Dal centrismo al centro sinistra alle giunte di sinistra (con osservazioni preziose e inedite di Festa sul Pci milanese,di cui parleremo in altra occasione). E con le osservazioni pacate ma ferme di Tognoli sullo stantio ritornello del rampantismo degli ’80, che non riguarda certamente il gruppo dirigente socialista formatosi intorno a Bettino Craxi, ispiratore di una politica municipale che fu premiata dai milanesi dal 1980 al 1990, un decennio di grandi realizzazioni e di fondamentali decisioni e progetti per la città di oggi. Siamo arrivati ai nostri giorni. “Come dicono autorevoli sociologi ed economisti-conclude Carlo Tognoli - Milano è nella categoria delle città globali... una sorta di città anseatica connotata di commerci e contatti internazionali... anche se, proabilmente, manca oggi la visione, forse l’amore, come dimostra la tiepida élite che scompare al venerdì sera, al contrario dei padri e dei nonni. E’ il momento quindi di ricorrere, per sindaci e presidenti, al pragmatismo che ha caratterizzato la Milano del novecento prendendo come occasione l’Expo 2015, e agire, come se fosse una nuova ricostruzione”. Per non perdere

 
 
 

C'è sempre un puro più puro che ti epura

Post n°199 pubblicato il 22 Giugno 2010 da vitotroiano
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 La morale di questa storiaccia di Tonino Di Pietro, indagato per truffa, in seguito alla denuncia del suo ex grande amico, Elio Veltri, ex PSI, per i rimborsi della campagna per le Europee del 2004 possiamo tranquillamente affermare che nessuno può ritenersi come la moglie di Cesare nemmeno Di Pietro. 

L'antico ed elegante aforisma del leader socialista romagnolo - contro chi, da bolscevico vittorioso o da perdente radicale, pretende di essere, appunto, un puro più puro che finirà per epurarti - conserva, ancora oggi, la sua attualità. Soprattutto, come monito, contro tutte le forme di radicalismo distruttivo e autodistruttivo. E non dovrebbe essere dimenticato, in primis, da quanti, all'interno del centro-sinistra, dovrebbero impegnarsi, in modo più convincente, per liberare l'opposizione dalle scorie nocive del giustizialismo.

 

 
 
 

ENRICO MENTANA NUOVO DIRETTORE Tg LA7

Post n°198 pubblicato il 15 Giugno 2010 da vitotroiano
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Il giornalista milanese Enrico Mentana, 55 anni, è il nuovo direttore del Tg LA7 al posto di Antonello Piroso. Il papà di Mentana fu giornalista e inviato della Gazzetta dello Sport. Dopo aver iniziato in Rai ha condotto per circa 15 anni il Tg di canale 5, per poi condurre sempre sulle reti Mediaset il programma di approfondimento Matrix. Attualmente conduceva solo sul web la rubrica Mentana Condicio per corriere Tv. Fonte della notizia sito Dagospia. 

 
 
 

Nessuno mi può giudicare

Post n°197 pubblicato il 08 Giugno 2010 da vitotroiano
Foto di vitotroiano

Non esiste un giudice a Berlino per Antonio di Pietro, visto che lui è al di sopra di ogni sospetto, e che non è uno che può essere messo alla gogna giudiziaria come un normale cittadino italiano. Nessuno lo può giudicare, nemmeno il padreterno. Ci sarà pure una ragione se Di Pietro non ha alcun tallone d’Achille, per essere colpito, giudiziariamente, finché la magistratura è quella che è, chiusa nella sua logica di casta e corporativa: cane non morde cane. Anche la recente storia venuta alla luce, in cui Antonio di Pietro parrebbe coinvolto, in un rapporto con la “cricca” finirà in una bolla di sapone.  Di Pietro ne ha viste di tutti i colori, ma è sempre uscito da ogni vicenda con la testa alta e stavolta sarà come le volte passate. Figurarsi se i suoi ex colleghi magistrati lo toccheranno, anche perché Di Pietro riesce sempre a trovare la pezza a colore, per cui lui risulta un intoccabile. Ecco, la parola giusta che gli si addice perfettamente è intoccabile, per cui è meglio mettersi l’anima in pace e convivere con lui politicamente, sperando nel cambio di opinione dell’elettorato. Per adesso, però, non ci sono segnali in questo senso. Forte di questo consenso, guascone com’è, è pronto ad affrontare qualsiasi rischio. Ultimamente è venuta fuori una fotografia in cui tra spioni italiani e americani c’era lui che veniva festeggiato e la vicenda, finì come finì: tanto rumore per nulla. Ma la Di Pietro story è ricca di episodi che lo vedono come indagato e testimone, subito dopo le sue dimissioni dalla magistratura. Dopo essere stato l’eroe in senso assoluto di Mani pulite, la magistratura inquirente lo indagò senza alcun esito, dato che le varie inchieste si risolsero in assoluzioni piene o archiviazioni. Non è tutto. Nell’anno di grazia 1995 venne indagato dal sostituto procuratore di Brescia, Fabio Salamone, che ipotizzò reati di concussione e abuso d’ufficio, in seguito a dichiarazioni rese dal generale della Guardia di finanza, Cerciello ma il giudice per le indagini preliminari archiviò il procedimento.

Una seconda inchiesta venne aperta sulla base della testimonianza di Giancarlo Gorrini e di dossier anonimi su presunti traffici illeciti tra l’ex Pm e la società di assicurazioni di cui Gorrini era il proprietario. L’inchiesta prese una strada completamente diversa e il Pm Salamone arrivò ad ipotizzare un complotto finalizzato a far dimettere Di Pietro per mezzo di ricatti e dossier anonimi. Per farla breve, la Procura generale di Brescia rimosse dall’incarico i Pm Salamone e Bonfigli per una presunta “grave inimicizia” con Di Pietro, che non era imputato imputato. Intanto, Salamone faceva ricorso in Cassazione contro la decisione della Procura, ma venne respinto. Alla fine della storia, il Procuratore, che sostenne la pubblica accusa in sostituzione di Salamone, rinunciò ad interrogare i testimoni convocati dall’accusa e chiese subito l’assoluzione per tutti gli imputati. Istanza che venne accolta dal giudice. Comunque sia, tutto evaporò e Di Pietro uscì pulito e onesto, come volevasi dimostrare. Ammesso e non concesso che Di Pietro abbia alcun tallone di Achille, sotto l’aspetto giudiziario, per le ragioni dette, lo ha, invece, sul piano politico. Il suo partito non è duro e puro come lui lascia credere. Semmai è solo duro, portato a questo grado di inflessibilità, vuoi perché sfodera un giustizialismo d’antan vuoi perché fa la voce grossa su ogni provvedimento di governo. La politica del più uno, lo porta a scavalcare a sinistra il Pd, il suo benefattore. Senza l’apparentamento avuto gratis da Veltroni non avrebbe raggiunto il quorum per eleggere i parlamentari Idv. Si pone come un castigamatti, non guardando in faccia nessuno, ma c’è del “marcio in Danimarca”, ossia nell’Idv. Così titolò la rivista Micromega il saggio al partito “anticasta” per antonomasia, dipingendolo come una sorta di refugium peccatorum in cui si era accasato un personale politico cascame dei partiti della Prima repubblica. Vero o no, in quel tipo di partito ci potrebbero stare anche le case di cui si parla in questi giorni. Di fronte alle critiche rivolte all’Idv, si era impegnato in prima persona a sanarlo tramite un repulisti con il congresso, ma alla prova dei fatti non ha mantenuto le promesse, dimostrando, nella fattispecie, di non essere un uomo d’onore, bensì un marinaio. L’unica novità fu che Luigi De Magistris ne uscì con le ossa rotte. Che cosa si poteva aspettare da un partito gestito in modo padronale? L’Eroe non voleva che l’ex Pm di “Why not” fosse un primus inter pares. Questo è l’Eroe: “guai a quel paese che ha bisogno di eroi”.

 
 
 

Storia di un Golpe

Post n°196 pubblicato il 01 Giugno 2010 da vitotroiano

Correva l’anno 1993, la Prima repubblica stava terremotando, con epicentro la Procura di Milano. Questa aveva iniziato, attraverso le sue inchieste giudiziarie, incentrate in particolare attorno al finanziamento illecito dei partiti , a spazzar via la classe politica di maggioranza e il sistema dei partiti. A distanza di anni, per l'esattezza diciotto, grazie a Francesco Cossiga, la cui autorevolezza sui misteri italianiè fuori discussione, abbiamo saputo che l'Fbi e i poteri forti forti economico-imprenditoriali diedero una mano al pool di Mani Pulite nonchè la Cia si oppose che Bettino Craxi andasse alla Presidenza del Consiglio. La prima Repubblica iniziò a terremotare con l'uccisione di Salvo Lima e poi con le violente scosse di Capaci e di via D'Amelio. Vale la pena ricordare che Giovanni Falcone aveva indagato sul rapporto Affari e politica in Sicilia, dove erano compromessi con la mafia tutti i gruppi imprenditoriali del Nord tranne, ad- onor del vero  senza fare i difensori di Silvio Berlusconi,  il gruppo dell'attuale Presidente del Consiglio.

Lo scopo della strage di Via D’Amelio non fu quello che volevano impossessarsi dell’agenda rossa, che, tralaltro, non era neppure nella borsa lasciata in macchina, in quel drammatico giorno, ma, forse, perché Borsellino disse che la mafia era entrata in Piazza Affari, in due interviste esclusive. Falcone e Borsellino era due gocce d’acqua e questi non poteva non sapere dell’inchiesta Affari e politica e, quindi, “l’aggregato economico imprenditoriale politico” di cui parla Grasso, non aveva alcuna voglia di essere scoperto con le mani nel sacco mafioso.

E’ una versione non campata tanto in aria, visto che di quell’inchiesta non si è saputo molto, anzi quasi niente, tuttavia, ha avuto, trascorso più di un ventennio, in questo mese, un’appendice giudiziaria, il caso Calcestruzzi. Prima in mano alla famiglia Ferruzzi – Gardini, ora alla Italcementi dei Pesenti, ma sempre oggetto dei desideri della Mafia.

Comunque sia, Falcone, stando al Ministero di Grazie e giustizia, con Claudio Martelli, stava indagando con i magistrati di Mosca sull’intreccio tra Mafia siciliana e quella russa, composta da ex agenti Kgb, e su una montagna di rubli, a seguito del crollo dell’Urss, che questi volevano spostare in Italia.

Non è che vogliamo fare di tutta un’erba un fascio, ma ci affidiamo alla narrazione di quei terribili avvenimenti, per capire meglio il contesto del 1993.      

Carlo Azeglio Ciampi, Presidente emerito della repubblica, ha ricordato quell’anno e la notte del 27 luglio, notte di bombe in cui si sfiorò, a suo avviso, il golpe.

Bombe mafiose colpirono San Giorgio al Velambro e, strano a dirsi, Palazzo Chigi restò isolato dal resto del mondo, per via dell’interruzione delle comunicazioni. Tuttavia, gli attentati tra il ’92 e il ’93, a Roma, Firenze e Milano, non furono farina solo del sacco mafioso ma ci fu l’entrata in gioco di una “Entità esterna”, il cosiddetto “Antistato,” per aiutare, forse, la formazione di una nuova “Entità politica”, “che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani pulite”. Ciampi non si avventura a dichiarare che tutto ciò servì a spianare la strada alla costituzione di Forza Italia, come, invece, fa il giornalista che lo intervista, Massimo Giannini(La Repubblica).

A dire il vero, ci sorprende che il presidente Ciampi, persona così misurata e di buon senso, parli solo ora di questi fatti e non lo fece quando aveva un potere di permettersi il lusso di investire direttamente il Parlamento e il Csm, avendo ricoperto le cariche di Presidente del consiglio prima e di Presidente della repubblica, successivamente.

E, comunque, Ciampi,quando ha potuto e voluto, è stato tosto. Nel libro Dietro le quinte, Geronimo, Paolo Cirino Pomicino, lo accusa come il capo della congiura antidemocristiana nonché delle svendite dei gioielli di Stato( sistema Ppss di cui facevano parte le tre Bin e gli enti pubblici).  

All’epoca della stagione stragista, fummo, e siamo, convinti, al contrario di Ciampi, che le bombe servirono come catalizzatore, ovverosia per accelerare il crollo della Prima repubblica sulla scia della rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite, altrimenti non si spiegherebbero l’uccisione di Lima e gli attentati a Falcone e Borsellino.

In proposito, Bettino Craxi fu il primo a dire che aveva la sensazione che una “manona” esterna stava tentando di destabilizzare la democrazia italiana. Il ragionamento di Bettino è stato ripreso, in questi giorni, dal figlio Bobo: “Le bombe, per chi si ricorda bene, furono di intimidazione perché il Parlamento “degli inquisiti” stava avviando una timida resistenza e i suicidi di Cagliari e Gardini gettarono una luce sinistra sull’operazione Mani Pulite. Indirettamente  quelle bombe servirono per accelerare la ‘rivoluzione’ italiana, non per frenarla”.

Chi ha tentato di fare dietrologie su quella lunga notte del ’93, Piero Grasso ha puntualizzato che all’atto delle bombe, non era nato alcun partito politico. Con ciò, ha tracciato una netta linea di confine tra le due vicende: attentati e formazione di un nuovo soggetto politico.

 Il Procuratore nazione Antimafia è un magistrato troppo serio, senza il supporto di prove certe, non parla a vanvera. D’altronde, non vuole imitare alcuni suoi colleghi che non hanno dato, certamente, una mano alla giustizia, allorquando hanno azzardato congetture e si sono impegnati in elucubrazioni.

Per Grasso (La Repubblica), “le stragi, secondo la ricostruzione , avevano da un lato la forma di un ricatto allo Stato per ottenere dei vantaggi, quelli indicati nel famoso papello ( 41 bis, abolizione dell’ergastolo e pentiti) e dall’altro le modalità tipiche del terrorismo mafioso lasciavano intravedere interessi di un aggregato economico imprenditoriale e politico che volesse conservare la situazione esistente”. Proseguendo in suo ragionamento, ha affermato che “teoricamente che il vuoto che si era creato poteva essere colmato da qualsiasi formazione politica di destra e di sinistra”. E, comunque, dietro la strategia della tensione del ’93, “c’era una regia che non poteva essere soltanto della mafia. Ma allo stato non c’è una prova giudiziaria dei contatto tra questa Entità e Cosa nostra”. E alla fine, ha concluso:” Dobbiamo stare attenti alla cronologia. Non risulta  che all’epoca delle stragi di Roma, Firenze e Milano fosse già nato quel partito politico”. La sua conclusione è che Cosa nostra, il che è anche “provato”, “non aveva ottenuto alcun risultato dalle stragi compiute. La teoria del ricatto non aveva funzionato”.

Più chiaro di così,vivaddio, Grasso non poteva essere, ragion per cui, non capiamo, da un lato, la levata di scudi nei suoi confronti di alcuni esponenti di maggioranza, come se avessero la coda di paglia, dall’altro, la conseguente forzatura da parte di quelli di opposizione che hanno  concluso che  due più due fa quattro, collegamento tra attentati e formazione di Forza Italia, quando non è nient’affatto vero.

 

 
 
 

Post N° 195

Post n°195 pubblicato il 26 Maggio 2010 da vitotroiano
Foto di vitotroiano

La buffa armata dei direttori di giornale, lunedì, sembrava un Ballarò per audiolesi. Nessuno ha mostrato o neppure finto di conoscere la legge incriminata, mentre pochissimi probabilmente sapevano come nel resto dell'Occidente funzioni davvero il segreto istruttorio.
 

Un linguaggio ancora più semplificato e scandito del consueto, accostamenti umanamente imperdibili, l'imbarazzo di chi era li soltanto perché mancare sarebbe stato ancora più complicato, la precisa impressione che la foto di gruppo contasse tutto e le parole niente. Nessuno - nessuno - ha mostrato o neppure finto di conoscere la legge incriminata, mentre pochissimi probabilmente sapevano come nel resto dell'Occidente funzioni davvero il segreto istruttorio.

Il  trofeo «non-so-di-che-parlo» è rimasto stretto tra le mani della solita Concita Di Gregorio, spettacolare: «Io credo che sia molto importante che questa non ne esca come una protesta dei giornalisti, in un mondo di cricche e di caste... mentre venivo qua un tassista mi ha detto: rimarrete senza lavoro. Ma è un problema che riguarda l'Italia, che riguarda tutti i cittadini... qui non stiamo parlando di noi... Occorre svegliare la parte dei cittadini che non ha ancora capito che cosa sta succedendo... perché è per loro, per il futuro di questo Paese che noi ci stiamo muovendo».


SANTA ALLEANZA

La buffa armata, insomma, non è grave e non è seria. Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, aveva paventato che i direttori anti-bavaglio potessero divenire «apostoli del pensiero unico giustizialista», «come nel biennio di Tangentopoli»; Il Riformista, ieri, ci ha fatto addirittura un titolo: «Santa alleanza dei direttori come nel '92». E oddio, qualche analogia c'è: ma per fortuna le cose restano sostanzialmente diverse, come diversa è la caratura di un direttore di ieri e una Di Gregorio di oggi.

Al tempi, nel 1992, anzitutto, si mormorava che i direttori dei principali quotidiani si telefonassero la sera per concordare spazi e titoli comuni. Un pool di vertice, in pratica. Si stupirono in molti, diversi anni dopo, quando Piero Sansonetti, condirettore de l'Unita nel 1992-1993, raccontò che era tutto vero: «Nel biennio 1992-1993 nacque un'alleanza di ferro tra quattro giornali italiani: il Corriere, la Stampa, l'Unite e Repubblica.

Il direttore dell'Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c'era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Tra i quattro giornali si stabilì un vero e proprio patto di consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli. Il  punto di riferimento di tutti era Paolo Mieli».

FORMIDABILI ANNI

Paolo Mieli ed Ezio Mauro non hanno confermato, ma Antonio Polito si: «Le cose funzionavano pressoché come dice Sansonetti... il governo perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano subito, appena ricevuto l'avviso di garanzia, anche per via delle nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l'opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme... Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi».

L'unico giornale non propriamente sdraiato sulle procure era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era L'Indipendente di Feltri & Belpietro. Persino al Manifesto, storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro giudici non conosceva tentennamenti.

Chi passava le notizie ai giornalisti? Capirlo resta utile soprattutto oggi. Le notizie ovviamente le passava un sacco di gente, ma resta fondamentale questa testimonianza di Italo Ghitti, il gip storico di Mani pulite: «Ci fu un momento (marzo 1994, ndr) in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del pool».

GIUDICI AL COMANDO

Ha raccontato anche il cassiere democristiano Severino Citaristi: «Consegnai gli elenchi a Di Pietro. Conoscendo le poco corrette abitudini di Milano, gli raccomandai di fare in modo che l'elenco non fosse reso pubblico. Melo assicurò. Infatti, due giorni dopo, quotidiani e settimanali pubblicarono integralmente gli elenchi».

Scrisse Bruno Perini, che seguiva l'inchiesta per il Manifesto: «Bisogna pur dire che a Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura. Molti giornali si sono messi sull'attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati... Anche in questo caso ha funzionato la forte dipendenza dalle fonti di informazione. Con un'aggravante: le fonti di informazione erano univoche».

Che cos'è cambiato, da allora? Molte cose, compreso un diluvio di intercettazioni che ai tempi non c'era, e che oggi, troppo spesso, Si accompagna a procedimenti1 che poi non reggono il vaglio dei processi.

ALTRI STRUMENTI

Il  pm Gherardo Colombo, sul Corriere dell'11 maggio scorso, l'ha messa cosi: «Ci sono casi in cui si può ricorrere ad altri strumenti investigativi: per esempio le indagini patrimoniali e bancarie. Ma questi metodi sono più dispendiosi e faticosi. Insomma, bisogna lavorare di più... Sarebbe necessario che quando be notizie acquisite con le intercettazioni non hanno rilievo con la materia con cui si indaga restino riservate... Bisognerebbe imparare a sintetizzare i propri provvedimenti senza riportare pedissequamente i contenuti dell'intercettazione o quelli dei verbali di polizia. Queste sono cose che si possono fare».
Ma che, come moltissime altre, non si fanno: anche perché l'armata dei direttori veglia sul futuro del nostro Paese

Filippo Facci da Libero

 
 
 

Brande Mou costruzione di un giornalista

Post n°194 pubblicato il 24 Maggio 2010 da vitotroiano

La parola d’ordine viene dagli Stati Uniti. Apprendista scribacchino, giovane giornalista, costruisciti il tuo brand, diventa la testata di te stesso! Si chiama personal branding e consiste nell'essere il più visibile possibile sul web. Attraverso reti sociali, blog, etc; bisogna costruire la propria reputazione, saltare in testa alla classifica delle ricerche di Google e sperare così di sedurre un redattore capo che, entusiasmatodalla tua personalità ti farà ponti d'oro per farti correre nella sua prestigiosa rivista.

Evidentemente, l’ efficacia del procedimento, alimentato soprattutto da un serbatoio di pensiero Usa come il Pew Research Center, va considerata con cautela, tranne che per qualche ‘firma’ già nota – visto che, per quanto riguarda il giornalismo online, internet continua ancora a non pagare, ma questo è un altro discorso. In ogni caso, la filosofia che sta sotto questo marchingegno è molto divertente

Allora, dio Google finirà per prendere il posto della commissione che dovrebbe concederti la tessera stampa? In ogni caso l’ argomento torna in primo piano: senza dei buoni risultati da motori di ricerca, niente salvezza. Bisogna sbattersi per montare in alto nelle pagine dei motori di ricerca, sognando di raggiungere un giorno il Graal del primo risultato in classifica.

Bisogna essere presenti, e poco importa con quali contenuti, ti diranno i corsi online di “referenziamento”: dopo tutto, un algoritmo non è particolarmente furbo. I promotori del personal branding blaterano sulla loro nuova fissazione e sul web in generale, sottolineando che tu, giornalista-marchio, devi essere prima di tutto autentico, invocare la tua etica e pubblicare i tuoi lavori. Quest’ ultimo dettaglio generalmente va in fumo perché tutta questa bella gente dimentica di andare a vedere come funziona il mondo, insomma di fare la vera cronaca. Essere visibile basterà. Al peggio, sarà il web a essere usato come terreno di indagine. La tua presenza di giornalista-brand online si riduce quindi nella tua presenza online.

A questo punto, non si tratta altro che di comunicazione, il cui primo obiettivo è la promozione della tua persona attraverso il web. Bisognerà pensare a creare il proprio mezzo, ma (e vai con gli anglicismi…) in uno spirito ben lontano dal ‘do it yourself’ del nonno hyppie e più vicino invece all’ egotrip-marketing.

Il discorso stile DRH (direttore delle risorse umane, ndr) è così apertamente rivendicato: devi venderti e travestirti da imprenditore. Gli eletti saranno pochi e allora ti devi battare. Potrai vantarti d’ aver ottenuto dei contatti telefonici (!) grazie al tuo blog e ai tweet e ai post… Ma si tratterà soprattutto di essere chiamato per fare un lavoretto in emergenza oppure per sostituire un’ assenza temporanea. Se non sei reattivo, non è grave: troveranno qualcun altro, ce ne sono tanti che si abbassano.

Il sistema esiste già: il personal branding non fa altro che razionalizzarlo. Grazie. Mettere le mani su qualche imbratta-carte disponibile è semplice come chiuderti il becco. Un eden liberale per tutti gli editori che, in cerca dei sottoimprenditori con partita iva piuttosto che di impiegati da assumere come salariati (anche come collaboratori), sognano individui isolati, che si sentono dalla parte dell’ impresa, da arpionare colpo dopo colpo senza dover scucire un contratto, in un mercato libero, certo, deregolamentato, concorrenziale, privo dei freni sindacali e di altre tentazioni solidaristiche. E allora, tu che dovrai assicurare la tua promozione per venderti meglio, vedrai la tua capacità critica annacquata? Qualcosa mi dice che i dipendenti qualche idea sulla questione ce l’ hanno…

Le scuole di giornalismo che, con regolarità sconcertante, si danno da fare per esplorare proprio le strade che sono più da scartare, si gettano sul concetto, finendo per confondere informazione e comunicazione, e facendo penetrare nei cervelli disponibili l'armatura del lecchino biodegradabile, che intreccia senza fiatare la sottomissione al mercato e la precarietà.

 
 
 

Le linee guida del Ministro Tremonti

Post n°193 pubblicato il 21 Maggio 2010 da vitotroiano

Una manovra più sistemica che congiunturale è quel che preannuncia il ministro Tremonti per il prossimo bilancio dello Stato. "Una manovra etica", come l'ha definita il ministro, con cui la correzione dei conti pubblici sarà guidata dal principio che "si darà a chi ha bisogno e si toglierà a chi non ne ha, riducendo i trasferimenti che non hanno ragione di essere e l'uso distorto del denaro pubblico". Questo quanto dichiarato recentemente a Bruxelles.
Ma già a Parma settimane orsono, in occasione del Convegno promosso da Confindustria per i suoi cento anni,Tremonti aveva per l'ennesima volta precisato i criteri focali della stretta relazione tra riforma "democratica" e possibilità di buona gestione della crisi e di nuove basi per una futura ripresa economica, all'insegna di un nuovo modello di società e di capitalismo, che ne fa un costruttore di una nuova visione "repubblicana" del futuro del Paese.
Centrale il ritorno del primato della politica attraverso la chiave di volta della riorganizzazione del sistema, la riforma fiscale, basata sulle tre linee guida: "Dalle persone alle cose,  dal complesso al semplice, dal centro alla periferia".
In relazione al tema della riforma dello Stato, inerente al lavoro del ministro Tremonti,
 il nuovo numero della Critica pubblica inoltre un ampio stralcio del saggio di Gennaro Acquaviva su "Craxi e i nemici della Grande Riforma" (che introduce il volume della Marsilio) con due importanti documenti dell'epoca: il celebre articolo di Bettino Craxi per l'Avanti! del 28 settembre del 1979, sul Presidenzialismo, e parte dell' intervento  alla Conferenza di Rimini del PSI sulla "Democrazia governante", testi di grande utilità e di vivo scontro politico ancora oggi.


 
 
 

UN NUOVO STATUTO DEI LAVORATORI Sacconi, Brunetta, Caldoro, Craxi il governo delle riforme con la Uil

Post n°192 pubblicato il 21 Maggio 2010 da vitotroiano

Con buona pace di Gino Giugni e Giacomo Brodolini, lo Statuto dei Lavoratori mostra i segni del tempo. Varato il 20 maggio del 1970, disegnava un sistema di tutele pensato per quegli anni e modellato sulla stragrande maggioranza delle aziende italiane di allora: quelle con oltre quindici dipendenti. E vero che non bisogna dimenticare la storia ma  il sistema-Paese rispetto a quegli anni è del tutto diverso. Per provare a scrivere insieme le nuove regole del lavoro che cambia, lo sforzo dei giuslavoristi più preparati, come Angelo Tiraboschi, incontra l’attenzione del leader della Uil, Luigi Angeletti e di esponenti del governo, da Sacconi a Brunetta, e della maggioranza come Stefania Craxi e Stefano Caldoro. Tutti socialisti, sì. E’ proprio il mondo riformista, organizzato intorno alla Fondazione Craxi, che ieri a Roma, nella sala del Capranica, ha riunito intorno ad un progetto sullo “ statuto dei lavoratori” un parterre d’eccezione. La manovra di “austerity” che il governo si appresta a varare resta al centro del dibattito politico e sindacale. Ma sia il ministro del Welfare Maurizio Sacconi che il leader della Uil Luigi Angeletti hanno preferito non commentare le indiscrezioni di questi giorni. “La manovra si discute quando è fatta”, ha tagliato corto il ministro inaugurando il convegno per il 40° anniversario dello Statuto dei Lavoratori. Anche Angeletti, parlando degli incontri avuti con il titolare dell’Economia Giulio Tremonti, ha spiegato a margine della conferenza che “non ci sono ancora cose definitive”, piuttosto “noi abbiamo detto cosa vogliamo”, ovvero “aggredire l’evasione fiscale e tagliare i costi della politica”. Per il leader della Uil “è questa la strada maestra” da seguire. Ma, ha assicurato, “da parte del governo non ci sono stati cenni su una riduzione della spesa sociale” mentre per quanto riguarda le pensioni “si ragiona su un blocco delle finestre” il che significa “un innalzamento dell’età pensionabile di due o tre mesi” e “abbiamo discusso anche della moratoria dei contratti del pubblico impiego”. Angeletti è convinto che alla fine la manovra correttiva conterrà il blocco degli aumenti contrattuali per gli statali. “Penso di sì - ha osservato - aspettiamo quando la manovra sarà pronta. Per ora discutiamo di ipotesi e di cose di principio. Ma il governo ha capito che bisogna tagliare i costi della politica. Ci saranno delle proposte su come e quando. Noi aspettiamo”. Secondo il dirigente sindacale, insomma, “le vere due ’manovre’ da fare sono sui costi della politica e sull’evasione. E’ più importante questo, infatti, che coreggere dell’1,6 per cento i conti, che restano un problema. Ma in Italia - ha aggiunto - c’è un’altra questione da risolvere prioritariamente: il rapporto tra cittadini e istituzioni, che deve essere assolutamente cambiato”.

Quanto alle polemiche sollevate dalla Cgil, “esclusa” finora dalle trattative per discutere la manovra finanziaria, Angeletti ha spiegato: “Ho chiamato il ministro dell’Economia due settimane fa per incontrarlo, gli ho detto vediamoci e lui mi ha risposto: ’vieni’. Ho alzato il telefono tre volte. Una volta sono andato da solo e un’altra con Bonanni. Così funziona”. Il leader della Uil ha quindi ricordato che in passato la Cgil ha trattato e chiuso accordi da sola. “Vale come quando Epifani ha fatto una trattativa e un accordo da sola con il presidente di Alitalia insieme al segretario del Pd”. Certo “non è la stessa cosa, è chiaro - ha proseguito - ma noi abbiamo fatto solo un incontro informale e loro un accordo. Comunque quando il governo convocherà le parti sociali, ognuno dirà quello che pensa”. E sull’atteggiamnento di corso Italia di fronte alla manovra è intervenuto anche Sacconi: “La Cgil non ha mai chiesto incontri informali” con l’esecutivo. In ogni caso, ha osservato il ministro, “ci sono continuamente contatti informali, stiamo in una fase di consultazione assolutamente informale. Poi ci saranno gli incontri istituzionali con tutte le parti sociali”. Quanto alle misure della manovra correttiva, Sacconi ha ribadito come “non c’e’ nessun intervento strutturale sulle pensioni” allo studio “come ha gia’ spiegato Tremonti” e che è probabile “il rafforzamento” degli incentivi per il salario legato alla produttività. E sulla manovra e’ intervenuto pure il direttore generale di Confcommercio, Luigi Taranto, anche lui ospite dell’iniziativa di Uil e Fondazione Craxi. “Siamo in attesa di conoscere i contenuti della manovra” e i suoi “dettagli operativi”, ha dichiarato, “tutto quello che serve per mettere in ordine la finanza pubblica va fatto, ma servono scelte coerenti per stabilizzare i conti e rilanciare l’economia”. Secondo il dg di Confcommercio “e’ importante che” nella manovra “si operi verso misure di riduzione della spesa pubblica e contrasto e recupero dell’evasione fiscale”. Allo scopo, ha concluso Taranto, “di ridurre la pressione (fiscale) su cittadini e imprese”.

 
 
 

Divorzio politico e relative richieste

Post n°191 pubblicato il 03 Maggio 2010 da vitotroiano
Foto di vitotroiano

Bobo Craxi, pur rappresentando l’ala antiberlusconiana della famiglia, ha fatto un balzo sulla sedia quando ha letto che Gianfranco Fini ha definito una “epurazione” l’abbandono della vice presidenza del gruppo del Pdl da parte del proprio fedelissimo Italo Bocchino e considererebbe una insopportabile aggressione la sostituzione dei fedelissimi Urso e Ronchi nel governo. Ai tempi della Prima Repubblica, ha ricordato Bobo, il gioco era che le correnti perdenti uscivano per un giro dal gioco dell’oca della lottizzazione: fuori dalle cariche di partito e di governo. Perché, si è chiesto allibito, adesso chi fa una corrente pretende di non vedere applicate le regole del gioco? Semplice! Perché il gioco è cambiato. Allora le correnti erano legate dalla solidarietà di partito. E chi stava fermo un giro sapeva che sarebbe rientrato. Adesso ogni militante o dirigente ha un rapporto diretto e personale con il leader. E la rottura si trasforma in divorzio. Con tanto di richiesta di casa e di alimenti. Gianfranco come Veronica!

 
 
 
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INTERCETTAZIONI SPETTACOLO

La non politica che in Italia ormai manca da quindici anni, in questi giorni, si infiamma sulle presunte intercettazioni che riguarderebbero il Presidente del Consiglio. Silvio Berlusconi, che non è il male di questo Paese, dal '94 ad oggi è stato indagato 800 volte: nemmeno il capo dei capi (Riina) è stato così tanto perseguitato. In un Paese, dove la democrazia è occupata dal potere della magistratura e della stampa la forbice tra benessere e malessere continua ad allargarsi sempre di più. Con questo provvedimento proposto dal Governo si spera di chiudere, per sempre, una lunga stagione iniziata con la falsa rivoluzione del'92 sotto il nome "Tangentopoli". L'Italia stà diventando sempre più un Paese irriconoscibile e, questo, gli Italiani non lo meritano

 
 
 

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