Creato da corsaramora il 24/05/2005
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Post N° 290

Post n°290 pubblicato il 05 Agosto 2005 da corsaramora
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In Iraq gli occupanti americani muoiono come mosche (anche gli iracheni muoiono come mosche ma quelli sono un tipo di mosche che contano molto meno pur essendo molte di più). Sette marines uccisi martedì, quattordici ieri... Chi tiene dietro alla contabilità dei morti - i «nostri» perché degli altri non importa e, fra terroristi, resistenti e civili, non si sa quante decine di migliaia siano - annota che fanno 1820 dal marzo 2003, l'inizio della «liberazione» dell'Iraq, 45 nelle ultime due settimane. Morti per una causa «nobile», ha detto Bush. Come i giornalisti, che con l'ultimo di ieri, Steve Vincent, fanno «almeno» 45 (soprattutto iracheni ma non solo). Nel maggio del 2003 lo stesso Bush, truccato da pilota, aveva annunciato al mondo che la guerra era vinta e «la missione compiuta». 1820 marines fa , 45 giornalisti fa (e decine di migliaia di mosche irachene fa). La guerra era stata breve, anche perché Saddam - tutti lo sapevano benissimo - era cotto e non aveva le famose armi di distruzione di massa che, stando a Tony Blair, avrebbe potuto azionare in 45 minuti. Se le avesse avute ci avrebbero pensato bene prima di esportare la democrazia, come dimostra la Corea del Nord che non ha il petrolio ma ha (forse) la bomba.

La guerra, fu poi detto, forse non era proprio legale però il mondo sta meglio senza un satrapo come Saddam. Quindi andava fatta e, almeno a posteriori, era giusta.

Ora il mondo sta meglio. Madrid marzo 2004, Londra e Sharm el-Sheikh luglio 2005... A chi toccherà adesso?

Il terrore, nel senso di terrorismo e di paura, si è impadronito delle nostre vite. Il ministro Pisanu ci di dice che possiamo andare in vacanza ma di stare attenti e tenere gli occhi aperti. L'Italia, è opinione diffusa, sarà il prossimo obiettivo. Non si sa bene cosa fare (a meno di non dar mano libera alla Lega che ci pensi lei) perché Londra ha dimostrato l'avvento di una nuova fattispecie, il terrorista home grown, nato e cresciuto in casa, non più importato dai campi palestinesi o dalle montagne afghane, anche se forse passato dalle madrasa pakistane o dalle università egiziane (ma Musharraf e Mubarak non si toccano perché sono dei nostri).

Il parlamento ha da poco rifinanziato la missione italiana in Iraq. A Nassiriya siamo in missione di pace e tutto l'Iraq è in marcia verso la pace e la democrazia. L'opposizione di centro-sinistra per votare no ha dovuto sputar sangue, come tutte le altre volte, e alla fine neanche tutti hanno votato no. Quando Prodi ha detto che in Iraq siamo una forza d'occupazione, apriti cielo. L'ovvietà ha fatto scandalo. Traditore e codardo. Che a dirlo chiaro e tondo sia stato Prodi significa che siamo ridotti male (questo vuole essere un complimento a Prodi). Infatti siamo ridotti male. Con una (ex) sinistra che sembra sempre appesa al no-però-sì, sì-però-no. Per fortuna che c'è il democristiano Prodi a zapaterare un po' e dire secco che se vinciamo le elezioni ce ne andremo subito dall'Iraq.

Ma quel momento, se e quando verrà, è lontano. La guerra e il terrorismo invece sono adesso. Non aspetteranno. Nella relazione presentata ieri dal Sismi si parla «dei pericoli legati alla futura ridislocazione dei militanti accorsi in Iraq». In gergo si chiamano «i reduci». E' un altro dei risultati della guerra di liberazione del duo Bush & Blair. Gli americani sono impatanati in Iraq e non possono uscirne. Come era accaduto in Vietnam. Hanno fatto dell'Iraq un campo scuola del terrorismo islamico e non c'è da scandalizzarsi se migliaia di islamici ci vadano per seminare la morte, degli altri e la propria. Era stato così anche in Afghanistan, quando i mujaheddin erano accorsi per combattere i sovietici «atei e comunisti». Anche quella era un causa «nobile», che gli americani sostennero in tutti i modi. Dall'Afghanistan i reduci si sparpagliarono per il mondo. In Algeria, in Bosnia, in Egitto, in Arabia saudita. In America e in Europa. Fra loro ce n'era uno che avrebbe fatto carriera. Si chiamava Osama bin Laden.

dal manifesto,4 agosto 2005
 
 

 
 
 
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