una corsara mora

Post N° 665


Nel discorso al Parlamento che lo ha eletto alla presidenza della Repubblica, Giorgio Napolitano ha tra l’altro messo un forte accento sul Mezzogiorno, «le cui regioni diventano un asse obbligato del rilancio complessivo dello sviluppo nazionale anche per la loro valenza strategica». Riemerge in queste parole la tradizionale direttiva - né poteva essere diversamente data la storia e la cultura del nuovo capo dello Stato - che la questione meridionale fa tutt’uno con quella nazionale, e che lo sviluppo economico e sociale del Paese non può prescindere da essa. Quest’idea ha presieduto all’azione dei governi della prima Repubblica. Come sempre ci sono state luci e ombre, ma mai come in quei cinquant’anni si è fatto tanto per il Mezzogiorno, irrobustendo con ciò l’intero assetto nazionale. Certo non così nell’età liberale, tantomeno col fascismo, il cui programma di bonifiche si fermò all’agro pontino, dovendosi finanziare la guerra d’Etiopia e quant’altro poi seguì. Ora le cose vanno viste in una prospettiva diversa, ma in un certo senso il problema resta identico. Non si può più ricorrere alla mano pubblica per lo sviluppo industriale. Gli effetti negativi in molte aree meridionali - e Napoli è una di quelle - si tocca con mano. Ma ciò è compensato, in altre zone, da un endogeno sviluppo produttivo. La questione meridionale da vent’anni a questa parte non si presenta più come un tutto unitario. Forti diversificazioni regionali, ma anche locali, ormai la caratterizzano. Non c’è più solo uno sviluppo indotto, ma anche uno reale e potenziale che si manifesta. Per farlo crescere e sviluppare occorre modificare il contesto che resta per molti aspetti paralizzante. Ad esempio, infrastrutture ed istruzione, superiore e tecnica, sono due volani necessari. L’intero Paese in quest’ultima fase marca un penoso ritardo, ma il Mezzogiorno ha sofferto della penalizzazione maggiore. L’ultimo governo ha avviato molto lavoro e concluso qualcosa. Poco per il Mezzogiorno: l’autostrada Palermo-Messina è stata in fine completata. Così come è stato avviato l’adeguamento della Salerno-Reggio Calabria, sebbene ora l’Anas non abbia i soldi per andare avanti. Con il nuovo governo il ponte sullo Stretto non si farà. Ma invero molte altre cose debbono essere realizzate, incominciando da strade, porti, ferrovie (abbiamo, su molti tratti della rete meridionale, le velocità del 1939). Non parliamo dell’istruzione. A riguardo basta dare un’occhiata ai finanziamenti extrastatali che ricevono le università lombarde. È ricorrente il detto che il Mezzogiorno può e deve essere il ponte tra i paesi del Mediterraneo e l’Europa. Già, ma con quali infrastrutture? Ci sono inoltre migliaia di studenti universitari, dai Balcani, dal Medio Oriente, dall’Africa del Nord, che vengono a studiare in Europa. Pochi in Italia, pressoché nessuno nel Mezzogiorno. C’è un grande lavoro da fare, e deve essere proprio opera di governo. L’era della globalizzazione non ha cancellato affatto la questione meridionale, ne ha semplicemente modificato i protocolli e li ha resi più urgenti. Ora noi conosciamo le dichiarazioni di principio di tutti i partiti che fanno propri questi obbiettivi di sviluppo e modernizzazione necessaria. E nel momento in cui si forma un nuovo esecutivo non possiamo non guardare innanzitutto alla sua composizione. Nella passata legislatura la presenza di ministri meridionali è stata assai misurata. Anche se non è un indice decisivo per giudicare la politica meridionalistica di un governo, non si può non guardare ad esso, tanto più ora che se ne forma uno nuovo, perché resta indicativo. Attendiamo in tal senso un segnale dal presidente incaricato Romano Prodi. Una delle enfasi ricorrenti cade sui cento primi giorni, quasi a sottolineare che il buongiorno di vede dal mattino. Donde la domanda: c’è un programma per il Mezzogiorno che già segna la prima fase dell’esecutivo e anticipa veramente una nuova e attesa politica meridionalistica?