una corsara mora

Post N° 180


La camorra potrebbe essere definita l’estorsione organizzata: essa è una società segreta popolare, cui fine e' il male". È così che Marco Monnier, da acuto storico e scrupoloso osservatore, nel 1863 all’indomani del processo unitario definì la "triste genia conosciuta dal volgo sotto il nome di camorra". Gli farà eco Pasquale Villari definendola "piaga sociale" nelle Lettere Meridionali del 1875, che segnano l’inizio della riflessione critica sulle condizioni del Mezzogiorno all’interno dello Stato italiano e la data di nascita del meridionalismo liberale. Sintonizzarsi su queste profonde e autorevoli intuizioni è interessante per avere le prime coordinate di una ipertrofia criminale che, nel corso dei secoli, ha incancrenito una città e una regione considerata felix in età classica e divenuta infelix ai giorni nostri. L’uso privato della violenza come mezzo di controllo sociale è il tratto peculiare dei camorristi che da un lato non rispettano la legge e l’apparato governativo, dall’altro agiscono in connivenza con l’autorità ufficiale e rafforzano il proprio controllo attraverso rapporti occulti con i funzionari di governo. È noto che nell’interregno del 1861 Liborio Romano, il prefetto di polizia del tentativo costituzionale borbonico, per garantire l’ordine pubblico nella capitale inserì nella neonata Guardia cittadina un buon numero di camorristi, i quali fecero della "onorata divisa" l’arma di una vera e propria escalation al contrabbando e di una inedita audacia nel commettere reati. Una misura giudiziaria che don Liborio difese come provvida, consigliata dall’esperienza borbonica in materia di ordine pubblico, e dalla memoria del 1799 sanfedista.(continua)