una corsara mora

Post N° 206


Io, ex bimba simbolo del Live Aidmorivo, domani sarò sul palco"di  FERRUCCIO SANSALONDRA - Vent'anni fa c'era anche lei, la sua foto fu proiettata sul palco dello stadio di Wembley. Fu l'immagine simbolo del Live Aid: una bambina etiope di tre anni, avvolta in una coperta, distrutta dalla fame e dalla sete; la bocca semiaperta, gli occhi abbandonati in attesa della morte. Oggi, però, il significato di quella terribile immagine sembra essersi capovolto: non più morte, ma speranza. Perché Birhan è una ragazza di 23 anni. Ed è felice. "Guardatemi", dice, lei stessa incredula parlando con gli amici dell'ong. "Sto bene. Sembro bella", racconta Birhan, gli occhi luminosi, il sorriso aperto. Ma non è tanto la bellezza che conta, non in Etiopia, dove Birhan vive ancora in una casa di pietre vicino a Mekele. Con lei il padre, la madre e sei fratelli. Domani Birhan Weldu sarà di nuovo sul palco del Live 8. Ma non in fotografia. Perché Birhan è viva. È sopravvissuta alla grande carestia che uccise milioni di persone nel 1985. Ieri è arrivata in Inghilterra. Ha raccontato la sua storia terribile agli amici della Organizzazione non governativa con cui collabora in Africa: "Mio padre mi stava seppellendo. Stavo morendo, le infermiere mi davano pochi minuti di vita. Poi, all'ultimo momento, sentirono un leggero battito. Ero ancora viva". Birhan non ricorda nulla di quel giorno: a parlare per lei, però, è la fotografia scattata dal reporter canadese Brian Stewart. Centinaia di milioni di persone incrociarono lo sguardo perso, ormai spento di Birhan. Provarono disperazione, pietà, rabbia per la sua sorte. "Sono sana. Sono una ragazza forte. E sono orgogliosa di essermi lasciata alle spalle un momento così duro. La mia storia dimostra che anche chi è arrivato sull'orlo della fossa può essere salvato. Si può fare molto". Ma il paradosso di una tragedia come la carestia del 1985 è che tutto si capovolge, la morte diventa normalità, e alla fine ti sembra quasi una colpa essere viva: "A volte mi sembra impossibile di essermi salvata. Perché proprio io in mezzo a migliaia, milioni di persone?". A raccontare quei giorni è il padre di Birhan, Menameno, che a 57 anni in Etiopia è già un vecchio, perché l'aspettativa di vita è molto più bassa che in Occidente. "Stavano morendo tutti, allora ho deciso di tentare l'unica via di salvezza, ho preso le mie due figlie e sono partito. A piedi. Ottocento chilometri sugli altopiani desertici insieme ad altre centinaia di migliaia di persone. C'erano cadaveri dappertutto. La mia figlia maggiore, Azmara, non ce l'ha fatta. Anche Birhan credevo fosse già morta, ma all'ultimo momento ho sentito un battito leggero. Il suo cuore". Adesso Birhan studia e collabora con le Ong che operano in Etiopia, perché molto resta ancora da fare: "Mancano scuole, strutture per consentire ai contadini di coltivare le loro terre anche quando non piove. E poi industrie e ospedali per non dipendere soltanto dagli aiuti". Già, il denaro donato da stati, associazioni, privati: in tutto 1,9 miliardi di dollari l'anno. Troppo pochi. Soltanto per gli interessi sul debito l'Etiopia paga 140 milioni di dollari l'anno, l'equivalente di quanto viene destinato alle spese mediche. Domani Birhan sarà al Live 8 di Hyde Park anche per questo: "La mia famiglia vive con 50 euro al mese. Io prego ogni giorno perché non succeda mai più, ma la tragedia del 1985 potrebbe ancora ripetersi. Bisogna fare qualcosa adesso. Bisogna ricordarsi dell'Africa". 1 luglio 2005