una corsara mora

Post N° 213


"L'ostinazione con la quale Bush ripete il suo mantra, "we are making progress in Iraq", stiamo facendo progressi, sbatte ogni giorno contro la dinamica obbiettiva della comunicazione di massa in una nazione libera, che sempre privilegia le "cattive notizie", sulle possibili "buone notizie". Anche l'effetto elezioni sul quale la Casa Bianca e i suoi alleati avevano contato per zittire definitivamente gli scettici, è da tempo svanito nella incapacità politica del governo provvisorio, nelle voci di corruzione dilagante, nelle dichiarazioni agghiaccianti della gente di Bagdad che chiede agli inviati del Washington Post davanti a crateri e ai cadaveri: "Per che cosa abbiamo rischiato la vita votando, per questo?". A Rumsfeld, la commissione senatoriale per le Forze Armate chiede le dimissioni, che lui rivela di avere già offerto due volte a Bush, naturalmente respinte. Il senso di disconnect, di scollamento dalla realtà che questa amministrazione manifesta e che ormai anche la vecchia "curva sud" dei tifosi neo con avverte, cresce con il ripetersi di proclami ottimistici, sgretolati il mattino dopo dalle notizie che bucano anche la assuefazione del pubblico alla guerra. Muoiono donne e uomini, gli attacchi della guerriglia si estendono e persino il fiore all'occhiello della dottrina bellicista neo conservatrice, l'Afghanistan che ci fu venduto come liberato e senza burqa, si rivela un campo di battaglia fuori controllo e con il burqa. I mesi di maggio e giugno sono stati i più sanguinosi per gli americani in Iraq, dopo il gennaio della grande offensiva terroristica. Sessantanove caduti in azione bellica in maggio, 51 in giugno, contro una media di 33 nei mesi di febbraio, marzo e aprile, verso un totale che ormai ha superato i 1.700 soldati uccisi e 14 mila feriti. Questa amministrazione di guerra deve trovare altre formule e altre soluzioni che non siano l'orgoglio autolesionistico della leggendaria testardaggine bushista. Per questo, nel carnaio dell'Iraq, i primi "feelers", i primi sensori e tentacoli politici cominciano sicuramente a muoversi verso la galassia della guerriglia, per cercare un bandolo al quale aggrapparsi, un filo da cucire per arrivare alla soluzione che tutti vedono e nessuno osa ancora esplicitare. Per arrivare cioè a un calendario di ritiro delle truppe che non precipiti quel popolo martire e incolpevole nell'orrore, cosa che può avvenire soltanto con una trattativa con il nemico, non con i diktat, con gli arresti e con le torture. E che permetta a coloro che tanto avevano irriso Kissinger e i "realisti" anni 70, di fare esattamente quello che Kissinger fece 32 anni or sono a Parigi. Fingere di avere vinto la guerra e salvare non il Vietnam o l'Iraq, ma l'America stessa, dagli errori dei propri leader. "