una corsara mora

Post N° 490


il creativo è chi muta l’ordine dei fattori e fa cambiare qualcosa. La città di napoli ha un futuro se è riuscita a sceglierne uno. Richard Florida, docente di teoria dello sviluppo all’Università di Pittsburgh e autore del libro «The rise of the creative class» («L’ascesa della classe creativa»), unisce le due premesse per comprendere le ragioni del successo o del fallimento di un’area urbana in base al suo tasso di creatività. Le unità di misura sono quelle indicate nella famosa legge delle tre «T»: talento, tecnologia e tolleranza, ovvero capacità di attrarre e integrare donne e uomini di altri Paesi. Riprendendo il metodo di Florida e il risultato delle sue indagini, lo Studio Ambrosetti ha realizzato per l’Acen la ricerca «Le città dei creativi: visioni e progetti per Napoli». Da un quadro iniziale in tinte scure, con la città soffocata dai problemi che tutti conosciamo bene (criminalità, disoccupazione, bassa qualità dei servizi) e ancora incapace di porsi come polo d’attrazione di intelligenze a livello internazionale, si procede con l’esame dei motivi dello stallo e a proporre un ventaglio di soluzioni. La strategia del rilancio passa attraverso la valorizzazione dei nostri punti di forza, che per fortuna non sono pochi. Tra questi il porto, le infrastrutture, il turismo d’arte. Il dato forte su Napoli riguarda proprio la percentuale dei creativi, intendendosi per tali non soltanto i pubblicitari, gli artisti, i musicisti e gli scrittori ma anche esponenti di altre categorie - imprenditori, designer, architetti, ingegneri, avvocati - che mettono le idee e l’innovazione al centro delle loro attività. A questa fascia appartiene il 23,38 per cento della forza lavoro. Considerato che la media nazionale si ferma al 14 per cento, e che meglio di noi riesce a fare soltanto Roma, ci sarebbe da stare allegri. Purtroppo è vero il contrario. Basta dare uno sguardo alla classifica dei capoluoghi di provincia stilata dal «Sole 24 Ore» per rendersi conto che il paradiso dei creativi non è da queste parti. Napoli si piazza al 49° posto per i servizi e l’ambiente, al 50° per il tempo libero, all’80° per qualità della vità, all’83° per gli affari e il lavoro, al 92° per la criminalità, al 96° per tenore di vita. Morale: le potenzialità sono alte ma rischiano di restare ingabbiate a vita. Un altro passaggio interessante della ricerca riguarda l’università. Il presupposto per definire il successo della città creativa sta non tanto nel numero complessivo degli studenti quanto per l’incidenza di stranieri in cerca di un «appartamento napoletano». Anche su questo fronte, abbiamo in mano tutte le carte per vincere la partita ma pare che non riusciamo a giocarne bene nemmeno una. Cinque atenei, un’accademia di Belle Arti, una consolidata presenza di poli di ricerca, distretti tecnologici e centri d’eccellenza vogliono dire molto. Nelle nostre aule e nei nostri laboratori, però, si continua a parlare italiano. Su un totale di 154.868 iscritti, soltanto lo 0,4 per cento viene dall’estero. Né ci conforta sbirciare in casa d’altri: se Palermo si ferma a quota 0,3. Bari e Catania ci superano (0,5 e 0,6 per cento); Milano, Torino e Genova vanno oltre la soglia dell’uno per cento; Roma e Firenze possono vantare, rispettivamente, il 2,1 e il 2,3 per cento; in cima alla classifica Bologna, con il suo 3,3 per cento di studenti stranieri. I nostri creativi non riescono a esprimersi, quelli degli altri Paesi non vengono a trovarci. Le ragioni del flop sono diverse ma quella che gioca più delle altre è l’allarmante tasso di disoccupazione intellettuale giovanile (56,7 per cento). Napoli ha perso le grandi industrie; il numero delle imprese aumenta ma, nello stesso tempo, diminuisce quello dei posti di lavoro; il Pil pro capite ci vede precipitare al 93° posto in classifica tra le province italiane. Pure, la nostra città ha un ventaglio di fattori potenzialmente positivi che non vanno sprecati. Ed è su questi che bisogna investire.PAOLA PEREZ il mattino