Creato da corsaramora il 24/05/2005
tutto cio' che ci accade intorno ..mie riflessioni e non...
 

Messaggi di Ottobre 2005

Post N° 504

Post n°504 pubblicato il 31 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

C'è chi ha un grande patrimonio immobiliare e gli fanno pure lo sconto sulle tasse, e c'è chi non ha una casa e deve fare una manifestazione per non finire sotto un ponte. Si apre un nuovo buco nei conti pubblici, il governo è costretto a varare una finanziaria-ter da 6 miliardi di euro, si vendono immobili e si tagliano i fondi per Anas e ferrovie ma una cosa non si tocca: l'esenzione dell'Ici per la chiesa. «Per tutte le chiese previste nell'otto per mille», specifica Palazzo Chigi. Mentre i comuni colpiti dai tagli fiscali chiedono il blocco degli sfratti, sindacati di inquilini ed associazioni scendono in piazza.

81 anni e malata, cacciata di casa
LUCA DOMENICHINI
ROMA
Lo sfratto di Domenica Fiorini, una vedova di 81 anni, comincia il 18 ottobre scorso, quando il governo non rinnova la proroga sugli sfratti. La signora Fiorini abita in un appartamento in viale Glorioso, a Trastevere. La proprietà, da una decina d'anni, appartiene alla sua vicina di casa: una signora di 40 anni, che vive con il marito al piano di sotto dell'anziana vedova. L'inquilina paga regolarmente gli affitti. «Tira» una pensione di 530 euro al mese, eredità del marito morto nel `93, ma sono i due figli a pagare il canone per la madre. Nonostante ciò, come detto, lo sfratto, dopo la fine della proroga, diventa esecutivo. «Non gli rinnoviamo l'affitto», spiega la quarantenne proprietaria, e questo perché a Trastevere, nel centro storico di Roma, un appartamento come quello della vedova vale migliaia di euro al mese. La proprietaria, in realtà, non ha problemi finanziari. Abita al piano di sotto della vecchietta, di cui chiede lo sfratto con insistenza, in un appartamento di 70 metri quadrati. «Da un po' di giorni - osserva Salvatore, del Comitato per la casa nel centro storico - avevamo saputo che la proprietaria dell'appartamento andava al commissariato di Trastevere per chiedere alla polizia di cacciare la sua inquilina»: come la legge, d'altronde, dopo il 18 ottobre permetterebbe.

Ieri mattina alle 11 i poliziotti - tre in tutto - sono arrivati davanti all'antica palazzina di viale Glorioso, accompagnati dall'ufficiale giudiziario, un medico e la proprietaria. Il marito della padrona, invece, non c'era: la versione ufficiale è che si è sentito male, ed è stato trasportato all'ospedale. Ad aspettare gli agenti, l'ufficiale del tribunale, il medico e la signora che ha deciso lo sfratto, c'erano però quattro soci di Action e del Comitato, più alcuni ex inquilini sfrattati e i familiari della Fiorini. Quindici «resistenti» in tutto. I parenti della vedova si sono stretti intorno all'anziana, nella camera da letto. I quattro rappresentanti del movimento, invece, sono rimasti per la strada, davanti al portone, per discutere con la proprietà, i poliziotti e la «squadra» dello sfratto. Erano arrivati alle 8,30 - Action e il Comitato, con la ex candidata «senza volto» Simona Panzino - tre ore prima che arrivassero i poliziotti. Racconta Salvatore: «Avevamo telefonato la mattina presto al commissariato, e dal tono della chiamata abbiamo capito che qualcosa stava per succedere».

L'anziana proprietaria è rimasta a letto. Ha un melanoma ed «esco solo per andare in chiesa, a san Francesco, e all'ospedale san Giacomo per curarmi». I familiari, più alcuni ex inquilini sfrattati o aiutati in tempo dai movimenti, si sono incatenati dentro l'abitazione della vedova mentre nella piazzetta davanti al portone il Comitato non riusciva a concludere nulla con la proprietaria. «L'ordine di sfratto è stato rinviato di pochi giorni - osserva l'avvocato Pierluigi Alessandrini - il 10 novembre lo sfratto avverrà lo stesso». L'anziana signora, intanto, non esce di casa. Vive nell'appartamento dal 1967, e dopo la morte del marito autista ha cercato di comprarsi l'abitazione. Ma non c'è riuscita. «La sua offerta - spiega Alessandrini - è stata inferiore a quella dell'attuale proprietaria, ma non è stato fatto valere il diritto di prelazione dell'inquilina».



 
 
 

Post N° 503

Post n°503 pubblicato il 31 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 Ha finalmente potuto dimostrare, con una forza e un’evidenza che non è possibile misconoscere o ignorare, di essere una città viva e vitale, generosa e solidale. Lo ha dimostrato innanzitutto a se stessa e poi ai suoi molteplici detrattori «stranieri» ed anche locali. La notte bianca è stata ricchissima di spettacoli, da quelli di grande richiamo a quelli raffinati e poveri di Strit festival. Ma il vero, grande spettacolo è stato proprio la gente: il suo fluire ordinato ed allegro, le famiglie, gli anziani, i bambini, le mamme in attesa, gli invalidi in carrozzella. Tutti quelli che potevano, sono usciti di casa per la gioia di stare insieme, per la gioia di essere e sentirsi comunità. Una gioia che non ha dimenticato i più deboli: anche al dormitorio pubblico, come era doveroso per la Napoli solidale, si è fatta festa. Si è fatta festa in centro ed in periferia e la sfilata dei carri di San Giovanni a Teduccio è stata indubbiamente una delle manifestazioni più riuscite e partecipate. Con la notte bianca Napoli non ha certo risolto i suoi problemi gravi e urgenti. Il lavoro da fare è ancora moltissimo e già ieri (domenica mattina) quando da poco si erano spente le ovazioni di piazza Plebiscito, si è ricominciato a lavorare in un quartiere difficile come Forcella. Un lavoro quotidiano e incisivo, coraggioso e paziente che, alla fine, non potrà non portare frutti. E come a Forcella, in tanti altri quartieri della città.

E allora due considerazioni. Innanzitutto un pensiero di ammirazione e di gratitudine per tutti i napoletani, per il loro comportamento civilissimo e cordiale. Un grazie ai tanti turisti che da fuori sono venuti a condividere con noi una splendida serata. Un grazie agli artisti, famosi e meno famosi, ed ai tanti, tantissimi che hanno duramente lavorato perchè la notte bianca riuscisse così bene. E poi un augurio: Napoli che in una notte di festa ha saputo essere così unita e impegnata speriamo continui ad esserlo anche nel quotidiano. Uno scorrere della vita più solidale e sincero, più spontaneo e - perché no? - gentile e misurato aiuterebbe tanto non a dimenticare i problemi, ma ad affrontarli e risolverli con la forza rinnovata che deriva sempre dall’essere e sentirsi, pur nel pluralismo delle idee e delle posizioni, comunità e comunità solidale.

Rosa Russo Iervolino (* Sindaco di Napoli)


 
 
 

Post N° 502

Post n°502 pubblicato il 30 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Che notte che festa!


la città è scesa in strada e la notte si è illuminata. Ma non tanto per l’elettricità impiegata per rischiarare a giorno bar e ristoranti, per amplificare la musica. No, a far risplendere la notte non è stata la potenza dei watt ma quella dei cuori, è stato il fiume umano che ha attraversato Napoli. Due milioni di persone, un successo incredibile. 

Una corrente straordinaria di energia impetuosa, gioiosa, benefica, che ha messo a dura prova l’apparato organizzativo. Un popolo festante di cui la città aveva veramente bisogno. Un’invasione pacifica che ha rappresentato la risposta immediata ed entusiasta all’idea di farsi amica la notte. E anche la natura ha dato alla festa il suo contributo equo e solidale, regalando alla folla un clima primaverile. Fare qui la Notte bianca ha un valore simbolico che va molto al di là dei numeri, pur imponenti, della partecipazione. Soprattutto in un momento come questo, segnato spesso da giudizi frettolosi e sommari sul destino di Napoli. Ricorrere all’arte, alla musica, alla cultura per sollecitare i cittadini ad abbandonare la fortezza domestica è un segnale importantissimo lanciato alla città degli onesti. Perché se è vero che la solitudine e l’isolamento sono le vere madri dell’insicurezza e della paura che paralizzano gli abitanti delle metropoli, ritrovarsi in tanti è l’unico vero antidoto contro quel coprifuoco dell’anima che ci rinchiude in noi stessi determinando la disgregazione progressiva del legame sociale. È di questa disgregazione che si alimenta la città delle tenebre, sicura di spadroneggiare e di averla sempre vinta perché ha di fronte individui spaventati, ciascuno solo con i propri timori. La socializzazione dell’arte e della cultura, la condivisione dei luoghi, la dilatazione del tempo che allunga la notte e la rende giovane, la sensazione di essere in tanti ad avere voglia di stare insieme in amicizia hanno un valore sociale incalcolabile. Perché sono un esempio di occupazione civile dello spazio urbano che è l’unico modo per contendere palmo a palmo il territorio alla città dei violenti e a tutti coloro che dall’allarme sociale, dalla rassegnazione al peggio, traggono profitti materiali e immateriali. Il fatto che tutto questo concorso di donne e uomini in festa abbia come scena la notte ne accresce l’effetto simbolico e l’impatto emotivo. Perché significa cambiare segno all’oscurità, ancestrale tana della paura. Non a caso l’antica dea della notte era figlia del caos, e madre della discordia, del sonno e della morte, e i nostri antenati al calare della sera si barricavano in casa in attesa del nuovo giorno. Trasformare la paura in festa, la solitudine in condivisione, ha il significato di un rito di passaggio, afferma la volontà di voltare pagina. Come se la Notte bianca fosse per Napoli un suo capodanno speciale. Il fatto poi che per questo esperimento sociale siano giunti rinforzi da tutta Italia è cosa che fa allargare il cuore. È segno inequivocabile che la città non è sola. È vero che i simboli non bastano da soli a cambiare le cose, ma è anche vero che essi hanno lo straordinario potere di sintetizzare una realtà complessa in un’immagine semplice. Niente è chiaro come l’opposizione fra il giorno e la notte. E questa volta Napoli - con i due milioni di persone in piazza - la notte l’ha illuminata a giorno. 

il mattino

 
 
 

Post N° 501

Post n°501 pubblicato il 29 Ottobre 2005 da corsaramora

WASHINGTON - Si sentivano sicuri, invulnerabili, onnipotenti, i cavalieri della guerra preventiva e i loro scudieri. Quando cominciarono nel 2003 le indagini sulla "fuga" del nome di un funzionario della Cia coperto dal segreto, risero, dissero che era un "nadagate", un "nothingburger", una polpetta di aria fritta. Loro erano i neocon, i liberatori del mondo, i cavalieri della giustizia, i "Vulcans" come erano stati soprannominati ricordando i guerrieri invincibili di Star Trek, e avrebbero distrutto chiunque avesse osato mettersi sulla loro strada.

Oggi, il loro uomo di punta dentro la Casa Bianca, il protetto di Dick Cheney e il discepolo prediletto di Paul Wolfowitz, Lewis Scooter Libby contempla cinque incriminazioni e 30 anni di possibile galera e si è dimesso. Molti altri, compreso il vice presidente Cheney, dormono notti inquiete pensando a che cosa potrebbe raccontare e patteggiare per risparmiarsi il carcere. Il "nadagate", lo scandalo fatto di nulla come di nulla erano fatti il Watergate, l'Irangate, il Sexgate, era, come i suoi predecessori, un polpetta avvelenata dal solito tossico, dall'arroganza del potere.

 
 
 

Post N° 500

Post n°500 pubblicato il 29 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

BUGIARDO

In un'intervista a La7 che verrà trasmessa lunedì il premier dichiara
di essere sempre stato contrario all'offensiva contro Saddam
Berlusconi: "Cercai di convincere Bush
a non fare la guerra in Iraq"
E su Tony Blair dice: "Non è il leader dell'Ulivo mondiale"


 
Silvio Berlusconi


ROMA - Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha affermato oggi in un'intervista a La7 di non aver mai voluto la guerra in Iraq, anzi di aver cercato inutilmente di convincere a non intraprenderla il presidente Usa George W. Bush. "Io non sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per arrivare a rendere democratico un paese e a farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa", ha detto Berlusconi.

L'intervista, realizzata da Rula Jebreal, verrà trasmessa nel corso di omnibus lunedì 31 ottobre a partire dalle 7.45. "Io - ha detto ancora il premier, a pochi giorni dall'inchiesta di Repubblica sulle responsabilità del governo italiano nella costruzione di prove false sulle armi irachene - ho tentato a più riprese di convincere il presidente americano a non fare la guerra (...). Ho tentato di trovare altre vie e altre soluzioni, anche attraverso un'attività congiunta con il leader africano Gheddafi. Non ci siamo riusciti e c'è stata l'operazione militare (...). Io ritenevo che si sarebbe dovuta evitare un'azione militare".

Berlusconi si è anche espresso sulla politica internazionale e sui suoi rapporti con gli altri premier. "Tony Blair - ha sottolineato - non è il leader dell'Ulivo mondiale. Non c'è nulla nella politica di Tony Blair e in quella di Silvio Berlusconi che sia in contrasto".

"Dissento - ha detto ancora Berlusconi - anche nella classificazione di Vladimir Putin come un 'comunista' nel senso ortodosso del termine. E' difficile passare da una dittatura durata settanta anni ad una piena democrazia, perchè esistono delle situazioni che non possono essere cancellate con un colpo di bacchetta magica".

L'intervista, registrata alla vigilia dell'incontro del premier con il presidente George W. Bush a Washington, verrà replicata lunedì 31 ottobre alle 17 all'interno di uno speciale La7. Il colloquio con il premier verrà commentato in studio da Ferruccio De Bortoli (Il Sole 24 Ore), Giovanni Sartori (politologo) e Renato Farina (Libero).

(29 ottobre 2005)
 
 
 

Post N° 499

Post n°499 pubblicato il 29 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

L'omicidio del vice presidente della Regione Calabria è un fatto grave, ma le reazioni, i commenti e gli atteggiamenti che ne seguono dovrebbero preoccupare molto di più. Il sintomo è sì doloroso, ma la malattia è diventata seria da far paura. Potrei sintetizzarla con un neologismo: ipocrazia, col significato primario di ipocrisia al potere e con quello secondario di basso livello della capacità di governare. Ma il colore politico non è rilevante: governo e opposizione sono l'uno sintomo della malattia dell'altro. Infatti questo malanno c'è sempre stato, solo che ora provoca guai che non sono più accettabili da una umanità progredita nella teoria molto più di quanto non riesca a mettere in pratica, vivendo così ben al di sotto delle sue possibilità. Guerre, ammazzatine, dittature e schiavitù potevano essere perfino elogiate, ma ora le consapevolezze diffuse non ci consentono di non vedere le stupidità che incombono. E si dovrebbe poter finalmente credere in ciò che si sa. Ormai tutti sanno che il re è nudo, ma l'ipocrisia è al potere perché ha il potere di proteggere le connivenze: se queste sono diffuse e numerose si crede anche agli asini, volanti e non. Sintesi di scenario "culturale". La società reale si è resa conto che la società formale non è affidabile. Le notizie fanno piangere, altre fanno ridere, mentre le barzellette sono pervase di serietà e di saggezza. Se la faccenda è seria, ridiamoci su. I comici sono sempre più seguiti con entusiasmo ed ammirazione. Le stupidità del grande mondo (povera America) coprono quelle nazionali, che appaiono come svagate leggerezze. Gli ospedali chiudono le entrate e le galere aprono le uscite. La giustizia fa paura solo agli onesti e agli sprovveduti. Come ex funzionario, dopo trenta anni in una banca ora anche lei ex, ho capito che la verità è un materiale grezzo, a cui bisogna dare forma; che bisogna conoscere la verità per poterla meglio gestire (mistificare); che pulizia e trasparenza per banche e assicurazioni (ma non solo) sono elementi mortali; che non è vero che i bancari sono troppi: sono le banche che danno troppo poco, ma non sono ancora capaci di guadagnare perché preferiscono continuare a lucrare. Se le opportunità senza opportunismi sono come valute senza corso legale; se vediamo facce da marpione dovunque; se la disaffezione alla speranza ci fa perdere il coraggio di pensare, come si può utilizzare quella residua e caparbia volontà di fare cose banalmente buone? L'omicidio in Calabria è avvenuto in occasione delle primarie. Oltre a ricordarmi che in democrazia non c'è lotta, perché c'è il voto, tale coincidenza mi suggerisce l'idea che basterebbe permettere a milioni e milioni di uomini di far valere le loro scelte su fatti concreti e chiari, per mettere in difficoltà i fetenti del mondo. Possibile che tutto il buon senso che gronda da internet, radio, tv e giornali non possa essere modernamente selezionato e strutturato per fare in modo che le opinioni diventino azioni? Ho imparato che i politici temono la democrazia se non riescono a gestirla, ma credo che la convenienza di utilizzare bene il bene sia ora tanto banale che da più parti si metta mano all'attuale spreco di idee e di gente. Giacomo Della Guardia - NAPOLI Anche io, come fanno i nostri politici, voglio inviare un severo monito alla mafia, alla camorra, alla 'ndrangheta e, perché no, anche alla sacra corona unita: attenti mafiosi, se verrà il tempo in cui per combattervi veramente serviranno le parole, i proclami e i dibattiti invece dei fatti, le vostre organizzazioni saranno rapidamente distrutte e voi finirete sul lastrico. Paventate, paventate. Angelo Rossi - MILANO Il dottor Della Guardia con un ragionamento severo e articolato, il signor Rossi con un lampo di ironia, dicono la stessa cosa, in materia di criminalità organizzata: troppe parole, poche azioni. Ciascuno sa che le mafie sono l’ostacolo allo sviluppo del Sud: se non si riesce a infliggere loro colpi decisivi; se di tanto in tanto riaffiorano le tesi di appoggi segreti in alto; se neppure a cadaveri eccellenti - Falcone, Borsellino, altri uomini esemplari prima di loro: magistrati, politici, giornalisti, gente normale - si è resa effettiva giustizia, vuol dire che il Sud interessa poco. È storia amara di questi ultimi anni, ma non solo. Speriamo che abbia ragione il dottor Della Guardia: è tanto evidente l’urgenza di affrontare il problema che forse si capirà che è l’ora di gestire bene il bene - non manca, in questo paese - mettendo da parte, su certe questioni vitali, la caccia ai voti.

dal mattino d napoli

 
 
 

Post N° 498

Post n°498 pubblicato il 26 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

 L’approvazione della nuova Costituzione irachena da parte di un’ampia maggioranza rappresenta una tappa importante del cammino dell’Iraq verso la democrazia. Ma non rappresenta ancora la sua piena affermazione, perché non può essere considerata democratica una società che resta profondamente divisa, e non per motivi politici - come può avvenire anche nei paesi dove la libertà è solidamente radicata - ma etnici e religiosi. Com’è noto, gli sciiti e i curdi hanno votato a favore e i sunniti, in massima parte, contro (ma è già un fatto positivo che siano andati a votare

Nella nuova Costituzione, inoltre, sono contenuti alcuni princìpi, come quello che fa della «sharia» una delle fonti del diritto, anche se non la fonte esclusiva, che possono destare legittime preoccupazioni, soprattutto a proposito della futura posizione delle donne. Le quali avranno però la possibilità di lottare, nella futura assemblea, per affermare i loro diritti. La Costituzione irachena del 1990 non assegnava nessun diritto particolare agli sciiti, mentre ne concedeva alcuni ai curdi (la terza grande etnia del paese). Si fondava, infatti, sull’affermazione del nazionalismo, sia curdo sia arabo (una definizione, questa, in cui erano compresi sunniti e sciiti). L’articolo 4 riconosceva che l’Islam era la religione di Stato, ma il 19 affermava l’eguaglianza di tutti i cittadini, prescindendo dalla loro appartenenza a una particolare religione: «I cittadini sono uguali di fronte alla legge, senza discriminazioni dovute al sesso, al sangue, al linguaggio, all’origine sociale e alla religione». Veniva così sancito il principio dell’attribuzione alle donne degli stessi diritti degli uomini ed era impedita ogni applicazione della «sharia» che li limitasse. Da questo punto di vista, perciò, si dovrebbe dire che essa era più avanzata di quella approvata nel 2005. In realtà, i diritti sanciti dalla Costituzione di Saddam Hussein rimasero sulla carta. Le etnie curda e sciita furono perseguitate. La minoranza cristiana ottenne delle garanzie che ad alcuni dei suoi esponenti sembrano oggi minacciate, ma lo Stato iracheno rimase comunque una dittatura. Che cosa sarà l’Iraq in futuro dipenderà dai rapporti di forza che si stabiliranno al suo interno. Essi saranno determinati con il metodo delle elezioni, ma queste riusciranno a pacificare il paese soltanto se la minoranza sunnita, forte soprattutto a Baghdad, accetterà il confronto democratico, rinunciando ad appoggiare la guerriglia e isolando il terrorismo. Non sarà facile. I problemi irrisolti, anche se non si vuole tener conto degli uomini di Al Zarqawi, sono numerosi e gravi. Nell’accordo tra uno dei maggiori partiti sunniti e il governo che ha preceduto il referendum sulla Costituzione è stato previsto che la futura assemblea avrà il potere di apportarvi qualche modifica. Ma esse non potranno certamente ridare ai sunniti il predominio che avevano sotto Saddam Hussein. L’incognita è proprio nella loro accettazione della nuova e per essi più sfavorevole situazione. Questa riflette indubbiamente i reali rapporti di forze esistenti nel paese. Ma il metodo della conta dei voti adottato per misurarli, che a noi sembra il più accettabile, potrebbe non apparire tale in un paese dove le motivazioni etniche sono ancora nettamente prevalenti. L’esistenza di partiti sciiti che si oppongono alle tendenze religiose radicali e il fatto che la più importante guida religiosa degli sciiti, Al Sistani, abbia promosso finora una politica di moderazione, fa ben sperare. Ma il governo dovrà trovare interlocutori validi tra i sunniti, anche a costo di fare loro qualche concessione. Dobbiamo augurarcelo tutti. L’alternativa sarebbe infatti la disgregazione dello Stato iracheno, che determinerebbe nell’intero Medio Oriente una situazione potenzialmente esplosiva

 
 
 

Post N° 496

Post n°496 pubblicato il 26 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Le ultime bombe di Baghdad e le parole di Ciampi dovrebbero richiamare tutti alla realtà. Non c'è soluzione militare per l'inferno iracheno. Non c'è pasticcio elettorale che possa cancellare l'emarginazione politica di un'intera parte della popolazione tra il Tigri e l'Eufrate. Non c'è giustizia per Nicola Calipari che non metta in discussione i rapporti tra Usa e Italia, con un dietrofront immediato delle nostre truppe dall'Iraq e l'assunzione di una prospettiva di politica internazionale che dichiari la guerra un infrangibile tabù. E non c'è altra strada che la mediazione, la trattativa per risolvere i conflitti tra gli stati, proprio come pensava Nicola Calipari mentre riportava a casa Giuliana Sgrena. Almeno finché i popoli risapranno parlarsi, lasciando a governi, eserciti e bombaroli il vuoto del loro niente.

il manifesto

 
 
 

Post N° 495

Post n°495 pubblicato il 25 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Così è (se vi pare) è tratta dalla novella La Signora Frola e il Signor Ponza, suo genero contenuta nella raccolta Una giornata. Il titolo, dal sapore ironico, racchiude la problematica esistenziale che Pirandello affronta nella storia: l’impossibilità di avere una visione unica e certa della realtà.

Il tema sarà attentamente sviscerato nel romanzo del 1926, Uno, nessuno e centomila, ma appare già chiaro in questa commedia nelle parole proferite da Lamberto Laudisi: «Io sono realmente come mi vede lei. — Ma ciò non toglie, cara signora mia, che io non sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua — … Vi vedo affannati a cercar di sapere chi sono gli altri e le cose come sono, quasi che gli altri e le cose per se stessi fossero così o così». Queste battute poste a inizio commedia, quasi un’introduzione fatta dall’autore stesso per chiarire quale sia il punto cruciale di tutta la vicenda, mettono subito il lettore o lo spettatore di fronte a una prospettiva diversa che li allontana dal banale pettegolezzo.

Tutto un paese si affanna per sapere quale sia la verità intorno allo strano comportamento della famiglia Ponza. La curiosità nasce dal fatto che la sedicente madre della Signora Ponza, la Signora Frola, non vive con la figlia e il marito, anzi non entra neanche in casa loro, comunica con la figlia solo attraverso dei bigliettini scambiati per mezzo di un cestino calato dalla finestra. Alla Signora Frola la gente pone insistenti domande, e la poveretta si vede costretta ad asserire che il Signor Ponza, avendo perso nel terremoto tutti i suoi parenti, ha un amore ossessivo per la moglie che gli impedisce di farla uscire di casa e di far incontrare madre e figlia. Dal canto suo il Signor Ponza sostiene, invece, che la Signora Frola sia impazzita, poiché crede che la figlia morta, la prima signora Ponza, sia ancora in vita, scambiandola con la sua seconda moglie: per non deludere la suocera e per non importunare la nuova Signora Ponza, non permette che le due donne s’incontrino. Poiché non c’è maniera di confutare nessuna delle due affermazioni, la gente, smaniosa di dover a tutti costi attribuire una maschera e un ruolo ben definito ai componenti di questa famiglia, non può fare altro che interrogare la Signora Ponza, convinta che solo così finalmente si possa venire a capo del ginepraio.

Ma la donna, che entra in scena velata, a simboleggiare l’impenetrabilità della verità, afferma di essere la seconda moglie del Signor Ponza, per il marito, e la figlia della Signora Frola, per la madre, ma per se stessa nessuna: «Io sono colei che mi si crede».

Per Pirandello quindi l’uomo non ha una propria essenza a priori, l’uomo diventa una persona solo sotto lo sguardo degli altri, assumendo tanti ruoli e tante maschere, quante sono le persone che lo vedono.

 
 
 

Post N° 494

Post n°494 pubblicato il 25 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

e mentre la guerra continua,il processo  contro saddam è stato aggiornato al 28 novembre sia per privarlo  di un palcoscenico dal quale contestare l'occupazione del suo paese sia perché gran parte dei testimoni ha preferito non presentarsi al tribunale

In realtà la sentenza è stata già scritta e il processo sarà un mero spettacolo» ha dichiarato  Khalil al Dulaimi l'unico avvocato difensore di Saddam Hussein, ammesso in aula che ha poi aggiunto «Non potrà mai essere un processo giusto od onesto, perché la Corte si è posta allo stesso tempo come giudice, giuria e pubblica accusa».

 Bush si augura  che  l'ex-presidente iracheno venga ritenuto colpevole di genocidio, di crimini contro l'umanità e di crimini di guerra e per questo condannato alla pena capitale e giustiziato. Il solo elemento di incertezza è costituito dall'alternativa fra l'impiccagione e la fucilazione. Saddam finirà sulla forca se verrà considerato un criminale civile. Sarà fucilato se verrà processato come capo supremo delle forze armate del suo paese

Naturalmente saranno in molti, non solo in Occidente, ad applaudire a questo processo e alla sua conclusione. Sarà fatta giustizia, si dirà, grazie a un nuovo «Tribunale di Norimberga» che rivelerà al mondo i crimini nefandi di un dittatore sanguinario. La sua sconfitta politica sarà consacrata dall'annientamento morale del condannato e dal sacrificio rituale della sua vita.

Questa liturgia è indispensabile perché la vittoria sul nemico sconfitto sia completa e sulle sue ceneri si instauri un nuovo ordine politico: quello democratico, generosamente esportato dagli Stati Uniti con una guerra inventata quanto criminale.

Non si può certo negare che l'ex dittatore iracheno e i suoi principali collaboratori meritassero di essere processati dal popolo iracheno. E per farlo era probabilmente necessario un tribunale speciale. Ma questo tribunale, voluto dagli Stati Uniti, va molto oltre l'anormalità giuridica di qualsiasi corte speciale. Il tribunale eserciterà la sua giurisdizione retroattivamente e lo farà sulla base di figure di reato che non erano previste dalla legislazione irachena e che sono state introdotte proprio per consentire l'incriminazione e la condanna a morte dell'ex-dittatore

E' naturale che il popolo iracheno percepisca questo processo non come un'espressione della propria sovranità, ma come uno strumento del potere degli Stati Uniti. E si tratta di un potere che non si presenta certo con le carte in regola per erigersi a paladino della causa dei diritti umani. Basterebbe considerare le infamie di Guantánamo, di Abu Ghraib e di Bagram in Afghanistan. E soprattutto ricordare che gli Stati Uniti sono stati lungamente alleati e complici di Saddam Hussein nella guerra contro l'Iran e che ne hanno addirittura sottaciuto i gravissimi crimini, in particolare il massacro dei kurdi con l'uso del gas ad Halabja, nel 1988.

il manifesto

 
 
 

Post N° 493

Post n°493 pubblicato il 25 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Era il 9 settembre del 2004. I giornali americani si accorsero, con enfasi e angoscia, che in Iraq erano morti mille soldati americani. I volti dei caduti, la commozione, e per la prima volta, anche, le proteste: perché per tanti mesi quei volti erano stati nascosti?

Così quella cifra simbolica divenne un argomento della campagna elettorale fra John Kerry e George Bush. Fra commozione, indignazione e retorica patriottarda. Il sito del New York Times, ad esempio, pubblicò uno speciale in memoriam: decine di quadratini grigi allineati uno accanto all’altro, come lapidi di un cimitero virtuale. Forse illudendosi che quello shock visivo potesse indebolire l’ideologia neo-con.

A poco più di un anno di distanza, e a meno di un anno dalla rielezione di Bush alla Casa Bianca, i morti sono diventati duemila. Segno che la guerra in Iraq non è finita, segno che la mortalità dei soldati americani è aumentata: quasi tre al giorno, in media. Uno stillicidio senza fine.

Ma come reagirà ora l’America? Lontano dai clamori della campagna elettorale, Bush sarà costretto a spiegare, difendere la sua politica, indicare una via d’uscita. Compito non facile. Per la prima volta dal 2003, rivela un sondaggio pubblicato da The Wall Street Journal, la maggioranza degli americani (il 53 per cento degli intervistati) giudica che la guerra contro Saddam sia stata un errore, mentre il 44 per cento ritiene che la situazione stia peggiorando di giorno in giorno, e addirittura il 61 per cento non nutre alcuna fiducia nelle possibilità di successo della politica irachena di Bush.

l'unita'

 
 
 

Post N° 492

Post n°492 pubblicato il 24 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Ma ci fa o ci sta? In parole più esplicite: cerca di prendere tutti per scemi ovvero non sa di che cosa sta parlando? Ormai capita sempre più sovente di doversi porre quest'interrogativo di fronte a certi annunci del premier. Come quello dei giorni scorsi con il quale è tornato a ribadire che "quello delle privatizzazioni è un discorso non interrotto e le più immediate riguardano Eni ed Enel perché sono già state quotate in Borsa e quindi andiamo sul sicuro".

Sul sicuro? In realtà le intenzioni del governo in materia non solo risultano quanto mai confuse e contraddittorie, ma si collocano pure in un quadro economico e giuridico fra i più malcerti e controversi. Che ci sia bisogno di fare cassa per frenare la duplice scalata in corso, tanto del deficit corrente quanto del debito, è un fatto. Ma, in rapporto alle partecipazioni pubbliche in Eni ed Enel, i due obiettivi non sono fra loro coerenti e compatibili. E il governo al riguardo si sta comportando come chi vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca.

Da un lato si dice, come l'appena citato che si vuol cedere sul mercato un'altra quota azionaria delle due imprese. Dunque, che il governo con il relativo incasso vuole privilegiare la riduzione del debito. Da un altro lato, però, si guarda alla pressione del deficit e allora si escogitano singolari espedienti (come la tassa sul tubo poi trasformata in una stretta sugli ammortamenti) per ricavare un po' di gettito immediato a valere sui conti di Eni ed Enel. Con il non trascurabile effetto di condizionarne le quotazioni di Borsa e di inviare un messaggio pesantemente negativo a quei grandi investitori esteri che sono stati importanti sottoscrittori delle prime quote azionarie alienate dallo Stato. Insomma, si fa una mossa che rischia di rendere non solo meno lucroso ma pure più difficile il collocamento di ulteriori titoli sul mercato.

E non basta. Sia in Eni sia in Enel, la mano pubblica è ormai al limite di quella soglia del 30 per cento sotto la quale il controllo di entrambe le aziende diventerebbe contendibile sul mercato. Ebbene, per aggirare questo ostacolo, ecco che il governo Berlusconi se n'è inventata un'altra delle sue: introducendo nella Finanziaria 2006 un articolo che conferisce all'azionista-Stato poteri speciali per neutralizzare eventuali scalate non gradite. Una pensata davvero brillantissima. In primo luogo, perché così si scoraggiano i nuovi possibili sottoscrittori e quindi si deprime anche il prezzo della vendita e l'incasso per lo Stato. In secondo luogo, perché norme di tal fatta sono ormai da tempo al centro di un contenzioso con l'Unione europea che non intende più avallare né 'golden share' né altre pillole avvelenate a difesa di una proprietà pubblica minoritaria in aziende quotate sul mercato.

Di tutto questo, però,il premier parla. Né pronuncia verbo sulla vera questione cruciale di un mercato energetico tuttora dominato dai due ex monopoli pubblici: quella liberalizzazione che avrebbe dovuto almeno seguire, se non precedere, la privatizzazione di Eni ed Enel. Cosicché si ritorna alla domanda iniziale: ma il Cavaliere ci fa o ci sta?

dall'espresso

 
 
 

Post N° 491

Post n°491 pubblicato il 24 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Due anni. Quanto basta per dire che una riforma del mercato del lavoro non c'è stata. Quanto basta per bocciare la legge 30 che ha prodotto sole false illusioni e precarietà. Così, nel giorno in cui questa legge compie due anni, oltre 2,5 milioni di precari tra co.co.pro, collaboratori occasionali, collaboratori con partita iva, assunti con contratto di somministrazione (ex interinali per capirci) e associati in partecipazione, “festeggiano” da atipici con una mobilitazione nazionale promossa da Nidil-Cgil, dall’Arci e dall’Ucca (unione circoli cinematografici Arci).

 

In 150 città italiane il 19 ottobre  è stata la giornata di protesta nazionale contro il lavoro senza diritti e tutele e nel corso della mobilitazione e' stato proiettato gratuitamente il film «Il Vangelo secondo Precario» il primo lungometraggio prodotto dal basso, ideato, girato e montato in maniera assolutamente indipendente da vincoli di contenuto. Un altro modo per dire no.



Dura faccenda quotidiana con cui si fa a pugni tutti i giorni, argomento d’elezione nelle conversazioni tra amici, preoccupazione costante negli incubi notturni di cui, però, il cinema nazionale sembra non accorgersi. «Il precariato è assente dalle produzioni cinematografiche italiane - sottolinea il regista 29enne Stefano Obino - relegato in documentari sui casi limite, sugli stereotipi da call center che alla fine creano distacco da situazioni in continua evoluzione. In questo film si parla invece di varie tipi di precari, compresi quelli con lauree e master destinati in teoria a lavori sicuri e ben pagati. La realtà è ben diversa, il precariato riguarda tutti, atomizza uomini e donne considerandoli contratti più che persone».

Ecco dunque le vicende di Marta, impegnata in un’improbabile indagine Ixtat, di Dora, stagista televisiva a cui regolarmente vengono rubate le idee, di Franco, aspirante scrittore e agente finanziario per vivere, di Mario, avvocato in attesa di diventare socio dello studio legale. Per parlare seriamente di flessibilità, guarda caso, ci doveva pensare un gruppo di giovani direttamente coinvolti dal problema che attraverso internet hanno raccolto decine di storie vere dai loro coetanei.

l'unita'

 
 
 

Post N° 490

Post n°490 pubblicato il 23 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora



il creativo è chi muta l’ordine dei fattori e fa cambiare qualcosa. La città di napoli ha un futuro se è riuscita a sceglierne uno. Richard Florida, docente di teoria dello sviluppo all’Università di Pittsburgh e autore del libro «The rise of the creative class» («L’ascesa della classe creativa»), unisce le due premesse per comprendere le ragioni del successo o del fallimento di un’area urbana in base al suo tasso di creatività. Le unità di misura sono quelle indicate nella famosa legge delle tre «T»: talento, tecnologia e tolleranza, ovvero capacità di attrarre e integrare donne e uomini di altri Paesi. Riprendendo il metodo di Florida e il risultato delle sue indagini, lo Studio Ambrosetti ha realizzato per l’Acen la ricerca «Le città dei creativi: visioni e progetti per Napoli». Da un quadro iniziale in tinte scure, con la città soffocata dai problemi che tutti conosciamo bene (criminalità, disoccupazione, bassa qualità dei servizi) e ancora incapace di porsi come polo d’attrazione di intelligenze a livello internazionale, si procede con l’esame dei motivi dello stallo e a proporre un ventaglio di soluzioni. La strategia del rilancio passa attraverso la valorizzazione dei nostri punti di forza, che per fortuna non sono pochi. Tra questi il porto, le infrastrutture, il turismo d’arte. Il dato forte su Napoli riguarda proprio la percentuale dei creativi, intendendosi per tali non soltanto i pubblicitari, gli artisti, i musicisti e gli scrittori ma anche esponenti di altre categorie - imprenditori, designer, architetti, ingegneri, avvocati - che mettono le idee e l’innovazione al centro delle loro attività. A questa fascia appartiene il 23,38 per cento della forza lavoro. Considerato che la media nazionale si ferma al 14 per cento, e che meglio di noi riesce a fare soltanto Roma, ci sarebbe da stare allegri. Purtroppo è vero il contrario. Basta dare uno sguardo alla classifica dei capoluoghi di provincia stilata dal «Sole 24 Ore» per rendersi conto che il paradiso dei creativi non è da queste parti. Napoli si piazza al 49° posto per i servizi e l’ambiente, al 50° per il tempo libero, all’80° per qualità della vità, all’83° per gli affari e il lavoro, al 92° per la criminalità, al 96° per tenore di vita. Morale: le potenzialità sono alte ma rischiano di restare ingabbiate a vita. Un altro passaggio interessante della ricerca riguarda l’università. Il presupposto per definire il successo della città creativa sta non tanto nel numero complessivo degli studenti quanto per l’incidenza di stranieri in cerca di un «appartamento napoletano». Anche su questo fronte, abbiamo in mano tutte le carte per vincere la partita ma pare che non riusciamo a giocarne bene nemmeno una. Cinque atenei, un’accademia di Belle Arti, una consolidata presenza di poli di ricerca, distretti tecnologici e centri d’eccellenza vogliono dire molto. Nelle nostre aule e nei nostri laboratori, però, si continua a parlare italiano. Su un totale di 154.868 iscritti, soltanto lo 0,4 per cento viene dall’estero. Né ci conforta sbirciare in casa d’altri: se Palermo si ferma a quota 0,3. Bari e Catania ci superano (0,5 e 0,6 per cento); Milano, Torino e Genova vanno oltre la soglia dell’uno per cento; Roma e Firenze possono vantare, rispettivamente, il 2,1 e il 2,3 per cento; in cima alla classifica Bologna, con il suo 3,3 per cento di studenti stranieri. I nostri creativi non riescono a esprimersi, quelli degli altri Paesi non vengono a trovarci. Le ragioni del flop sono diverse ma quella che gioca più delle altre è l’allarmante tasso di disoccupazione intellettuale giovanile (56,7 per cento). Napoli ha perso le grandi industrie; il numero delle imprese aumenta ma, nello stesso tempo, diminuisce quello dei posti di lavoro; il Pil pro capite ci vede precipitare al 93° posto in classifica tra le province italiane. Pure, la nostra città ha un ventaglio di fattori potenzialmente positivi che non vanno sprecati. Ed è su questi che bisogna investire.

PAOLA PEREZ il mattino

 
 
 

Post N° 489

Post n°489 pubblicato il 22 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Benigni il poeta
tra ghigni idioti


Un bravo regista, un bel film. Forse imperfetto. Ma stroncato da molti critici in modo troppo qualunquistico. La provocazione di Wlodek Goldkorn



 "La corazzata Potemkin? Una boiata pazzesca!!!". E' il ghigno dell'idiota che viene portato alla ghigliottina, mentre lui (l'idiota) pensa che è tutto un reality show: anzi uno Scherzi a partî, e che ride convinto che la lama si fermerà a qualche centimetro del suo collo. Certo, molto meglio Drive In, l'Isola dei famosi, La talpa. Del resto non era Gramsci a parlare de l'importanza della cultura popolare?

Il ghigno (e l'idiota) li abbiamo ritrovati mercoledì 5 ottobre su un foglio semiclandestino al servizio permanente della destra e che per ragioni ignote si chiama "il Riformista". Il titolo di prima pagina, parlando del film di Benigni porta il seguente: "La tigre, la neve e una boiata pazzesca senza carrozzina".

Sembra una battuta innocente, irriverente, una presa di distanza: non lo è. Non lo è, perché non comporta un giudizio estetico (come invece fa stroncando Benigni un giornale di una destra più seria, il Foglio), ma è un giudizio etico. Anzi, nel corpo dell'articolo si accusa Benigni di qualunquismo, ma poi si fa il titolo che è il simbolo della ex sinistra che dalla venerazione dei boia del Gulag è passata a quella del mondo televisivo inventato da Berlusconi.

Poi c'è il caso de "il manifesto". Stefano Silvestri, un critico cinematografico e un intellettuale di solito spregiudicato, non ideologico, curioso del mondo e dei linguaggi nuovi, parlando de ''La tigre e la neve'' si trasforma in una beghina del politicamente corretto anti-imperialista. Benigni, secondo Silvestri avrebbe dovuto dire che in Iraq non ci sono medicine (il film è sul tentativo di salvare l'amata in coma a Baghdad), perché c'è stato il criminale embargo contro un criminale regime.

Insomma: c'è un grande regista che ha fatto un bel film, che come tutte le cose belle è imperfetto. Ma che intanto gioca senza falso pudore, con un coraggio estremo e disperato sui sentimenti. Il film parla dei poeti: e suggerisce che la poesia è un'arma potente contro i potenti. Io guardandolo ho pensato a Nikolai Gumilev, fucilato dai bolscevichi, perché poeta. A Garcia Lorca, fucilato dai fascisti perché poeta. A Majakovskij che si suicida perché Stalin ha soffocato la poesia, e a Mandelstam che mentre viene deportato nel Gulag recita i versi di Dante, ghibellin fuggiasco.

Wlodek Golkdkorn

 
 
 

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