Cuori disadorni

la deriva dei continenti


Fluttuavo per farmi portare in alto da uno stormo di colombe nere e le seguivo  nella corrente che m'attraeva e mi trascinava e credete a me, seguirla era il solo modo per guidarla negli equilibri vacanti che s'alzavano, s'abbassavano, a folate di vento m'allontanavano e mi riavvicinavano al nuovo continente, proprio come le foglie quando dormono, sì, proprio come le foglie al vento, che nulla possono se non aspettare di cadere, un giorno. Quando la corrente si placò la sponda sconosciuta era ormai vicina, nascosta e rivelata da una nera montagna di tempesta che incombeva all'orizzonte. Fu allora che dallo stormo  si levò un singolo canto, uno soltanto, ed un canto solitario nelle favole tristi degli uomini  non può essere che un lamento, o un cancello chiuso tra mura insormontabili, o la scoperta d'una nuova terra là, sotto la Stella Cadente, se non fosse già una stella ormai caduta.Ai primi di agosto l'estate come al solito s'impennò. Il termometro attirava le solite attenzioni perplesse nelle memorie labili, un'estate come quella mai, un'estate che non piove mai, tutti sognavano la sottile pioggia grigia che i funghi velenosi adorano, quella sottile pioggia persistente che s'infila nei colletti più nascosti, che quieta sa far arrugginire i tetti di latta, una pioggia sciamanica a gentile richiesta che avrebbe inserito uno splendido intervallo nella routine serale del club mentre l'estate si consumava notte dopo notte. Tutte le sere sotto l'arco dell'ingresso c'era la ressa. Il lavoro di filtraggio era diventato molto problematico. Era in atto anche una minaccia al sapore di banana republic, un club della concorrenza era stato accuratamente dato alle fiamme ed un altro era stato pressochè demolito in una rissa forse a pagamento, ma al nostro club eravamo fiduciosi perchè il capitano dei carabinieri della stazione locale era nostro alleato. Si chiamava Bond. James Bond, insomma lo chiamavamo così perchè era un uomo molto affascinante, elegante, amante dello champagne delle migliori marche e fornito di MG rossa decappottabile sulla quale ogni notte imbarcava una nuova splendida conquista. Egon e Gabriella erano sbocciati come due fiori avviluppati per il gambo; a vederli insieme mi sembrava che il sole splendesse solo per loro ed io mi contentavo del loro riflesso, dei loro lazzi e frizzi, dello stare seduti insieme alla beduina sulla sabbia, delle corse brevi  dagli scogli ed il tuffo nell'onda frangente. Seguivo Gabriella e per un pò nuotavo apparigliato a lei. Poi tornavo sotto e la guardavo nuotare, ombra luminosa confusa tra le ombre delle ondine. Era come guardarla da un altro mondo. Le sue gambe si muovevano veloci sforbiciando nella schiuma. Emergevo a respirare sputacchiando acqua salata. Mi immergevo di nuovo e la sfioravo, la toccavo, la palpeggiavo come per caso. L'acqua salata mi ubriacava, annaspavo tra il suo corpo e la mia eccitazione. Mi avvicinavo e la cingevo da sotto. Lei, puntava i piedi al mio stomaco, scalciava e mi allontanava. Emergevo di nuovo, mezz'affogato. Lei nuotava a dorso, rideva come una bimba e se ne andava. Egon mi strappava dal corpo il costume da bagno debosciato! mi gridava, sempre a toccare le bambine, rendimi il costume, Egon, accidenti, no, per punizione dovrai uscire nudo, intanto i giorni passavano, passò la follia del Ferragosto, le giornate cominciarono ad accorciarsi, le serate diventavano fresche e piacevoli. La folla era scomparsa, sera dopo sera: il parcheggio aveva sempre qualche posto libero. La fine dell'estate ha sempre un che di malinconico, come il doposbornia di un ubriaco. La calda stagione delle follie lascia spossati, stanchi; i bagni notturni, le nottate sotto la luna ad aspettare l'alba, gli amori nati, gli amori finiti. E' esagerata l'estate e spreme gli uomini e le donne, li spinge per le chine più pericolose e tentatrici, li fa vivere a tutta velocità. Alla fine dell'estate, quasi tutti sono scontenti e un pò malinconici. Ritorna l'autunno coi suoi ritmi blandi; in fondo, tutti hanno voglia di calmarsi. Al club, l'ultima settimana di lavoro fu la settimana dei commiati. Alcuni  tornavano a studiare, il barman prenotò le ferie in Sardegna prima di tornare a Londra. L'orchesta ci deliziava, a noi e pochi intimi, di improvvisate jam sessions dal sapore blues o hard rock. Qualche volta mi ero levato anche lo sfizio di prendere qualche lezione di ballo da Gabriella. L'andavo a prendere al solito tavolo dove ormai era parcheggiata da un paio di mesi e chiedevo a Egon di cantare "Capri c'est fini". Non che la canzone m'avesse stregato, il fatto era che con quella nemmeno un orso avrebbe sbagliato un passo. Ballando, Gabriella mi si legava addosso come s'io fossi stato una bitta e lei la corda. Sotto gli occhi di Egon mi faceva sentire distintamente ogni suo millimetro, ogni suo gonfiore, ogni stilla del suo sudore, fino a che il calore del suo corpo mi faceva dimenticare qualsiasi altra presenza in quel ristretto mondo. Quando la canzone finiva, mentre respirando corto tentavo di ritrovare un po' di compostezza ed un po' di me perso chissà dove, Gabriella mi guardava negli occhi e mi sorrideva allegra, bello scherzo che t'ho fatto, mi diceva, ed io ricambiavo il suo sorriso per non aprire bocca ed apparire più stupido di quel che mi sentissi. Egon dal palco ci guardava malizioso, lei correva da lui e lo baciava e gli parlava nell'orecchio ed io scuotevo la testa e mi dicevo ch'ero proprio un pollo per quei due. Chiudevamo presto ormai, verso le tre eravamo già per strada. Come sempre, accompagnavo Egon e Gabriella al  loro nido. Quella notte, mentre guidavo, li sentivo che parlottavano tra loro fitto fitto,come se non volessero farsi sentire da me. Arrivati alla loro abitazione, Egon invece di scendere si fece serio, mi fissò con tutta calma, mi prese la mano e con la voce più confidenziale che aveva mi disse: «Vieni a prendere un caffè? Non sei mai salito su da noi..». Nel mio silenzio successivo percepii il respiro di Gabriella sul mio collo, poi sentii le sue dita risalirmi fino alla radice dei capelli  e vellicarmi come se fossi stato il suo gatto. Mi voltai verso di lei che era seduta dietro e la guardai. Era bellissima e mi guardava così fissamente, quasi implorante, che dovetti voltarmi verso la strada vuota, là davanti a me. Un vuoto che m'aiutasse a ragionare.«Dai, vieni. Sali su con noi», adesso era lei che me lo chiedeva. Non avevo proprio un bel niente da opporre, trattenevo solo il respiro, forse avevo un groppo in gola, forse era un grumo di scorie da ingoiare, di futuro cieco intimidito. Seppi di fare loro male quando il 'no' mi scivolò in bocca come una miccia, mi sfrigolò nella saliva, mi si staccò dai denti ed uscì dalle mie labbra, ed era fatta. Era un no già pentito, un no che avrebbe voluto essere un sì con tutto me stesso, un no sfuggito da una mente corridoio chiuso senza porte, un tunnel cieco nel quale l'incertezza s'aggirava senza sosta. Si guardarono tristi. Egidio mi prese la mano destra e mi baciò sulla guancia, Fiorella prese il mio mento, mi fece girare la testa e mi baciò sulla bocca leccandomi denti e lingua. Poi scesero dall'auto e si presero per mano mentre io fingevo di guardare la strada vuota. Si soffermarono. «Ciao, a domani», sentii dire a Gabriella. Partii piano, domani, mi dissi, niente sarà più lo stesso.avvilente il futurosi annuncia da solodov'è il tuo argento uomo nudodove il tuo oro?cantava una colomba neraUna goccia di sudore freddo scivolò dalla mia fronte come una lacrima dal cielo per la mia vita, ché a mani aperte ero tutto quel che ero, solo una fievole fiammella nella luce grigia. Senza certezze trassi fuori dalla mente quel poco che avevo, solo qualche paesaggio da mostrare, il frastagliato e grintoso mare sotto le nuvole che prendono respiro prima di partire per il nord, una montagna muta nel cielo ritagliato così turchese da far chiudere gli occhi, le trine di neve sui rami degli alberi, San Marco in un alone di nebbia color zucchero ed una piazza geometrica dai portici in rapida linea di fuga. Fuga. E grida. C'era sempre qualcuno che gridava. .