SCUOLA E SCUOLE

ELOGIO DELLA FOLLIA


 Scrivo solo quando ho da dire qualcosa.In questi giorni ho letto due articoli interessanti  che mi hanno colpito. Il primo riferiva di un progetto di recupero di un vecchio manicomio, abbandonato dopo che la legge Bisaglia permise l’apertura di tutti gli ospedali psichiatrici e allo stesso modo favorì  la chiusura delle scuole speciali per gli handicappati e il loro inserimento  nelle scuole di tutti.Sono passati 42 anni e, nonostante drammatiche involuzioni e tentativi di nostalgici ritorni al passato, quello spirito di integrazione fra “diversi come noi” non si è ancora spento.Nell’enorme complesso abbandonato sorgeranno hotel, case, un centro culturale, un centro benessere, uno sport center…Ma fortunatamente, con intelligente sensibilità saranno salvi i resti del muro-diario scritto da un ricoverato con la fibbia della divisa. Si tratta del graffito N.O.F.A. (le iniziali dell’autore) fatto di testi, disegni, incisioni, fantasie sulla vita, testamento di una segregazione, disperata impronta di una persona che aveva bisogno di comunicare con un altrove. Il manicomio, infatti, negava molte cose a cominciare dalla corrispondenza: chi entrava chiudeva la porta sull’esterno, perdeva  ogni contatto con il “fuori”. La salvezza di questi trenta metri di muro-diario sottraggono al vento e ai fantasmi  l’urlo prepotente di un’anima segregata. 
Naturalmente ho pensato ad Alda Merini:“ Vivo ancora nella casa da dove sono partita per il manicomio. Ancora non riesco a lasciarla. Ancora dopo anni di solitudine, ogni sera, metto una barricata contro la porta perché ho paura che vengano a prendermi e che mi portino via..” (da Diario di una diversa, Rizzoli, Milano, 1997).Il testimoneIo sono il tuo testimoneSono cieco come OmeroMa ho mille occhi come ArgoAnche se mi siedo su di un piedistalloE sono nudo di silenziosa virtùTi ascolto e so che tu fremiPerché sai che io ho vedutoE tu hai avuto la tentazioneDi togliermi l’unico occhio che avevoE lo hai quasi fattoPoi hai sentito il bisogno di colpirmi alle gambeE non ho più ballatoMi hai messo le scarpe ai piediQuando fuggivo nuda tra i pratiHai anche piantonato la mia povera menteMa rimango comunque il tuo testimoneHai afflitto i miei amori con mille sosteMi hai tagliato le foglieE persino il ventre fonte di ogni desiderio e piacereMi hai fatto deridere da uno storpioCantare da una musa stonataAffliggere da misere presenze di mercatoMa io rimango il tuo testimoneSono un testimone alto alatoChe vola oltre la tua possibilità di mescitaE di fatto tu mesci vino amaroMa sono sempre il tuo testimoneTu sei il male in personaMa chissà perchéSei anche il mio privato endecasillaboIo sono il tuo testimoneE tu sei il mio cuore.Dicembre 1991 Alcuni giorni più tardi, un  secondo articolo mi ha ricondotto per incredibile associazione al primo, parlava della casa dei maestri in bilico, il manicomio dei professori, il luogo di cura del male oscuro degli insegnanti.  E’ a La Verrière, un ex sanatorio a quaranta chilometri da Parigi, ora modernissimo ospedale psichiatrico, la casa in cui si cura la sindrome del “burn-out” dei docenti. Bruciati, inceneriti, spazzati via dal vento della depressione, da un senso di disadattamento, da una dolorosa incapacità a reggere l’urto con la classe e con il proprio lavoro. Perso il ruolo sociale, vittime del bullismo dei ragazzi e dell’ostilità delle famiglie, alcuni docenti non riescono più a trovare un senso in quello che fanno, nessuno li garantisce, ogni autorevolezza sembra perduta per sempre. Parlano e nessuno li ascolta, e a poco a poco la voce si affievolisce, hanno l’impressione di predicare sempre più flebili nel  deserto. Così la fiducia in se stessi si sbriciola: non danno in escandescenze, non esplodono con rabbia, solo si smorzano, inceneriscono silenziosamente, soli, con un gessetto in mano di fronte ad un mare sempre più burrascoso. Ed infine uno schianto, senza far rumore. A La Verrière. Chi sono? Son forse un poeta?No, certo.Non scrive che una parola, ben strana,la penna dell’anima mia:“follia”.Son dunque un pittore?Neanche.Non ha che un coloreLa tavolozza dell’anima mia:“malinconia”.Un musico, allora?Nemmeno.Non c’è che una notaNella tastiera dell’anima mia:“nostalgia”.Son dunque…che cosa?Io metto una lenteDavanti al mio cuorePer farlo vedere alla gente.Chi sono?  Il saltimbanco dell’anima mia. Da Poesie 1904-1914, Aldo Palazzeschi, in “poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo A. Mondadori, 1978  
        Giardino del manicomio, Vincent van Gogh