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Post n°21 pubblicato il 17 Febbraio 2010 da ibiscos0
Scrivo solo quando ho da dire qualcosa. In questi giorni ho letto due articoli interessanti che mi hanno colpito. Il primo riferiva di un progetto di recupero di un vecchio manicomio, abbandonato dopo che la legge Bisaglia permise l’apertura di tutti gli ospedali psichiatrici e allo stesso modo favorì la chiusura delle scuole speciali per gli handicappati e il loro inserimento nelle scuole di tutti. Sono passati 42 anni e, nonostante drammatiche involuzioni e tentativi di nostalgici ritorni al passato, quello spirito di integrazione fra “diversi come noi” non si è ancora spento. Nell’enorme complesso abbandonato sorgeranno hotel, case, un centro culturale, un centro benessere, uno sport center… Ma fortunatamente, con intelligente sensibilità saranno salvi i resti del muro-diario scritto da un ricoverato con la fibbia della divisa. Si tratta del graffito N.O.F.A. (le iniziali dell’autore) fatto di testi, disegni, incisioni, fantasie sulla vita, testamento di una segregazione, disperata impronta di una persona che aveva bisogno di comunicare con un altrove. Il manicomio, infatti, negava molte cose a cominciare dalla corrispondenza: chi entrava chiudeva la porta sull’esterno, perdeva ogni contatto con il “fuori”. La salvezza di questi trenta metri di muro-diario sottraggono al vento e ai fantasmi l’urlo prepotente di un’anima segregata.
Naturalmente ho pensato ad Alda Merini: “ Vivo ancora nella casa da dove sono partita per il manicomio. Ancora non riesco a lasciarla. Ancora dopo anni di solitudine, ogni sera, metto una barricata contro la porta perché ho paura che vengano a prendermi e che mi portino via..” (da Diario di una diversa, Rizzoli, Milano, 1997). Il testimone Io sono il tuo testimone Sono cieco come Omero Ma ho mille occhi come Argo Anche se mi siedo su di un piedistallo E sono nudo di silenziosa virtù Ti ascolto e so che tu fremi Perché sai che io ho veduto E tu hai avuto la tentazione Di togliermi l’unico occhio che avevo E lo hai quasi fatto Poi hai sentito il bisogno di colpirmi alle gambe E non ho più ballato Mi hai messo le scarpe ai piedi Quando fuggivo nuda tra i prati Hai anche piantonato la mia povera mente Ma rimango comunque il tuo testimone Hai afflitto i miei amori con mille soste Mi hai tagliato le foglie E persino il ventre fonte di ogni desiderio e piacere Mi hai fatto deridere da uno storpio Cantare da una musa stonata Affliggere da misere presenze di mercato Ma io rimango il tuo testimone Sono un testimone alto alato Che vola oltre la tua possibilità di mescita E di fatto tu mesci vino amaro Ma sono sempre il tuo testimone Tu sei il male in persona Ma chissà perché Sei anche il mio privato endecasillabo Io sono il tuo testimone E tu sei il mio cuore. Dicembre 1991
Alcuni giorni più tardi, un secondo articolo mi ha ricondotto per incredibile associazione al primo, parlava della casa dei maestri in bilico, il manicomio dei professori, il luogo di cura del male oscuro degli insegnanti. E’ a La Verrière, un ex sanatorio a quaranta chilometri da Parigi, ora modernissimo ospedale psichiatrico, la casa in cui si cura la sindrome del “burn-out” dei docenti. Bruciati, inceneriti, spazzati via dal vento della depressione, da un senso di disadattamento, da una dolorosa incapacità a reggere l’urto con la classe e con il proprio lavoro. Perso il ruolo sociale, vittime del bullismo dei ragazzi e dell’ostilità delle famiglie, alcuni docenti non riescono più a trovare un senso in quello che fanno, nessuno li garantisce, ogni autorevolezza sembra perduta per sempre. Parlano e nessuno li ascolta, e a poco a poco la voce si affievolisce, hanno l’impressione di predicare sempre più flebili nel deserto. Così la fiducia in se stessi si sbriciola: non danno in escandescenze, non esplodono con rabbia, solo si smorzano, inceneriscono silenziosamente, soli, con un gessetto in mano di fronte ad un mare sempre più burrascoso. Ed infine uno schianto, senza far rumore. A La Verrière.
Chi sono?
Son forse un poeta? No, certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell’anima mia: “follia”. Son dunque un pittore? Neanche. Non ha che un colore La tavolozza dell’anima mia: “malinconia”. Un musico, allora? Nemmeno. Non c’è che una nota Nella tastiera dell’anima mia: “nostalgia”. Son dunque…che cosa? Io metto una lente Davanti al mio cuore Per farlo vedere alla gente. Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Da Poesie 1904-1914, Aldo Palazzeschi, in “poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo A. Mondadori, 1978
Giardino del manicomio, Vincent van Gogh
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