Tempeste di sale

Neanche le Barbie sono più quelle di una volta...


Le nostre figlie crescono: ricordi di una diciottenne di oggi...L’ipermercato sta per chiudere e poche ombre si affrettano con passo stanco verso le casse semi vuote.  Devo solo comprare del balsamo e, invece, dò un’ultima sbirciatina al reparto dei giocattoli. Mi guardo intorno: nessun bambino che trascini scatole scolorite, le sollevi energicamente e le sventoli sotto il naso della madre supplicandola a occhi spalancati “ti prego…”; nessun commesso che si fermi a riordinare gli scaffali in confusione. Sola, talmente sola da sentirmi libera di farlo, come fossi un agente segreto in fase di spionaggio, osservo da vicino e prendo tra le mani quelle scatole di plastica trasparente, fissando  lo sguardo negli occhi giganteschi e nei  capelli lucidissimi delle Barbie  Le mie, sì, che erano più belle! La prima che vedo indossa un bikini color panna (sporco?) e ha un viso cosi sproporzionato rispetto alle spalle e al resto del corpo che, se fosse una donna in carne ed ossa, come si dice, spaventerebbe chi la incontrasse di notte. Ne prendo un’altra: ha una minigonna nera e le calze a rete dai buchi larghi quanto i suoi occhi spalancati. Beh, questa, se fosse una donna reale, ad incontrarla di notte non ci si stupirebbe neanche tanto!  Un’altra ancora, e poi basta, perché si è fatto davvero tardi. Oh sì, lei è bella davvero! Ha un vestito elegantissimo, che sembra di velluto, decorato fino all’esasperazione; ha i capelli color miele e la scatola è più grande e rigida. Si chiama “Barbie, capodanno 2006” e lo scaffale ne è pieno. Possibile che una cinquantina di bambine, nel Natale di un anno fa, abbiano indirizzato una letterina al Polo Nord senza desiderarla?  Ed è possibile, oggi, che queste ragazze raffinate, truccate e sorridenti, consumino la loro immortalità tra la polvere di un arido ripiano? Mi sento vecchia. Vestire la Barbie, farle lo shampoo rovinandole i capelli, darle la mia voce, insegnarle (ed imparare da lei) a baciare il suo Ken, rappresentava il momento più atteso della mia giornata. E un giorno diventerò talmente noiosa da ricordarlo a figli e nipoti. Figli e nipoti che si divincoleranno sempre  più decisi dal piacere della manualità del gioco e dell’aspetto materiale, palpabile dell’oggetto; che insabbieranno la loro fantasia, invece di improvvisarsi sceneggiatori, stilisti, “demiurghi” dei destini di donne la cui vita ricominciava ogni volta daccapo, passando di bambina in bambina. Di recente, ho letto un articolo sulla battaglia delle femministe del dopoguerra che bocciarono la bionda americana, considerandola un incentivo alla diffusione dell’idea della donna-oggetto ed un ostacolo all’emancipazione femminile. Guerra persa: un miliardo di esemplari venduti, per la bambola più popolare del mondo.  È vero - e me ne accorgo solo ora – che popolarità non è sinonimo di eternità. Per chi non l’ha conosciuta come “la seconda donna della nostra vita dopo nostra madre”, oggi, lei non è che una vecchia signora dai capelli bianchi e dalle rughe sotto gli occhi. Ciao, Barbara Millicent Roberts. La nostra società sta davvero cambiando…