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L'AMANTE PERFETTA - m.c.

Post n°101 pubblicato il 14 Settembre 2009 da whatsgoingon2005

L'AMANTE PERFETTA

La città quella mattina era grigia come il cielo che la sovrastava, che, denso di nubi trasportate mollemente dal vento del sud, aveva formato una sorta di telo in cui erano racchiuse le case, le auto, la gente, e quel grigiore era come se si fosse appiccicato anche sul volto dei passanti, nell’espressione dei  loro volti.

All’angolo della piazza si fermavano di continuo degli autobus, da cui scendevano file di impiegati che si dirigevano, poi, con passo svelto, ed in modo quasi automatico, verso il lavoro.

All'interno del bistrot, dall’altro lato della piazza, dal quale osservavo la scena, solo i rumori  dei  bicchieri continuamente spostati, gli aromi che si diffondevano nel locale,  e le parole frettolose dei camerieri scambiate con gli avventori, riuscivano ad  animare un po’ la scena, a renderla un po’ più calda, più viva.

Ordinai anch’io un caffè, lo sorseggiai, controvoglia, e poi una volta uscito sul marciapiede, accesi una sigaretta per ingannare l’attesa.

Erano passate da poco le otto e mezzo e mancavano ancora trenta minuti al momento dell’appuntamento; giusto il tempo di prendere un giornale all’edicola ed attendere la chiamata che stavo aspettando.

Eppure quell’attesa non aveva in se’ alcunché di eccitante, ed io ero pervaso da uno stato, come di sospensione, di estraneità.

Il fatto di trovarmi in quel luogo, a quell’ora,  e per il motivo per cui mi trovavo li’, mi avevano

già posto fuori dalla mia vita e dalle mie abitudini, e quegli sguardi attoniti della gente che mi passava accanto, quei loro passi frettolosi, ma decisi, che ne indicavano una direzione, una meta che avrebbe occupato loro tutta la giornata, fino al ritorno a casa, alla sera, finivano per apparire ai miei occhi, se non  invidiabili, almeno rassicuranti.

Dietro alla ripetitività dei loro gesti, alla monotonia delle loro giornate scandite dagli orari degli autobus e dei treni, dai cartellini da marcare all’entrata degli uffici, dai pensieri che gli si leggevano in viso  e che pareva non andassero oltre alle preoccupazioni per delle bollette, o un affitto, da pagare a fine mese, o per  qualche raffreddore di un familiare;  in quel grigiore di una vita, che si poteva immaginare, senza troppo margine di errore, sempre uguale a sè stessa, si nascondevano una pervicacia, una sicurezza, un’assenza di interrogativi,  che li rendevano invulnerabili alla vita stessa, come se si fossero vaccinati contro di essa.

 

Ed io ?

 

Mi potevo anch’io specchiare in loro, oppure c’era qualcosa di diverso in me che mi distingueva  da quelle facce?

I loro movimenti, in fondo, non erano stati finora anche i miei, e non avrebbero continuato ad esserlo ancora per chissà quanto tempo ?

Certo, io  avevo  dei pensieri che non erano un raffreddore o una rata che scade, ma agli occhi di chi, la mia faccia, poteva apparire diversa da quelle che mi erano sfilate davanti e che avevo così tristemente  giudicato ?

Se un giorno anch’io fossi sceso da uno di quegli autobus, non sarei certo apparso diverso da loro. Avrei solo cambiato autobus !

 

Ed allora, questo distacco, questa tendenza che si era impadronita di me  e mi induceva a vedere  gli altri come tutti uguali,  quasi come fossero privi di un anima, ero autorizzato ad averla; oppure me ne ero  soltanto arrogato il diritto ?

 

Non arrivò nessuna telefonata, e me la trovai davanti agli occhi mentre stavo ancora lì sul marciapiede.

Anche lei era scesa da uno di quegli autobus che fermavano sull’altro lato della piazza.

Ci guardammo, e per un attimo nessuno dei due parlò.

Fu un attimo prolungato, che esprimeva una tensione a stento sottaciuta, ma così evidente nei nostri sguardi, e nell’assenza di sorriso.

Ognuno dei due, guardando l’altro, poneva implicitamente una domanda, a cui però non aveva senso dare risposta, e quindi rimaneva una domanda muta.

Poi fu lei a rompere il silenzio.

“Ciao, come stai?”.

“Hai fatto buon un buon viaggio?”.

 “Si,!”, risposi io. “E tu ?”.

 “Sono venuta con la corriera, da Milano”.

 “Ti va di prendere un caffè?”.

“Se vuoi ci sediamo al bar qui dentro, oppure scegli te un altro locale, o se preferisci torniamo a quello solito”.

“No, il caffè adesso no. Ho soltanto voglia di stare con te. Da soli. Andiamo via da qui, ti prego”.

 

L’albergo si trovava nello stesso isolato e lo raggiungemmo a piedi in cinque minuti.

 

Ci tenevamo a braccetto, camminando l’uno vicino all’altra, ma quasi senza parlare, senza scambiarsi uno sguardo.

 

Entrammo in camera, lei si tolse le scarpe,  si sdraiò sul letto ed allungò  una mano per invitarmi a fare la stessa cosa.

 

Quando anch’io mi fui sdraiato, allora lei mi abbracciò, forte, mi baciò, mi accarezzò il viso, con dolcezza, sempre senza parlare.

 

Quel bacio e quell’abbraccio cosi’ violenti, avevano posto fine ad una insopportabile distanza ed avevano ristabilito la pace dell’animo in entrambi gli amanti.

 

Non era importante il luogo, o come l’altro fosse vestito.

C’era soltanto una febbre che aveva bisogno di esser spenta, e che la distanza non faceva che aumentare, ed ogni volta, ad ogni incontro, quella tensione, quel brivido, quel cercare nell’altro, si rinnovavano con lo stesso impeto e con la stessa forza.

 

Le parole, oramai, erano state dette tutte, non se ne dovevano aggiungere altre.

Erano soltanto i corpi che parlavano, cercandosi; e le menti, che si acquietavano, sazie, della presenza dell’altro, come se ne traessero una linfa vitale.

 

Non c’era neanche un esasperata carnalità in quel rapporto, ma solo un bisogno febbrile di vedersi, di guardarsi, di starsi vicini.

 

 
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Commenti al Post:
turrianna2009
turrianna2009 il 11/10/09 alle 23:55 via WEB
Mi permetto, l'amante è colei che lascia sempre, nella totale disponibilità all'altro, un qualcosa che sembra sospeso di proprio... il continuo desiderio che per molte ragioni non è mai totalmente soddisfatto pur essendolo, luoghi e ambienti non sono altro che un contorno inutile, lei arreda... Grazie Anna
(Rispondi)
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