Carlo Emanuele III (1730-1773

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Carlo Emanuele III (1730-1773)

 

Nel 1730, dopo l’abdicazione del padre Vittorio Amedeo II, succede al trono Carlo Emanuele III, principe di Piemonte.

Ormai, considerata la Sardegna quasi definitivamente acquisita alla sua corona, il problema del nuovo sovrano era l’assimilazione dell’Isola al sistema dei cosiddetti “Stati di terraferma”. Di qui l’ulteriore tentativo di accentrare e centralizzare il potere, svuotando viepiù l’Autonomia stamentaria. Sotto il suo dominio, il Parlamento continua a non essere convocato. Di qui l’imposizione della lingua italiana (1776) per la dessardizzazione e snazionalizzazione delle popolazioni, per poterle dominare meglio e di più, una volta che hai loro “tagliato” la lingua. Anche loro, i Piemontesi, nuovi “glottofagi”, non dimentichi dei primi glottofagi, che furono i Romani.

Uno dei problemi che lo assillava maggiormente era quello del banditismo. A tal fine si servì soprattutto di un militare (il Rivarolo), deciso e brutale, ma incapace, come vedremo, di individuare le cause di fondo del fenomeno – economiche, sociali, culturali – per limitarsi alla sola repressione.

Il 2 ottobre 1735 sbarca a Cagliari Carlo Amedeo marchese di Rivarolo, militare dalle maniere forti. Sembra che proprio per questa sua caratteristica il re Vittorio Amedeo II l’abbia scelto come viceré per eliminare il banditismo che in quei decenni imperversava in Sardegna come non mai.

Scrive lo storico Carlino Sole: ”Il Rivarolo era convinto che solo con la forza inesorabile delle armi e col terrore della forca si potesse aver ragione dei banditi. Per questo era solito far eseguire le sentenze capitali con apparato impressionante, innalzando il patibolo nei luoghi stessi dove erano stati commessi i delitti più gravi e costringendo le popolazioni ad assistervi. La testa mozza del giustiziato veniva mandata come truce ammonimento al villaggio d’origine per esservi esposta dentro una grata di ferro. In tre anni di dura e feroce repressione fece condannare alle galere più di tremila inquisiti, molti dei quali arrestati per semplici sospetti o per interessate delazioni e mandò al patibolo, spesso con un procedimento sommario o, «economico», come allora si diceva, cioè senza una preventiva istruttoria e di un regolare processo, ben 432 persone…Ordinò che nessuno si lasciasse crescere la barba, sotto pena di gravi sanzioni «ad arbitrio del giudice», credendo che una barba lunga e folta servisse non solo a mascherare le sembianze dei malviventi, ma che fosse indice di una prossima «vendetta»,: evidentemente qualcuno gli aveva fatto credere che in Sardegna vigesse l’usanza di lasciarsi crescere la barba come «voto»,:per tutto il tempo che passava prima che si potesse vendicare l’offesa e per avvalorare la sua convinzione affermava, con approssimativa etimologia, che gli abitanti della Barbagia, una delle zone più segnate dal banditismo. Si chiamavano barbaraccini, (sic!) appunto perché erano soliti portate la barba!”12

Nonostante la nomea di uomo colto, il Rivarolo non solo ha poca dimestichezza con l’etimologia ma anche con la storia sarda né vi fu chi potesse informarlo che Filippo II circa due secoli prima aveva consigliato ai Sardi di farsi crescere la barba.

Il banditismo non fu sconfitto: nonostante la repressione più dura e brutale. Gli è che veniva considerato come semplice fenomeno delinquenziale da estirpare con le forche: non come fenomeno economico-sociale e culturale, oltretutto politicamente spesso alimentato, foraggiato e protetto dai baroni e dalla Chiesa. Che però il viceré e la politica sabauda si guardano bene dal colpire!

La complessiva politica del re fu dunque improntata a un sostanziale immobilismo (a nulla mutare, nulla innovare nello stato di cose ereditato dalla Spagna) e le stesse novità introdotte con il conte Giambattista Bogino, ministro piemontese per le cose sarde – al di là degli altisonanti riconoscimenti ed elogi da parte dello storico conservatore e cortigiano Giuseppe Manno – si risolse in un “Riformismo che non rinnova”: la definizione è del giù citato storico sardo Carlino Sole. Che così scrive: ”La sua azione riformatrice fu episodica e frammentaria…mancò di una visione globale dei problemi rivolta com’era più a salvaguardare gli interessi dello «stato patrimoniale», che a promuovere il progressivo benessere delle popolazioni”2.

Benessere che sarebbe potuto essere costruito esclusivamente aggredendo i nodi di fondo dell’arretratezza e del malessere dei sardi: ad iniziare dall’anacronistico e famelico regime feudale con tutti i gravami, i privilegi e gli abusi che esso comportava.

L’intervento piemontese evidentemente non aveva lo scopo di liberare i sardi dal giogo feudale bensì di accentrare e rafforzare il potere nelle mani dei nuovi dominatori. Ricorrendo a qualunque mezzo. Tanto che – scrive Carta Raspi – “neppure il Bogino si discostò dall’indirizzo politico nei riguardi della Sardegna, che fu essenzialmente burocratico e superficiale, senza mai affrontare i gravi problemi dell’isola, ch’erano soprattutto nella sua povera e arretrata economia, lasciandoli anzi insoluti di proposito, per fini politici”3 .

Qualche storico ha avanzato l’idea che una Sardegna prospera e sviluppata potesse essere ambita e contesa da altre potenze per cui il Bogino stesso avrebbe consigliato al re di “non abbellire soverchiamente la sposa perché altri non se ne invaghisse”.

Secondo il già citato Carta Raspi la motivazione sarebbe stata invece un’altra, ovvero “la recondita politica dei sovrani sabaudi di considerare sempre la Sardegna un dominio da permutare in qualunque occasione e ciò, da Vittorio Amedeo II fino a Vittorio Emanuele III, fino agli anni in cui il Cavour si sarebbe volentieri disfatto della Sardegna se non ne fosse stato tempestivamente ostacolato”4.

Ci pare un’ipotesi credibile: la Sardegna pro sos canes de isterju dei Savoia e dei suoi commensali, sempre proni e usi a obbedir tacendo, è un semplice territorio da barattare al migliore offerente: perché dunque migliorare le sue condizioni?

Questa ipotesi, fra l’altro, serve per liquidare “la credenza – scrive Carlino Sole – avvalorata dalla storiografia filo-sabauda dell’Ottocento e del primo Novecento che il «buon governo» piemontese avesse fin da allora conciliato alla casa regnante il favore e la devozione del popolo sardo”5.

Tale credenza – scrive ancora Sole – è da relegare fra i miti. E prosegue: ”I sardi si sentivano legati alla corona nella stessa misura in cui Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III si sentivano disposti a sbarazzarsi dell’Isola come di un ingombrante fardello per barattarlo con compensi territoriali più vicini, più redditizi e perciò più graditi”6.

Mazzini7, con qualche ragione avanza l’ipotesi che ad opporsi alla proposta di Giuseppe Cossu, sardo ed economista di vaglia, di introdurre in Sardegna la coltivazione del gelso, avviando la manifattura della seta, – ma è solo un esempio – siano stati proprio gli stessi governanti subalpini, per ragioni di concorrenza economica con il Piemonte. Insomma: una motivazione di puro colonialismo!

Note bibliografiche

  1. Carlino Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, Editore Chiarella, Sassari, 1984, pagine 74-76.
  2. Ibidem, pagina104.
  3. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 778.
  4. Ibidem, pagine 779-780.
  5. Carlino Sole, opera citata, pagina 99.
  6. Ibidem, pagina 99
  7. Giuseppe Mazzini, La Sardegna, Casa editrice Il Nuraghe, Cagliari.

Vittorio Amedeo II re di Sardegna (1720-1730)

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Vittorio Amedeo II re di Sardegna (1720-1730)

Sa Divina Magestad se ha dignado conceder el dominio de este Reyno de Sardeña al Rey Don Victor Amedeo. Così il viceré annunziando il regalo fatto dalla Quadruplice Alleanza ai Savoia. In tal modo, per un baratto di guerra, la Sardegna passava dalla Spagna ai Savoia e nello specifico a Vittorio Amedeo II, il primo duca che divenne re, prima per pochi anni di Sicilia e poi di Sardegna, grazie al Trattato di Londra (1718) firmato nel 1720 a l’Aia.

Divenne re di Sardegna ma non ci metterà piede: né lui né nessuno dei suoi successori fino al 1799 quando, a mala gana, sono costretti a lasciare Torino e il Piemonte e venire esuli a Cagliari, “cacciati” da Napoleone.

Scrive a questo proposito lo storico sardo Raimondo Carta Raspi: ”Certo, a noi pare paradossale che alla cerimonia che inaugurava il nuovo dominio, mancassero proprio gli elementi essenziali del regno: il re e i sudditi. La Sardegna era stata sempre sì un vicereame, pure il primo Parlamento era stato convocato e presieduto da Pietro IV d’Aragona, il secondo da Alfonso il Magnanimo. Come spiegare dunque l’assenza di Vittorio Amedeo, che appena innalzato alla dignità regale, faceva prendere possesso del regno da un viceré, senza neppure degnare di mostrarsi, non foss’altro ai suoi sudditi, anche se a loro non doveva il trono? Forse fu alterigia e insieme disprezzo verso i Sardi e la loro isola”1.

Quella stessa alterigia e disprezzo che mostreranno nei confronti dei Sardi, tutti i sovrani sabaudi.

I Savoia dunque per gentile concessione delle potenze vincitrici nella Guerra di successione spagnola, diventavano, per la prima volta nella loro storia, re e la Sardegna entra nell’orbita italica dopo essere stata dominata per più di 300 anni dalla Spagna.

In realtà i Savoia avrebbero preferito la Sicilia, che in un primo momento, dopo i Trattati di Utrecht e di Rastadt, era stata loro assegnata.

Scrive a questo proposito Giuseppe Mazzini:”Vittorio Amedeo accettò a malincuore, e dopo ripetute proteste, nel 1720, da Governi stranieri, al solito, la Sardegna in cambio della Sicilia. E diresti che la ripugnanza con la quale egli accettò quella terra in dominio, si perpetuasse, aumentando, attraverso la dinastia”2.

Sulla stessa linea Giuseppi Dei Nur: ”Il principe savoiardo Amedeo II avrebbe preferito un trattamento migliore dai suoi alleati, ma questi sommessamente ma efficacemente, gli fecero probabilmente capire che sarebbe potuto rimanere con nulla in mano, mentre il nuovo possedimento gli avrebbe consentito di fregiarsi comunque del titolo di re, essendo quello un regno plurisecolare” 3.

Nasce anche dall’aver accettato quasi controvoglia il “regalo” delle potenze vincitrici, la politica di Vittorio Amedeo, tutta rivolta al Quieta non movere, al non innovare niente, rispetto al dominio spagnolo, conservando immutati i privilegi dei baroni e dunque il sistema feudale che prosperava sulla miseria delle popolazioni e segnatamente dei contadini dei villaggi.

Scrive Raimondo Carta Raspi: ”Piaga cancrenosa che affliggeva la Sardegna era il feudalesimo, ormai decaduto, che non prosperava sulla miseria delle popolazioni e tuttavia, pago di vivacchiare sui piccoli benefici e sui modesti proventi, paralizzava, infestante parassita, il naturale sviluppo e il progresso, soprattutto di quella che avrebbe dovuto essere la maggiore risorsa e ricchezza dell’isola, l’agricoltura. Anche il clero numeroso, ricco e privilegiato, gravava passivamente sull’economia del regno, accrescendo le ristrettezze delle popolazioni e intralciando l’opera del governo”4.

L’unica novità ebbe un segno negativo: Amedeo II tese a svuotare ulteriormente il potere e il ruolo degli Stamenti, ovvero del Parlamento sardo che mai convocherà, e a limitare la stessa autonomia del viceré, rafforzando da una parte il centralismo, dall’altra la repressione e il controllo poliziesco, persino della corrispondenza.

Scrive Girolamo Sotgiu a proposito della stretta dipen­denza politica e burocratica imposta ai viceré dal sovrano, attraverso precise direttive: ”Le istruzioni non tracciavano un indirizzo generale di governo al quale attenersi negli affari dell’isola, ma fissavano, con minuziosa pedanteria, compiti e incombenze, che facevano del viceré un burocrate esecutore di ordini al quale veniva rigorosam­ente delimitata, per non dire vietata, la possibilità di un’autonoma ­iniziativa. Il viceré non aveva cioè una funzione politica da assolvere, ma compiti burocratici da espletare. Tutto il potere era concentrato a Torino e il viceré era un semplice missus dominici, al quale non era consentito di andare oltre disposizioni assai rigide. Perché la funzione viceregia fosse ulteriormente appiattita, le prerogative venivano diminuite rispetto a quelle dei viceré spagnoli, anche se, per prudenza, di questo fatto non era data pubblica cognizione”5.

Sia ben chiaro: “anche sotto il dominio spagnolo le direttive erano elaborate e decise a Madrid, in particolare dal Consiglio della Corona d’Aragona ma con il passaggio dell’Isola al Piemonte ancor più si governerà ogni cosa direttamente da Torino “con una concezione del governo dell’Isola che oggi non potremmo che definire di tipo coloniale”6.

L’avvento dei Piemontesi infatti – è ancora Sotgiu a scriverlo – “ alla classe dirigente locale si sovrapponeva un apparato di direzione politica e amministrativa estraneo sotto tutti i punti di vista, e per di più, malgrado il desiderio di procedere in modi diplomatici, deciso assai più di quello spagnolo, a comandare e imporre inesorabilmente la sua volontà”7.

Discriminando i Sardi, ad iniziare dalla questione degli impieghi, cioè dei diritto rivendicato dai nazionali ad accedere a tute le cariche del regno (tranne quella del viceré). E la discriminazione era tanto più grave e insopportabile perché si accompagnava ad atteggiamenti di aperto disprezzo nei confronti dei Sardi, delle loro tradizioni, dei loro costumi e della loro lingua: che verrà proibita e criminalizzata.

A ricordarcelo è Giuseppe Manno, storico ultra filo savoia: ”Alcuni de’ Piemontesi disprezzavano pubblicamente le usanze tramandate ai Sardi…per fino a impedire i matrimoni fra l’una e l’altra nazione”8.

Contestualmente alla centralizzazione del potere, per realizzare un regime forte e assolutista, capace di porre fine e superare le resistenze delle stesse classi privilegiate – nobili e clero, filo austriaci ma soprattutto, nella stragrande maggioranza, filo spagnole – si ricorse da una parte alla corruzione dall’altra al controllo poliziesco: la corrispondenza doveva essere consegnata alla segreteria viceregia così da poter essere in stato di riconoscere – si scrive in un Dispaccio di corte – “quelli che scrivono o a chi si scrive”.

Ma la repressione più dura inizia ad essere condotta nei confronti della opposizione popolare, come risulta abbondantemente dai documenti e dagli storici di quel periodo. In modo particolare la repressione sarà condotta con il pretesto e l’alibi della lotta al banditismo, visto come semplice fenomeno delinquenziale, da estirpare con le forche. A ciò avrebbe provveduto fra qualche anno il famigerato marchese di Rivarolo. Ma un viceré di Vittorio Amedeo II, l’abate Alessandro Doria del Maro (1724-26) pone per così dire, le premesse ideologiche e giustificazioniste della repressione violenta scrivendo che “la causa [del].male è da ricercarsi nella natura stessa dei popoli [sardi] poveri, nemici della fatica, feroci e dediti al vizio” 9.

Anticipando così e preparando brillantemente Lombroso e tutto il ciarpame e la paccottiglia sui Sardi con il dna delinquenziale con i vari Orano (i Nuoresi sono delinquenti nati) e Niceforo, secondo cui tutti i Sardi non solo i Nuoresi appartengono a una razza inferiore. Per arrivare agli anni 1960/70 quando su una rivista patinata e popolare, certo Augusto Guerriero, più noto come Ricciardetto scriverà che i Barbaricini occorreva “trattarli” con gas asfissianti o per lo meno paralizzanti.

Per arrivare ai nostri giorni con il Procuratore di Cagliari, Roberto Saieva, che all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 ha sostenuto: “Altro fenomeno criminale che nel territorio del Distretto appare di rilevanti proporzioni è quello delle rapine ai danni di portavalori, organizzate normalmente con grande dispiegamento di uomini e mezzi. Diffusi sono comunque analoghi delitti ai danni di sportelli postali e di istituti bancari. E’ agevole la considerazione che nella esecuzione di questi delitti si sia principalmente trasfuso l’istinto predatorio (tipico della mentalità barbaricina) che stava alla base dei sequestri di persona a scopo di estorsione, crimine che sembrerebbe ormai scomparso”.

Forse il Procuratore pensava di essere un nuovo viceré alla Doria del Maro, cui sostanzialmente si ispira.

Anche se il Maestro, per tutti, mi pare essere stato Cicerone, cui sono legati da un lunghissimo filo nero. Il grande oratore latino, nell’orazione Pro Scauro, aveva bollato i Sardi come naturalmente mastrucati latrunculi, inaffidabili e disonesti, in quanto africani (oggi diremmo negri), anzi formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi: “Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse?”(E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente nemmeno all’origine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?).

Note bibliografiche

  1. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 773.
  2. Giuseppe Mazzini, La Sardegna, Casa editrice Il Nuraghe, Cagliari, pagina 9.
  3. Giuseppi Dei Nur, Buongiorno SardegnaDa dove veniamo, La Biblioteca dell’Identità-L’Unione Sarda, Cagliari 2013, pagina 141.
  4. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, op. cit. pagina 775.
  5. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Editori Laterza, Roma-Bari 1984, pagina 25.
  6. Ibidem pagina 74.
  7. Ibidem pagina 76.
  8. Giuseppe Manno, Storia della Sardegna moderna dell’anno 1775 al 1799, Fratelli Favale, Torino, 1842, vol. I, pagine 257-258.
  9. ASC, Segreteria di stato ora in Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, op. cit. pagina 21.