ANCORA RECORD NEGATIVI PER LA SCUOLA SARDA

ANCORA RECORD NEGATIVI PER LA SCUOLA SARDA
di Francesco Casula
Nel campo dell’istruzione la Sardegna continua a detenere record poco invidiabili: è ancora al primo posto – come del resto negli anni scorsi – in Italia per dispersione e mortalità scolastica. Gli studenti sardi sono più tonti di quelli italiani? O poco inclini allo studio e all’impegno? E i docenti sono più scarsi o più severi? Io non credo. Come non penso che svolgano più un ruolo determinante o comunque esclusivi, la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), anche se certamente influenzano negativamente i risultati scolastici. E allora? E allora i motivi veri sono altri: attengono alle demotivazioni, al senso di lontananza e di estraneità di questa scuola. Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente. La scuola italiana in Sardegna infatti è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente. Di qui la mortalità e la dispersione scolastica. Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici. Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. Per decenni l’impegno politico-sindacale, nel migliore dei casi, è stato finalizzato esclusivamente alla risoluzione dei problemi strutturali (aule, laboratori, palestre) o a quello dei trasporti. O a quello del personale e degli organici. Si è invece trascurato del tutto una questione cruciale: la catastrofica situazione della didattica. E dunque dei contenuti e dei metodi di una scuola che risulta semplice e piatta succursale e dependence della scuola italiana. Negli indirizzi operativi per gli interventi a favore delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado della Sardegna per contrastare la dispersione scolastica e innalzare la qualità dell’istruzione e le competenze degli studenti, la lingua sarda non viene neppure citata. Come se non esistesse alcun rapporto fra il fallimento scolastico, la scarsa preparazione e la questione del Sardo. Rapporto invece dimostrato inequivocabilmente da studiosi e pedagogisti come le compiante Maria Teresa Catte (deceduta proprio nei giorni scorsi) e Elisa Spanu Nivola. O come se la didattica fosse ininfluente per l’apprendimento e la formazione. Scrive a questo proposito il compianto Nicola Tanda, professore emerito di Letteratura e Filologia sarda nell’Università di Sassari: “Nelle classifiche della scuola superiore il Friuli occupa la prima posizione e la Sardegna quasi l’ultima. Mi domando: c’è qualche connessione tra questi risultati e l’uso proficuo che essi fanno della specialità del loro Statuto”?
 
 
 
 
 
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ELEZIONI O PLEBISCITI?

di Francesco CASULA
In epoca fascista, con l’approvazione della legge elettorale del 1928, fu abolita l’elezione diretta dei candidati alla Camera, sostituendola con l’approvazione plebiscitaria: il corpo elettorale era chiamato a esprimersi su un’unica lista di 400 nomi, scelti dal Gran consiglio del fascismo. E oggi? Il 25 settembre non avremmo un’unica lista di 400 nomi. Avremo una pluralità di liste. Vero. E dunque possiamo scegliere. Ma scegliere che cosa? Le liste. E i candidati? Ovvero i nostri rappresentanti? Quelli sono già decisi e scelti: in alto loco. Da una decina di gerarchi e mandarini politici. Non solo i candidati nei collegi uninominali (un terzo dei seggi sia per il Senato che per la Camera dei deputati), ma anche quelli da eleggere con il proporzionale: non è infatti prevista la preferenza. I nomi scritti vicini ai simboli dei partiti sono i candidati “bloccati” in quanto l’elettore non potrà esprimere la preferenza tra quelli scritti sulla scheda, ma saranno eletti in proporzione ai voti ricevuti nel collegio, in ordine rigoroso di lista. L’ordine rigoroso, inutile dirlo è stabilito sempre dai gerarchi dei Partiti. E il diritto di voto, ovvero di scelta del tuo rappresentante? Non esiste. Non siamo al plebiscito fascista ma poco ci manca. Il mio diritto è semplicemente quello di avallare quanto deciso da altri e da fuori. Ho l’impressione che saranno molti che non si presteranno a questa presa in giro.
 
 
 
 
 
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L’ aneddoto

L’aneddoto
TRE BANDITI E UN PASTORE
IL VOTO E LA DEMOCRAZIA
di Francesco Casula

Su biadu de Michele Columbu, ollolaese, scomparso nel 2012, ultimo grande patriarca del Sardismo, già deputato ed europarlamentare, ma soprattutto straordinario e delizioso scrittore bilingue, era solito raccontare questo aneddoto.
Un giorno tre banditi irrompono in un ovile di un pastore mentre nel suo pinnetu sta confezionando il formaggio. In modo brusco gli intimano di consegnare il fucile. Sai gli dice uno, per il mestiere che facciamo le armi sono indispensabili. Replica il pastore: non posso darvelo perché, insieme ai cani, è l’unica arma di cui dispongo per difendermi.
A fronte della prepotenza dei tre, è costretto a consegnare il fucile. Ma non è finita. Uno dei brutti ceffi che pare essere il capo, fruga nella tasca della giacca e si impadronisce del portafoglio, zeppo di soldi frutto di una vendita di una partita di formaggi: l’incasso di mesi e mesi di lavoro.
Il pastore cerca di opporsi, protestando con forza. Ma deve rassegnarsi: si impadroniscono dell’intera somma.
Ma ancora non è finita. Sai, gli dice il capo dei delinquenti, questi soldi non ci bastano. Abbiamo bisogno delle tue pecore, dell’intero gregge. Inviperito il pastore non ci vede più, si alza e cerca di aggredire un bandito. Il capo, stranamente conciliante, di dice disposto al dialogo. Anzi, afferma che non è giusto che gli sequestrino il gregge con la forza e la violenza. Occorre rispettare le regole e la democrazia. La decisione deve essere affidata al voto.
E votano. Il risultato è scontato: 3 a 1.
Sia pure sotto cobertàntzia, miei quattro lettori, avrete capito il significato, così va la storia: l’Italia (con il suo parlamento) vota, rispetta le regole e, in nome dell’interesse nazionale ha deciso e decide che la Sardegna deve sopportare il 60% delle servitù militari. Ha deciso e decide che il suo mare e la sua terra devono essere base, tanto per dire, di nuove servitù: quelle energetiche. La Sardegna serve alle multinazionali di mezzo mondo per realizzare nel nostro mare e nella nostra terra affari e profitti immani. Lasciando ai Sardi briciole e fra qualche decina di anni ferrovecchio arrugginito da smaltire.
Si vota anche il 25 settembre prossimo e il risultato è scontato. I banditi, vinceranno, come sempre.