Transpecoranza

@Beeeeee@ fece la Pecora:

La Fata proseguì la stesura della lettera senza tener conto dei due appollaiati al suo fianco.

“Amore mio. Ti amo. Ti amo ed ancora ti amo o meglio, molto più importante, ti voglio bene. Ma tanto bene, benissimo bene, di bene buono ti voglio … ti voglio di luce ed amore, di affetto dentro il cuore. Ti voglio travolgere di bene sensibile e toccante, insomma TI”.

@Beeeeeeeeeeeeeer@ sorrideva la Pecora mentre ripeteva le frasi della donna.

La Fata si fece seria e la sgridò. Con le dita sottili l’accarezzava come fosse un tappeto. Lei, la Pecora, si fece da parte, con un musetto contrito e topesco che avrebbe fatto invidia ad un sorcio vero.

La Fata piegata su sé con il cuore morto e le dita a spinger la tastiera come una mola lenta ed amara a scrivere: “’l’uomo parlava ed io ascoltavo. Avrei voluto tacitarlo, avrei voluto controbatterlo, avrei voluto fuggire dalla calunnia, avrei voluto lasciarlo solo. Non m’importava in effetti delle bugie ch’egli diceva (sapevo ch’erano menzogne) era un ignorante con le parole appese per difender e sostener un affetto, seppur’anche lo giustificavo ma esse, le parole, entravano in me, come paletti, creando solchi” con le lacrime sulla tastiera la donna lasciva al tempo il sospiro del calore.

La Pecora prese l’Egli tra le braccia e lo baciò. – non sei un grillo – gli disse ancheggiando – sei il mio “dolcissimo amore”- lui si riprese, alzò il tiro, la sorprese con il suo sguardo – quello sguardo morbido ed unico – certo che non sono un grillo, sono quello che t’ama. Sono quello che ti ha. Sono quello “dolcissimo” come dice lei – Ma smettila!!!!!!!! Fece Bela (la Pecora si chiamava così) incazzatissima – tu non puoi essere come il “lui “della storia.

La Fata  riprese a battere sulla tastiera, lenta e dolce per non sbagliare. Pensava a lui, al suo Apanbi lontano. Il suo Pan sognato ogni notte. Pensava al suo sapore, alle parole nel vento, al sesso dapprima dolce e poi invadente: come a lei piaceva.. Pensava al respiro odoroso di loro con il sospiro d’amore sulle labbra, alle dita forti e gentili sul suo ventre . “Ti amo. Amore mio, ti amo”. La  bocca  tra le gambe a toccare la ficanima, ricordava quell’onda irrefrenabile tra le labbra di lui.

Bela si fece corrucciata a quel ricordo, leccò l’Egli pensando di far bene alla Fata. L’Egli s’erse silenzioso e integro per dir la parola ma, all’improvviso, fu notte e sesso. Fu buio ed amore. Fu luce e fuoco. Fu amore puro e tutti vissero in pace ed in amore di Dio. Tutti tranne la Fata che pensava al suo amore.

Pensava a quell’amore fatto di carne e di fiato, pensava a quel sentimento tenero e violento. Pensava alle sue parole: “Passa tutto in me, io sono compiuto e perfetto, tutto scorre in me, nulla è fermento. Tutto è passato con tanto dolore.” La Fata guardò il Signore dei Pan amatissimo, lo baciò teneramente, lo strinse morbidamente al seno. Apanbi rimase immobile. Nulla fremeva in lui, nulla tradiva, nulla a far pensare. Ma la Fata lo tenne a sé, come un cofanetto di pietre preziose. Come il tesoro dei cartoons.

Cercò le sue labbra. Le allargò piano con la lingua. Lui la prese subito senza attendere un millisecondo – Mi ami? – chiese lei venendo – Ti amo amore mio – disse lui riempendole il ventre – dimmelo – chiese lei – colando amore tra le cosce – dimmelo ti prego – ancora disse tra gli spasmi – ti amo – continuò lui. Lei lo amò di più e lui proseguì piano – avremo una casa d’amore solo nostra dove tutto sarà lillà – e lei ancora venne d’amore e sesso.

Null’altro fu oltre questo. Apanbi, della nobile casata dei Pan, sapeva cosa dire e nulla disse oltre a questo.

Bela si leccò i baffi, tenne l’Egli tra le grinfie femminee e lo cullò morbidamente tra i sogni indecenti della Fata…..

@ Beeeeeeee@ sei sinosuidale  – disse guardandolo sfacciatamente – ricordati che è iniziata la transpecoranza…

L’undicesimo giorno dell’ottavo mese

Nel sonno se ne stavano abbracciati, stretti stretti.

Lei sognava le cose delle fate.

Lui sognava l’universo.

Il ché non era cosa da poco poiché i due sogni non combaciavano. Ma comunque – sia che essi ne fossero consapevoli sia che non lo fossero – questa discrepanza non comportava l’insonnia. Ronfavano tranquilli e beati come se non fosse cosa che li riguardasse.

Lei si svegliò tutta morbida con il desiderio che le colava tra le cosce. Si districò dall’abbraccio e scivolò fuori dal letto.

Prese il vassoio d’argento e lo riempì di ogni ben di Dio: marmellate e brioche, e poi sufflé e bigné, ed ancora avena e peperoni e poi pescetti e miele ed ancora un fior di zucchina in un vasetto lucente.

Era il loro anniversario.

Lo accarezzò tra le gambe; si strusciò con il seno contro il suo petto, cercò con le labbra le sue labbra.

– Oddio quanto sei bello amore mio! – pensò fra sé guardandolo e proseguì a voce alta – Tanti auguri, cuore mio!

Lui si tirò su e guardò il vassoio. Era regale così adagiato sulle bianche lenzuola profumate: licheni fuoriuscivano dalle orecchie, muschio dal naso e foglie secche a far da velo al bel corpo, le labbra livide e bluette e l’occhio turchese tendente al verde mare (diceva lui).

– Non è che mi senta tanto bene sai? – le disse tirandosi avanti il cabaret e annusando le leccornie davanti a lui – penso che sia la fine. Sto esalando l’ultimo respiro. Voglio essere cremato. Voglio morire tra le radici degli alberi. Come farai senza di me? – mi fai tenerezza piccola Fata mia …

Ma smettila, con questa scena e dillo, dillo che ti sei dimenticato il nostro anniversario!!! Dillo e piantala – gli disse lei piccata con la boccuccia imbronciata e con le dita a torturare i due preziosissimi anelli che lui le aveva regalato come pegno d’amore.

Lui sogghignò, la prese tra le braccia, le soffiò nelle orecchie e le fece caldo tra i capelli con il fiato. Ma no amore mio, no, che non mi son dimenticato: guarda, è per te e così facendo le mise tra le mani il pacchetto con, tutt’attorno lucciole e fiocchetti.

Lei sbalordita scartò subito e la bottiglia, fine come una fiala di vetro di Boemia, fu tra le sue dita. Raffinatissima bottiglia di cristallo opaco. “Almagia di Mare” diceva l’etichetta.

– ohh… il mio profumo, il “tuo” profumo, grazie amore mio! – lo scrutò riavutasi dalla sorpresa – allora mentivi… Mi prendevi in giro.. facevi finta? – gli chiese in un soffio.

– Si – sorrise lui e, addentando un dolcetto – le aprì piano le gambe e la scopò.Così, molto semplicemente, dolcemente. Come era da lui: con tanto amore.

Gocce di solitudine e di dolce ambrosia

La Fata faceva il punto: “cos’è la lontananza in effetti?” si chiese mentre con le mani si lisciava le cosce socchiuse. “E’ l’impossibilità, sia pur temporanea, di toccarsi e guardarsi negli occhi” si rispose quasi convinta.

Com’erano belli i pomodori di questa stagione. Con le loro faccette oblunghe e rosse. La fata interrogava i pomodori più piccoli guardandoli dritti negli occhi cosicché non potevano mentirle.

Più in là, ma molto oltre, gli animaletti del Bosco erano in fermento, il Bosco stesso sembrava respirare più veloce.

Il Signor Pan era steso dietro lei. Stanco delle rapide giornate di luglio che si erano susseguite senza riposo ed ora dormicchiava sereno.

“Come farà ad essere sereno? Oddio, come vorrei esser come lui! E invece mi sento un braciere sotto il sedere, con il tempo che mi sfugge e con il desiderio che mi divora!”.

Volse lo sguardo all’ultimo arrivato:  un piccolo istrice con la sua chioma di aculei di luna. L’aveva trovato lui mentre attraversava la strada nel cuore buio. Ondeggiava il cimiero fuggendo nel sorriso di lei.

“Ti preparerò una pappa buonissima!” gli disse la Fata abbassandosi ad accarezzargli le spesse spine. Avvicinò il viso al musetto nero e gli stampò, sul naso, un bel bacio vermiglio.

F = -GmM / r 2

La Fata e la Pecora, al limitar del magico Universo, con i nasi spiaccicati contro il muro – fragile cristallo invisibile – a spiar quel mondo fuori.

Lei mosse una mano sul manto setoso della bestiola in una coccola tranquilla. Quella, di rimando, la guardò dritta negli occhi e scorse il sorriso. Alla Pecora piaceva la sua padrona Fata: le infondeva quel vago senso d’appartenenza proprio delle pecore.
Lei si sporse un po’ per sentire l’odore dell’insieme di quel mondo. Acre – pensò – no, non acre, forse, semplicemente spiacevole.
Anche la Pecora s’affacciò – al par di lei – oltre il muro di cristallo con le zampette anteriori che la tenevan su e quelle poste posteriori ciondoloni.
Tutt’è due guardavano l’uovo. L’aria che s’espandeva prepotente e l’acqua che erodeva paziente. Il fuoco divorava famelico e la terra eruttava, in attesa.

Le due scivolarono senza far rumore al di qua del muro, con il fiato in gola.

Vedi piccola – disse la Fata all’animaletto ai suoi piedi – Schiavi immobili, senza consapevolezza di soggiacere ai piaceri bizzarri d’un cuor ferrigno …Torniamo a casa che Apanbi aspetta e l’Egli anche…

A quell’idea, le si stese una fila di stelle sul volto inanellandole i capelli e ricadendo in scintille negli occhi chiari della Pecora.

La grande Celesta

La Fata, di ritorno da un breve viaggio nel mondo degli umani, ancora imbambolata, con il fuso orario sulle palpebre, con tra le mani mille pacchetti colorati, souvenir per i suoi animaletti e per le parti più intime del Bosco, si lasciò andare, con un bel sospiro al pensiero di Lui: Apanbi. Dov’era?

Guardò poco oltre e lo vide. Era bellissimo, vestito da Virgilio, sulla barca di un insospettabile nocchiero e lottava, ohhh sì, sì sì, lottava per strappare dalle grinfie dell’assatanata formica il transistor.

La Fata lo guardò e subito si sentì il fuoco tra le cosce.

“Amore, ciao… ” gli gridò facendogli un occhio sogliolesco che mai e poi mai nessun Signor Pan aveva visto così seducente.

“Ohh, cara, sei tornata?” Sorrise lui, intento nella lotta “ho messo a posto la camera da letto sai? Innanzi tutto ho staccato tutti i quadri…”

Mio Dio, ha staccato tutti i miei quadri – si disse lei, sentendosi i capelli farsi ricci di colpo; ma finse comprensione e noncuranza, anzi, per la verità finse un ameno interesse “Ah, si? Bene sono felice di questo cambiamento amore, e poi, poi, cos’altro hai cambiato?” farfugliò nella vana speranza che lui non s’accorgesse che si sentiva svenire.

“Beh poi, poi, c’è la questione del gas. Ho aspettato che tornassi per lasciarti decidere. Scegli tu se gas omogeneo o gas 2-dimensionale o anche gas 1-dimensionale oppure, e secondo me sarebbe la soluzione, migliore gas 0-dimensionale… ma non voglio influenzarti amore, decidi pure in serenità” continuò lui, quasi allo stremo delle forze ma con il transistor già in salvo e la formica quasi del tutto ammaestrata.

“Potrei convenire sul gas 0-dimensionale” fece lei e leccandosi le labbra sensualmente proseguì “ad un patto: stasera tu mi scopi in quel punto preciso, con quel filo di erotismo sfacciato e mi trasformi in un pozzo di piacere. Ci stai?”

“Come potrei dirti di no?” rispose lui liberandosi di Caronte che gli sbavava addosso, in un attimo di perfida lussuria. La prese tra le braccia e la baciò selvaggiamente.

Lei si sentì morire di desiderio e guardando il cielo vide, come in un miraggio, la grande “celesta” che suonava da sola, solo per loro.

Signori della Corte…

Il Signor Pan se ne stava lì, davanti alla finestra della loro camera da letto;  guardava fuori la pioggia sottile che si riversava nel bosco a nutrirlo. Si accarezzava il sedere e canticchiava a bassa voce (tipico dei Pan rilassati). La fata, riversa sul morbido divano davanti al caminetto, osservava le fiamme ammaliata e ascoltava musica classica.

– Devo fare un esperimento – disse lui all’improvviso facendola sobbalzare e, ratto ratto, s’avvicinò gattoni sul divano – la prese per la testa e gliela rovesciò. Con la grazia che lo distingueva, le spalancò un occhio e pose sopra il bulbo un’ape.

– Se il creato s’intendesse quantificato e se dal resoconto risultasse l’innegabile dissonanza procurata dall’Autorità nella gestione dell’innalzamento spirituale che, con drasticità esagerata, giunge, innegabilmente,  alla scomposizione delle cellule grigie: Se così fosse potrei considerare come stabile la nostra relazione – Enunciò serissimo.

– Se lo uccidessi chi mai potrebbe condannarmi? – si chiese lei già immaginandosi in merletto nero, splendida, con le trasparenze ad evidenziarle il corpo chiaro…

Il Signor Pan (Apanbi) e la mela (alias melone francese)

“Caro, ti prego, non toglierti questa strepitosa maglia a righe, sei così attraente!” esclamò la fata frastornata da quell’abbinamento maglia/mela.

“Così mi affascini, sai di sesso puro” continuò, avvicinandosi a lui, guardandolo con quello sguardo un po’ osceno un po’ pudico che al Signor Pan faceva rizzare ogni centimetro di pelo.

Lui si mosse all’indietro guardando altrove, tanto per non essere sedotto alla prima occhiata (gli dava profondamente fastidio non essere padrone dei suoi istinti) e, con voce distratta disse: “In effetti non avevo intenzione di togliermi la maglia e neanche la mela”, volse per un attimo gli occhi a lei morbidamente abbandonata sul letto e continuò “Sai mi sento come “posseduto” al contempo da Isaac Newton e da Guglielmo Tell, ciò mi rende particolarmente infastidito…” così dicendo s’incantò sulle labbra schiuse della fata.

Sentì le mutande in fiamme e, cedendo irrimediabilmente, la scopò guardandola attraverso la mela, con la maglia a righe appiccicata addosso e con l’immancabile certezza di essere Apanbi e non scienziato né, tantomeno, arciere d’altri tempi.

Trasparenza di donna

Se ne stava lì davanti allo specchio. Se ne stava così: in piedi, nuda a parte le scarpine piumate.

Si guardava riflessa, la Fata, in una trasparenza che non le era esattamente congeniale.

Allora si stese sul bel tappeto antico. Allargò le cosce per accertarsi che le orchidee, nascenti dalla sua ficanima, godessero della rigogliosità del clima.

– Cosa fai ? – le chiese Apanbi, guardandola.

– Nulla…- rispose lei coprendosi appena con le mani il seno sentendosi in leggerissimo imbarazzo poiché  non s’era accorta di lui.

– Posso assaggiare le foglie delle orchidee? – chiese ancora lui fissando i bei fiori leggiadri.

– Si, purché tu faccia attenzione a non mangiare quelle piccole e tenere ma solo quelle più vecchie che, tra l’altro, sono altrettanto saporite.

Il più bello dei Pan, Apanbi appunto, s’inginocchiò tra le gambe della Fata e abbracciandole le ginocchia gliele teneva aperte. Brucava dolcemente. Ogni tanto la guardava negli occhi per vedere se lei approvava la sua scelta delle foglie.

Lei sentì un brivido scorrerle per la schiena, un crampo al ventre, lo guardò mentre masticava di gusto le foglie, con le orchidee intorno al viso. Si tolse gli occhiali, accarezzò il bel corpo di lui, perfetto nelle fattezze.

Lui le lasciò le ginocchia e allungò le mani a prenderle il seno. Le strizzò dolcemente i capezzoli rosa, continuando a brucare.

Lei s’abbandonò a lui e teneramente venne tra le sue labbra.

Le prime parole

Il Signor Apanbi era davvero ben più alto di lei. Solo di una cosa la Fata era più che certa: erano della stessa razza. Gli occhi color acquamarina che la scrutavano, il sorriso appena accennato mentre la ascoltava. Non si muoveva, lui non faceva nessun gesto e nessuna mossa, ma era come se l’abbracciasse in quel momento di profonda tristezza che lei viveva. La guardava solamente e quello sguardo era come un lungo, tenero bacio.
Non era solo malinconia,  ma era anche rimpianto di qualcosa mal vissuto, di qualcosa non avuto, di qualcosa da cacciare nell’oblio. Era l’urgenza di dimenticare subito che l’aveva spinta a parlargli.
Si stropicciò le mani sull’abito come a farsi forza. Erano piccoli gesti inconsulti che lei inconsciamente adottava quando era a disagio. Lui lo sapeva, e poi, c’era poco che lui non sapesse.
Di contro c’era che anche lei sapeva molto di lui o, perlomeno, le cose importanti che lo avevano cambiato. La Fata si chiese se fosse chiaro in lui che proprio per il suo vissuto era divenuto come si mostrava ora.

Poi parlò lui. Sorrideva mentre parlava. Alla Fata piaceva quello che diceva. Parlava di concetti comuni ad entrambi, parlava di vento e di viaggi, parlava di amori persi.

Lei fece la prima mossa: lo prese per la mano e gli accarezzò il bel viso. Lo fece con dita leggere affinché lui non provasse disagio a sentire la sua essenza femminina. Non avrebbe mai voluto fargli male. E non gliene avrebbe fatto.

“Come facciamo a cacciarci sempre in questi guai?” chiese lei  – che adesso aveva un accenno di sorriso – fissandolo – “come possiamo ancora cercare ciò che non esiste dall’inizio? Dimmi tu se ha una logica tutto ciò?”.

“Non lo so, me lo chiedo spesso, ma non trovo ragioni abbastanza pregnanti da portare a discolpa dei nostri errori” – rispose lui.

Lei rise: una bella risata fresca e sincera. Rise anche lui. Si capivano: altroché se si capivano. C’era qualcosa che li aveva uniti e quella stessa cosa li aveva separati. Soffrivano dello stesso male.  Odoravano dello stesso odore. Avevano lo stesso colore della pelle.

Le mise due dita sulle labbra: “taci, lo so” le disse.

“Come lo sa?” si chiese la fata tastandosi il cappello per capire se si fosse mosso nella sorpresa di quelle parole.

“lo so e basta. Ti amo. Non ho paura di amarti” proseguì lui cingendola tra le braccia forti.

“Mi legge nel pensiero, ecco cosa fa” di disse ancora lei come a trovare una spiegazione, come a tranquillizzarsi.

Fu facile sciogliersi nell’abbraccio di lui.

La ficanima ebbe un sussultò, si svegliò dal coma. L’onda la prese con forza, l’onda calda di un tenero mare del settimo mese degli umani.

Gli guardò le labbra: “che belle labbra, morbide e sorridenti”…

Calzini tigrati e quantaltro…

In effetti così si presentò, quella sera, lui a lei.

Lei era una Fata di purissima razza fatesca e lui uno degli Apambi più bello che si ricordasse. Lui entrò nel mondo magico di lei come una catapulta. Aveva un calzino tigrato ed uno leopardato. Aveva occhi rosa per l’occasione  (in effetti li aveva di un color acquamarina). Era grondante di sudore e traboccante d’amore. Lei, la Fata, s’innamorò all’istante e decise che non l’avrebbe mai lasciato. Decise anche che, per lui, si sarebbe tolta il cappello a punta quando erano insieme per lo scontato fatto che avrebbe potuto ficcarglierlo in un occhio o nel naso o in chissà quale altro prezioso spazio del corpo.

Lei decise di volargli direttamente tra le braccia (anche se si sentiva colta da svenimento), lui, dal canto suo, decise che l’avrebbe tenuta e la baciò senza sosta (anche se sentiva le gambe tremargli).

Così si incontrarono: per caso.