Cardin

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Mi svegliai prima del sole e non sentendo il frinire delle cicale mi spaventai, non perché mi preoccupassi che ad esse fosse successo qualcosa, in fondo non è che m’interessasse molto del loro destino ma, essendo state il mio ultimo contatto col mondo prima di addormentarmi, ricordarmelo appena sveglio significava che il sonno era stato un continuum senza nessun’altra distrazione ovvero non avevo sognato e anche se io non ricordo mai i miei sogni notturni, è anche vero che sognare succede a tutti e questo, molto probabilmente, è il motivo per il quale, al risveglio, facciamo fatica a ricordare l’ultimo pensiero che avevamo prima di addormentarci perché la nostra mente li mette in fila come facciamo con le parole in una frase e, quelle che non ricordiamo, in questo caso i sogni, persistono anche se non riusciamo a ricordarli, proprio come le parole che scriviamo su un foglio word. Se le cancelliamo e salviamo il foglio in bianco, quelle parole sono ancora là, solo che non le vediamo perché sono rimaste nelle cellette di quell’alveare immenso che nel pc si chiama registro e solo quando quelle cellette non saranno occupate da altre lettere o segni, quelle di prima scompariranno. Una specie di chiodo scaccia chiodo. Non a caso, i programmi di cancellazione sicura lavorano proprio in tal senso. Io, non avendo un pc perché non l’avevano ancora inventato, quando cancellai la formula del mio aroma per l’olio, riempii di nuovo il foglio di lettere “x” – potevo farlo con qualunque lettera, segno o simbolo, sarebbe stato lo stesso – poi lo salvai, lo riaprii e lo cancellai di nuovo. Fu la cancellazione sicura che avrei fatto se avessi avuto un pc. Intanto che mi lavavo, ripensando alle cicale, mi tornò in mente Marcel. Fu lui a farmi conoscere Fabre, mi pare si chiamasse Jean. Era un entomologo e fu lui a spiegarmi il motivo, a suo dire, per il quale le cicale friniscono soprattutto al buio. Mi disse che lo fanno per proteggersi dai nemici.
“E lo fanno facendo rumore?”, gli chiesi.
“Certo. Hai mai notato che quando una cicala frinisce, tu senti il rumore provenire sempre da un punto diverso?”
“E’ vero”
“In effetti fanno lavoro di gruppo. Non è mai una sola e friniscono in modo alternato così ti disorientano continuamente fino a rimbambirti. Il predatore alla fine, ormai totalmente disorientato ed esausto finisce per mandarle a cagare e rinuncia”
“Ma così non dormono neanche loro”
“No, loro dormono. E’ un meccanismo di difesa automatico che funziona tutta la notte. Di giorno, invece, funziona solo se avvertono un pericolo.”
“Quindi funziona così?”
“Sinceramente, non so se funzioni proprio così, però mi piace pensare che sia così”, mi rispose ed io che ero stato ad ascoltarlo con tanta attenzione, se fossi stato un predatore, l’avrei mandato a cagare. Non essendo un predatore, molto elegantemente, lo salutai soltanto e avvicinatomi a Marcel gli dissi sottovoce “ma tutti tu me li presenti?” e, ancora una volta, ripensai a Odette et le temps perdu avec lui.
Finii di lavarmi, mi vestii ed andai al frantoio. Tutto uguale a ieri. Le olive già pronte per la premitura. Il mio sacchetto di aromi. Angelo che mi aspettava. Una sola cosa diversa, Catalda aveva i capelli legati. Quella visita a sorpresa voluta da Rosaria era servita ad accertarsi che dietro i disegni da mostrare alla figlia non c’erano altri miei disegni e, come avevo previsto, l’aveva rassicurata.
Facemmo in fotocopia le cose fatte il giorno prima ovvero quando una cosa l’hai fatta bene una volta, diventa ripetitiva e noiosa le volte dopo.
Dopo pranzo, Catalda ed io tornammo al trullo.
“Ti avevo detto che mamma avrebbe cambiato idea”, le dissi.
“Infatti. Adesso mi dici perché ne eri convinto?”
“Perché non c’era motivo che tua madre ti tagliasse le ali. Ti conosce, sa che hai la testa sulle spalle. Secondo me temeva solo che io non fossi trasparente e stavo pensando di spassarmela con te a Parigi per un mese. In fondo, è un’ipotesi che può starci.”
“E quindi?”
“E quindi ho pensato che tuo padre e tua madre, sarebbero arrivati a sorpresa…”
“Ah, ecco perché ieri hai detto che entro un paio d’ore, mia madre avrebbe cambiato idea. Arrivare a sorpresa e vedere con i suoi occhi. Infatti, quando tornammo a casa, senza che io dicessi niente, dopo cena, mentre guardavo e riguardavo quel disegno, lei si è seduta vicino a me e mi ha chiesto se ero ancora decisa a venire a Parigi e quando le ho detto di sì, mi ha chiesto se mi fidavo di te…”
“E tu cosa le hai risposto?”
“Le ho detto che il problema non sei tu, ma sempre e solo io ovvero quello che voglio io, non quello che potrebbero volere gli altri da me.”
Avrei voluto chiederle “e tu cosa vuoi?”, ma sarebbe stato spoilerarmi quello che, di bello o brutto, c’era in divenire. Lasciai stare. Lei continuava a darmi del tu e del voi un po’ a cazzo, non che m’importasse, mi divertiva. Intanto eravamo arrivati al trullo. Entrammo.
“Preparo la limonata”, le dissi.
“Datemi le cose, la preparo io. Voi preparate i disegni ed il quaderno sul tavolo fuori”
Presi i limoni, il coltello e glieli diedi. Presi la brocca ed andai a riempirla fuori con l’acqua del pozzo che era sempre bella fredda. Rientrai e standole alle spalle gliela misi davanti come in un mezzo abbraccio. Aveva ancora i capelli legati ed il collo nudo in bell’evidenza. Glielo baciai. Lei non reagì.
“Scusami, ma non ho resistito”, le dissi quasi all’orecchio. Lei strinse il coltello e girandosi standomi addosso me lo appoggiò al collo:
“Ora continua…”, mi disse standomi negli occhi e cercando la mia bocca. Con una mano sulla guancia e le dita infilate nei capelli, la baciai stringendola. Lasciò cadere il coltello, le sue mani sulla mia schiena senza staccarci. Finché ne ebbi, lasciai che respirasse con i miei polmoni. Sempre in piedi, nella luce obliqua che entrava dalla tenda, prigionieri solo dei nostri occhi. Una per volta le abbassai le spalline e il vestitino le scivolò giù restando sospeso sul suo seno per metà nudo. La discrezione dei capezzoli sui quali era rimasto appeso non mi spoilerò il meglio che mancava, finché lo ressero prima di lasciarlo andare, non per il suo peso, ma perché decisero di venire sfrontatamente allo scoperto pretendendo la loro parte di mani, lingua e labbra. Tutte cose che non gli negai mentre quel leggero tessuto di cotone a righe bianche scivolò a terra e lei al centro. Rispettai per un po’ il contratto con i suoi capezzoli e dintorni. Lasciai che mani, labbra, lingua e denti non facessero mancare nulla a quel seno che come un’onda si sollevava ed abbassava con l’affanno del respiro.
… Quello era il momento, in cui nella fretta giovanile, invidiavo gli insetti che, beati loro, avendo più arti, soprattutto braccia, potevano comportarsi in modo multitasking. Quelle volte in cui avrei voluto due mani per tenerle il viso; due per tenerla nelle spalle; due per stringerle a mani piene il seno e dare il cambio a lingua e labbra; altre due per scorrerle con le unghie la schiena, percorrendola fin dove si apre in due lasciando solo un sentiero che, stretto fra le colline del culo, conduce in quella bocca di paradiso che lo inghiotte, lo trattiene, lo spinge fuori, lo fa entrare, lo pretende, gli va incontro, lo stringe e lo rilascia fino a che, in un mare di latte e miele, sfiniti e sazi si lasciano andare. Col tempo e l’esperienza, però, avevo soprattutto imparato a non aver più fretta del corpo di una donna. Come un macellaio o più elegantemente come un medico legale, imparai a sezionarlo in ogni parte, cercando sempre di distribuire in modo uguale mani, lingua e labbra. Imparai ad allargare la lingua o assottigliarla come un coltello. A premerla tenendola larga. Ad irrigidirla assottigliandola per spingerla dentro. Ad usarne solo la punta come un polpastrello che non ha bisogno della spugnetta bagnadita. Scoprii l’infinità dell’intrecciare le nostre dita standole dentro fino a far baciare pube con pube. Imparai il brivido di leccarle il filo di pelle nell’inguine fra coscia e labbra. La sensazione di dolcezza nel baciarle e leccarle la spina dorsale, vertebra dopo vertebra dal collo al culo. Sempre col tempo, scoprii che il punto G è plurale perché ogni donna ne ha a decine, oppure il punto G è solo uno, ma si muove continuamente nei punti più impensati. Come baciarle e leccarle le ascelle che stanno ad una distanza siderale da dove si racconta che lui risieda. Lo stesso vale per le caviglie che hanno la stessa sensibilità dei polsi…
Contenti dell’anticipo, seno e capezzoli lasciarono che m’inginocchiassi e senza togliergliele le mordessi e leccassi il pube tenendole le mani aperte sul culo. Lei le schiuse appena per spingermela in bocca. La lingua aperta a premerla e succhiarla. Sempre filtrata dal tessuto e poi sfilargliele facendogliele scorrere fino alle ginocchia e poi lasciare a lei di sollevare i piedi sfilandogliele del tutto. Tenerle in mano, in vista e girarle alla rovescia. Alzarmi e davanti ai suoi occhi, leccarle dentro. E baciarla. E portarla a letto. Spogliarmi e tornarle fra le cosce con le sue dita nei miei capelli.
Così come, non solo labbra e lingua ma, poiché il tatto è sensibile a tutto, imparai a non sottovalutare il soffio. Alla fine capii che due mani non sono un limite, ma sono lo spazio e il tempo sindacalmente preteso dai preliminari. Così come dovetti ricredermi sui sensi, quando pensavo che fra i cinque fosse l’udito il meno partecipativo e, invece, andando in barca e remando…
… il rumore del remo che entra ed esce dall’acqua era quello stesso, preciso, identico rumore che, ascolti quando le stai entrando anche nell’anima. Cercavo parole che traducessero in poesia quel preciso rumore quando tutto diventa liquido. Guancia a guancia, le mie labbra sul suo collo, le sue al mio orecchio.
“Sentila come canta”, disse lei.
Nulla di elaborato, nulla di costruito, nulla di pensato, come il sorriso di un neonato. Quando la poesia accade… “sentila come canta”… E più saliva quel canto, più le affondavo dentro. Più forte, più veloce e il fiume correva giù senza più freni e, mentre lei cantava, esplodeva in quel suo mare.

Tenendoci per mano, distesi con gli occhi nel soffitto. Neanche sapevo se fosse stata la mia a prendere la sua o a farlo lei. Preferii pensare che noi due non c’entravamo, era stata iniziativa delle dita. Tenendoci per mano, con gli occhi in quel soffitto a cono, obbligati a guardare nello stesso punto.

“Dovremmo metterci a lavorare”, le dissi.
“No, per i prossimi tre o quattro giorni, niente lavoro. Ho delle cose da fare. Spero non sia un problema per i tuoi progetti”, mi disse girando il capo verso di me.
“No, non c’è gran fretta”, le dissi girando anch’io la testa verso di lei, “pensavo di andare a Parigi fra due settimane al massimo”.
“Allora abbiamo tempo. Hai già pensato a che nome dare alla sartoria?”
“Sì”
“Ahahah, lo dovevo immaginare. E’ un segreto?”
“No, le darò il tuo nome…”
“Noooo, Catalda?”
“Ahah none, il tuo cognome francesizzato. Tu ti chiami Cardine, e quindi Cardin che in francese si pronuncia Cardèn, poi sceglierai tu se chiamarla maison Cardin o boutique Cardin, ma il nome sarà Cardin. Lo vedo già proiettato nel futuro. Diventerà famoso.”
“Mi piace la tua convinzione”, disse.
Non ci tenevamo più per mano, ma non aveva alcun senso approfondire.

Cardinultima modifica: 2021-07-28T16:05:46+02:00da arienpassant

9 pensieri riguardo “Cardin”

  1. Se volevi stupirmi, è solo un modo di dire perché non pretendo che tu scriva avendo come obiettivo quello di lasciarmi senza parole, ci sei riuscito. Stupenda la digressione che racconta l’apoteosi erotica dei due, e anche il finale. Insomma, tutto l’insieme rivaleggia con Rewind.

  2. Se scrivessi per lasciarti senza parole, potrei chiudere baracca :))
    Solo per capire, qualche giorno fa, ho fatto una visura catastale a questo blog ed è risultato cointestato 🙂

  3. No, se dovessi ricambiare la pazienza e la tolleranza che hai con me, dovrei regalarti anche tutto l’olio che sto per imbottigliare 🙂

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