il profumo dei ciclamini


Pur non avendo né un giardino, né la voglia di averne uno, quello di Pia cominciò a radicare in me. Neanche lo conoscevo ma, attraverso le parole d’altri, lo immaginavo. A dirla tutta, uscendo sul mio balcone e guardando le mie tre piante in plastica con le foglie che avevano la stessa vitalità e colore del vaso, cominciavo ad essere insofferente al punto da chiedermi se fra le millemila sindromi esistenti non ci fosse anche quella “del balcone”. Intanto, una delle mie tre piante era anche fiorita e poco importava che anche i fiori fossero di plastica, qualcosa era successo. Per un attimo mi chiesi se quei fiori, considerata l’imprevedibilità della cosa, potessero rientrare anch’essi nella poesia che accade, ma fu solo un momento di sbandamento. Sarebbe tristissimo se anche la plastica diventasse poesia. Misi, comunque, in agenda di occuparmi della cosa e per un po’ neanche ci pensai finché una sera, risalendo in macchina, notai che avevo parcheggiato davanti ad un fioraio. Entrai. Mi guardai intorno, ma non c’era un cane. Piante sì, ed anche tante. Poi una voce: “Agrippina, c’è un cliente”. Dalla destra, avvertii il rumore delle foglie che si muovono e, girandomi, da un cespuglio di rododendri sbucò una donna che recava in mano un mazzolin di rose e di viole. Mi ricordava qualcuno ma, non riuscendo a focalizzare chi, mi venne in mente quell’altro, quello che cercando di capire come funziona la memoria dei ricordi, parlava proprio del fatto che certi nomi ci sfuggono quando ci servono e ci tornano in mente quando non ci servono. “Buonasera”, mi disse mentre dalla boscaglia a sinistra sbucava un ragazzone alto, biondo e con un’ascia in mano. “Agrippina, io ho finito. Ci vediamo domani”, disse con un inconfondibile accento tirolese. Prese dall’attaccapanni una camicia a quadri rossi e neri, la infilò e uscì. Accento tirolese, camicia a quadri rossi e neri. Troppo banale Watson, era di sicuro il boscaiolo. "Va bene, ciao", e girandosi verso di me: "Prego, mi dica." “ehm, buonasera, in effetti sono venuto solo per farle una domanda…” Lei abbozzò col capo come per dirmi “va bene dài, non fare il timido… anzi, per dirtela tutta, stasera avrei proprio una gran voglia di scopare…”. Vabbè, forse quell’abbozzo col capo non significava proprio quello perché anche il linguaggio del corpo ha i suoi lati oscuri. Mi tornò in mente quando lei, non Agrippina ma un’altra, mentre si rivestiva, mi disse: “guarda, stavolta è andata così, ma non permetterti mai più. Visto che non ero consenziente potrei denunciarti”. “Scusa, ma non potevi dirmelo?” “Volevo farlo, ma temendo di sbagliare, non volendo offenderti, ho preferito vedere fin dove volevi arrivare”. “Quindi hai finto dall’inizio alla fine”. “Non saprei… diciamo che ero così confusa che… non lo so…” “Però sei venuta“ “Come fai a dirlo” “Grondavi” “Anche se fosse, si chiama dissociazione… il corpo va da una parte e la mente da un’altra” “Non credo che funzioni così perché a me non si drizzerebbe nemmeno” “Sei ignorante, la dissociazione esiste” “Non ho detto che non esiste, ho detto che, secondo me, non funziona così.” “E come funziona?” “La mente prova a dissociarsi dal corpo ma, poiché la carne è carne, alla fine la mente crolla e fanculando se stessa sceglie di seguire il corpo” “Ahahah, che stronzata! Guarda che quella debole è la carne.” “Cara mia, il corpo chiama, la mente prova a resistergli, ma il più delle volte cede. Pensa alla droga, all’alcool o anche solo alla nutella.” “Allora, qual è la domanda?”, disse Agrippina riportandomi a lei. “Sì… veda, a casa ho una pianta…” “Che pianta?”, mi chiese. “Non lo so… è di plastica…”, le dissi con imbarazzo. “Capito e, magari, adesso vuoi sapere perché non cresce e non fiorisce…”, disse guardandomi dritto negli occhi mentre i suoi li aveva stretti come due fessure. Si era incazzata e non potevo darle torto. Meglio tagliare la corda. “Ok, mi scusi per il tempo che ha perso. Buonasera…”, le dissi e, stavolta, fui io a guardarla dritto negli occhi, e aggiunsi: “… comunque non volevo sapere perché la mia pianta non fiorisce, perché sta già fiorendo”, e mi avviai alla porta. “Dove vai, torna qua”, mi disse. Mi girai e lei, facendomi segno col dito: “Vieni, voglio mostrarti una cosa”, mi disse. Prese il piumino dall’attaccapanni e lo infilò su quella maglietta tanto fina che m’immaginavo tutto. Prese anche una torcia ed io la seguii nel retrobottega. Dall’esterno non avevo immaginato che quel piccolo negozio potesse essere così grande. Fra l’altro, eravamo in pieno centro ed alle spalle del negozio doveva esserci una piazza. Noi, invece, dall'interno del negozio stavamo entrando nel bosco, quello dal quale, prima, era sbucato il tirolese. Eppure conoscevo quella zona come le mie tasche e non c'erano boschi là intorno. Attraverso i rami degli alberi filtrava ancora un po’ di luce, ma cominciava a fare buio. Aveva un passo spedito, padroneggiava facilmente quei sentieri ed io pendolavo con gli occhi dai suoi leggings alle sue scarpe. Dopo un po' incrociammo una bimba che indossava una mantellina rossa. “Ciao Agrippina”, la salutò con una vocina allegra. “Ciao bella, come sta la nonna?” “Sta bene, sto tornando a casa”, rispose la bimba. “Va bene e mi raccomando, attenta al lupo”, le disse Agrippina. “Non c'è più il lupo”, rispose la bimba. "Ah, meno male. Ciao", disse Agrippina e proseguimmo. Ancora un po’ ed alla fine del sentiero mi si spalancò davanti un giardino con un prato enorme, perfetto e curato come un campo di calcio. Sullo sfondo c’era una bella casa, grande e su due piani. Era tutta in legno, di colore bianco e le colonne che la contornavano risaltavano l’architettura antebellica delle ricche case coloniali dei coltivatori di cotone dell’America meridionale. “Quella che vedi è casa mia, dietro c’è la stalla con i miei cavalli e, tutt’intorno, ora è buio non puoi vederla, c’è la piantagione di cotone”, mi disse aprendo la porta. Come certe altre cose, dentro non era accattivante come fuori ma ancora più calda ed accogliente. Ancora un mondo nel mondo. Non avevo parole. “Vieni”, mi disse ed io, dall’ampia sala, la seguii in una stanza che dava sul retro. Al centro c’era un grande tavolo con sopra alcune cassette di legno con dentro ognuna, una pianta. Erano tutte di plastica e, qualcuna, aveva anche i fiori. Istintivamente sfiorai le foglie e poi i fiori con le dita. Poi mi abbassai per odorarli. “Tocchi e odori sempre quello che incontri?”, mi disse. “Oh, scusami…” “No, tranquillo, era solo curiosità” “Sono due cose alle quali non so sottrarre la mia curiosità, ma un po’ lo facciamo tutti. Tatto, odore e, come col cibo, sapore.” “Il triangolo del piacere”, disse. “Quindi anche a te è successo. Piante di plastica che fioriscono e quindi vivono”, le dissi. “Sì, lo scoprii per caso due anni fa e continuo a lavorarci sopra. Neanche immagini cosa combino in esperimenti. Vieni”, disse avvicinandosi ad un armadio sulla parete laterale. Lo aprì e dentro c’erano altre sei piante. Erano ciclamini ed erano anch’essi di plastica, ma non ebbi bisogno di avvicinarmi perché il loro odore era intenso e forte. Mi girai a guardarla ed i suoi occhi divennero più grandi leggendo nei miei quello stupore che la faceva felice. Quell’espressione di cui vanno a caccia i bambini quando vogliono stupirci, e più quell’espressione è sincera più la felicità è tanta. Mi abbassai, lo stesso anche sui ciclamini e li odorai. Gli odori, come i sapori hanno lo stesso disordinato potere delle mani che cercano nel cesto dei ricordi. Mi tornò in mente un frammento di Proust: “Quanto allo storace, alla manna e agli aromi, non si finirebbe più di nominare le divinità che li ispirano, tanto sono numerose. Anfiete ha tutti i profumi eccettuato l’incenso, e Gaia rifiuta solo le fave e gli aromi.” Per un momento sperai che Agrippina non fosse come Gaia e, fra le fave e gli aromi, rifiutasse solo gli aromi. “Anche se l'odore non è proprio quello dei ciclamini”, le dissi mentre richiudeva l’armadio, “stai facendo qualcosa d'incredibile” “Mmmm, certo che hai un odorato molto acuto”, mi disse. “Sì, da piccolo abbaiavo pure…” “Ahahah” “Al mio archivio, ne manca uno però…” e, avvicinandomi, “… posso?” “Sniffa pure”, mi disse inclinando il capo. Le scostai i capelli e le odorai il collo risalendoglielo dall’attaccatura della schiena a quella dei capelli. Quando sentii le sue mani dietro la mia schiena, prima un morso e dopo un bacio per assaggiarla pure. La mattina dopo mi svegliò il canto del gallo. Lei si era già alzata. Qualcuno doveva pur fare il lavoro sporco ovvero svegliare il gallo. Il tempo di fare una doccia anch’io e la seguii lungo il sentiero che ci avrebbe riportato al negozio. Le chiesi come potevo conciliare il negozio, il bosco, la sua casa e la piantagione di cotone. “Mi stai dicendo che qualcosa non ti quadra?” “Più o meno” “Io non ci trovo nulla di strano. Succede a chiunque, quando conosce altre persone di scoprire altri mondi. Fa parte dell'intrecciarsi delle relazioni. Io mi preoccuperei d'altro” “Ad esempio?” “Di quel processo di cancellazione col quale utilizzando il progresso ed il mercato, si continua ad appiattire e cancellare quelle diversità che sono l’unico motore e ricchezza dell’universo umano. Quella diversità d'essere, d'espressione e di pensiero che, se non omologata, diventa sempre più clandestina.” "Guarda là", le dissi indicandole una casetta che la sera prima, forse, non avevo visto perché era buio. Fuori c’erano dei bambini che piangevano ed una donna distesa su un letto di fiori. Sembrava addormentata. "Sì, non badarci", mi rispose stringendomi il braccio e tirandomi affinché non mi fermassi. “Ma quei bambini stanno piangendo”, le dissi. “Tranquillo, fra poco smetteranno. Dài, muoviti”, mi disse risoluta. Qualche minuto dopo incrociammo un giovane a cavallo. Era vestito d’azzurro ed il cavallo era bianco. "Senti, ma non è che i tuoi ciclamini sono allucinogeni?" “Ahahah scemo, prova ad unire i puntini. Il bosco, una donna su un letto di fiori, dei bambini che piangono... che poi non erano bambini, ma solo alti come bambini. Poi il cavallo bianco ed il bel giovane vestito d’azzurro. Ci arrivi da solo o devo farti un disegno? Vuoi vedere che devo spiegarti anche la bimba con la mantellina rossa?”, mi disse ridendo, "ma da dove sei spuntato?", e mi baciò di colpo e forte. Quella mattina, uscito dal negozio, tornai a casa e malgrado Agrippina mi avesse svelato che le piante in plastica lei le alimentava non innaffiandole con l’acqua ma con una miscela d’acqua e vinavil, presi un sacchetto e buttai via le mie. Il mio balcone, anche se non era il giardino di Pia, sarebbe tornato alla normalità delle api che inseminano i fiori. La Fiorellina che fa sesso e gode con l'ape e quando quella sta per volare via, dice ai fiorellini "salutate papà". Il profumo dei ciclamini rimase, invece, un suo segreto. Così come, rimanga un segreto, provai più di una volta ad unire i puntini, ma non venendone a capo, ho lasciato perdere.