Primaverile che infiora

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Proveranno smarriti
A legare gli sguardi
A toccarsi
Nell’intralcio dolente
Del vissuto che irrompe
Proveranno perplessi
A voltare le pagine
Traboccanti di segni
Di paure e ricorsi
Che hanno odori diversi
A struccare i racconti
Per potersi parlare
Un ordito prezioso
Di semplici linee
Tracceranno
L’inesausto sorriso
Che promana dai sogni
Le distanze dal cuore
Da doversi accorciare
Avranno passi leggeri
Di armonie musicali
Nel mattino inatteso
Primaverile che infiora

(c)

Guardo il limite

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Guardo il limite
Ad occhi chiusi
Guardo chi sono
Già stato
Guardo chi ancora
Non sarò
Mentre il bisturi
A lama ricurva
E’ uno spicchio
Di luna scintillante
Che incide
Un arcano alfabeto
Di luce e sangue
Sul foglio/corpo
Del mio ignoto destino
Rapsodie di sogni
Umori liquidi e ferali
Si mescolano all’urgenza
Del mio ventre
All’anestetico
Di frammenti infiniti
Diluiti di sguardi
Specchianti
La soluzione fisiologica
Di parole posate
A germinare
Conterò tutti i passi
Fin dove mai sono andato
Coglierò il più lieve fruscio
Di ogni singola foglia caduta
Nell’indifferenza della terra
Il più esile afflato
Di vento inatteso
Sopraggiunto a cullare
Del mio rinnovato risveglio
Gli accenti.

Puoi chiamarmi come vuoi

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Di lei
Un marinaio di terraferma…l’immagine che si era fatto di lei. Non sapeva bene cosa volesse dire, (ora lo sa), ma era ciò che sentiva, quando guardava a quel suo tratto parola/movimento che la ritraeva. Affiorava con ritmo incalzante, come un uragano lento, che prova a caricarsi di energia fino all’esplosione, per poi disperdersi in parole nitide o a tratti opache…un turbinio marino di risacca dove il senso si perdeva sugli scogli o più spesso sprofondando in mare.

Di lui
Un albero, con le foglie protese verso il cielo, che non temeva il vento e scuoteva la sua chioma quasi timidamente. E a volte si rifugiava dentro il suo tronco e da là nessuna traccia di lui. In altre si staccava foglie lasciando i suoi messaggi tra linfa e stomi. Di lui …altro non sapeva. Perché i suoi frutti erano sconosciuti, segreti, quasi misteriosi e si protendeva poco, molto poco, giusto per donare un sorso di ombra. E poi si spegneva. Anzi non c’era.

Di lei
Capitava, a volte, di sorprenderla al mattino presto sulla spiaggia, mentre inseguiva un aquilone buffo, che insidiava ai gabbiani improbabili traiettorie di volo. S’inebriava non tanto del consueto, infantile gioco di portarlo a spasso, quanto dell’attesa “dello strappo”, dell’intuizione del cielo, il suo ignoto desiderio di collassare in basso.

Di lui
Sovente si sorprendeva nell’osservarne i tratti e lo trovava a volte bimbo a volte uomo duro, fermo, quasi difficile; avrebbe voluto dirglielo, ma non poteva, perché ci sono cose che possono scivolare, solo quando il fiume ha solcato i palmi, non prima, mai prima. E loro avevano i palmi asciutti e lontani. “ E le mani si bagnano con gli occhi”; così credeva lei, – che parlava di sé -, mentre credeva di parlare di lui. Così senza specchio, perché sempre ci si ritrova in uno specchio d’acqua a procedere per strade sconosciute, sotto frammenti di cieli ignoti, che poi è lo stesso.

Di lei
Che poi era lo stesso, gli sembrava di ricordare…specchi opachi, ma di una opacità luminosa, capace di sondare con il suo sguardo tutti i meandri più oscuri delle cose, di quel pulviscolo d’ombra che s’annida nei cuori di ognuno, per poi allontanarsene appena in tempo, – al sorgere dei primi indizi di giudizio -, nel punto preciso d’equilibrio precario del battito d’ali di una farfalla ed il suo grido silenzioso.

Di lui
Poco, molto poco giudizio, perché sapeva giocare con l’ombra, esattamente là, dove lei gli chiese un soffio del suo bavero e non si accorse che lui era vestito di bosco e sapeva dipingere la terra con altra terra, quasi fosse il refuso di un patto con il cielo. Questo lei non lo chiese. E non smise di raccogliere i frammenti del prato, perché ne intuiva le radici e ci soffiò sopra tutto il silenzio di cui era capace, perché lui lo sapeva apprezzare, come solo sa, chi ha tanto dentro di sé.

Di lei
Nelle tasche nascondeva sempre una radice sottile, appena un po’ più spessa di una metafora, che mescolava con i sassolini raccolti sui bordi delle pozzanghere, mai lungo il greto dei fiumi; altre volte nei romitaggi dei supermercati; quegli angoli, insomma, dove ti aspetti di trovare nessuno, intento a misurare il ticchettio dei sogni, quando scompaiono all’ombra di un altro orizzonte, un altro vuoto, una lattina di birra abbandonata o un altro universo, che prova ancora a collassare – senza riuscirci -, prendendo in ostaggio la tua vita, scontata, per mille punti di spesa.

Di lui
Ma chi era? Si avvertiva la contaminazione dei giorni ordinari e il desiderio di una serenità fatta di cose semplici…lei credeva che lui fosse così…ora che aveva sentito la sua voce lo sapeva…ne era certa…lui era un albero con la voce da albero.

Di lei
A volte tornava senza accorgersene, tornava con quel silenzio colmo di passi, che lasciano tracce e un profumo “a perdersi” nella lontananza di un’altra vita, un altro sogno, altri silenzi, come arse tende sbrindellate, lacerate, lasciate appese a dondolare, alle finestre di edifici diroccati, sbriciolati, rasi al suolo. Nella fitta nebbia di zucchero filato o tra le stringhe scure di una notte densa, ripercorreva a piedi nudi ognuno dei suoi viaggi; guardava (senza calzarle), le sue scarpe spaiate, ma eleganti, utili ancora per altri viaggi, altri amori, altri inganni, per i necessari travisamenti di vita.

Di lui
Una creatura fantastica e misteriosa…recitava la reclame pubblicitaria, che aveva letto di sfuggita su di un frammento di carta finito nella spazzatura. Ricordava il passo e la sua peculiare voce di albero, quel tipo di albero –la yucca-, di cui si favoleggia, che si muova nel deserto sulla scia di rivoli d’acqua sotterranei. Ricordava a tratti, non tanto le sue parole, quanto la suggestione che ne rimaneva, come di un “appostamento”, l’attesa fiduciosa ed imprevista di una magnifica nevicata alla vigilia di Natale. –“Che cosa stai guardando?”-, gli domandava, quando lo sorprendeva, a volte con lo sguardo immobile di fronte al mare. –“Guardo il mare”- le rispondeva. Così, semplicemente, rispondeva. Proprio così, come se stesse guardando, davvero, solamente il mare…

Di lei
Puoi chiamarmi come vuoi…gli aveva detto, -senza parlare- nella prolusione cadenzata, quasi filmica, di due palpebre evanescenti, al sopraggiungere inaspettata della memoria di una antica promessa, che la immobilizzava, ancora e senza scampo, nel traffico d’auto e di ricordi, lei, intrappolatrice scaltra di sogni rari.

Di lui
I treni e null’altro, da bambino, riuscivano a dargli una così improvvisa e intensa felicità…l’apparizione di un treno era, per lui, una magia inspiegabile, entusiasmante . Affondava la mano nel sacchetto delle ghiande, che aveva raccattate con cura –scegliendo sempre le più grandi-, e si preparava a mirare per colpire il treno che sopraggiungeva, senza mancarne uno…era come quando i suoi genitori, nei loro frequenti alterchi, si lanciavano parole – come lui con le sue ghiande- senza mai sbagliare il bersaglio. Rattristato, ma anche incantato dalla maestria condivisa della loro precisione, non doveva fare altro, che raccoglierle con cura e metterle da conto nel fardello inestricabile del suo cuore.

Di lei
Ascoltava sempre il mattino prima che accadesse, quando la luce riusciva a sorprenderla un attimo prima di sopraggiungere, quando il suo sogno –che da sempre ritornava-, scompariva un’altra volta senza lasciare traccia, per poter di nuovo ritornare a specchiare se stessa e altro ancora nella distanza incerta delle cose, la più indecifrabile, per lei: le cose che le appartenevano.

Di lui
C’erano labili suoni, accenti, note sparse, frammenti appena percepibili che lui udiva, trasmessi dagli sguardi incrociati per caso, dallo scarto improvviso tra l’intenzione di un gesto e il suo compiersi, come nella migrazione anomala di un bacio che si fa carezza…La sinfonia di tutti gli istanti cruciali che si perdono nel contrappunto delle note imprecise e fatali della disattenzione.

Di lei
Il suo gioco preferito, da bambina, era nascondersi. Si rintanava per ore negli anfratti più impervi e inaccessibili della sua fantasia, (sotto al letto, negli armadi, dietro al divano) o in quelli che desiderava immaginare ancora “più sicuri” (seduta in solitudine). Riuscire a trovarla era impossibile…Una volta appena, la madre l’aveva sorpresa in uno di questi “nascondigli inaccessibili”,(in giardino le si era seduta accanto, accarezzandola). In giardino, da allora, pur incontrandola spesso, non l’aveva più vista…

Di lui
Non ricordava come fosse accaduto…il vetro rifletteva la stessa concentrazione di vuoto di sempre. Appena una svista, una vaga impressione di ombra sfuggente frammista a suono…gli era parsa. Una variazione impercettibile della luminosità sonora che accompagnava la torsione lenta del suo corpo in procinto di svanire. Scomparire per sempre nella congettura infinita di un’assenza irrevocabile.

bach1962
daunfiore

(c)

E ti scorgo distratta

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E ti scorgo distratta
Col tuo passo convulso
Che è già tardi se parti
E non sai se ritorni
Io mi aggiro tuttora
Nei quartieri più ignoti
Per i vicoli angusti
Dileguati di gente
Mi parlavi rapita
Del tuo mondo incantato
Dei tuoi sogni assillanti
Per poterli ignorare
E già solo, a ogni passo,
Mi vedevo passare
Ti abbracciavo più stretta
Per poterti lasciare
Ti guardavo più spesso
Per poterti scordare
Com’è andato il tuo viaggio?
Io son qui che mi aspetto
Ho cambiato altri luoghi
E lavori e altre stanze
E ho sorrisi più inermi
Solitudini rare
Corri dietro ad un bimbo?
Ad un uomo più saldo?
E del nostro racconto
Ti sovviene ogni tanto
Seppur vaga, la trama?

(c)

Il tempo fermo degli dei

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Il vento soffia ostinato
Su quest’isola arcaica
Intrisa di miti e sassi
Lambita da un mare burrascoso
Che non si lascia interrogare
Tacciono gli antichi dei
Precipitati dai loro effimeri carri alati
Nel vortice frastornante
Di una sgraziata modernità
Aviotrasportata
Altre genti altri idiomi
Giungono ad affollare
Le invisibili strade
Occultate sotto spessi strati
Di bazar sedimentati
Archeologia liquida
La distrofia del tempo fermo
Che stenta a camminare.

Kremasti, Lalissos, Rodi 5-10 settembre 2017

(c)

Ho provato da sempre un piacere segreto nel parlare a me stesso…

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Ho provato da sempre un piacere segreto nel parlare a me stesso…
Passeggiare da solo, per strada, distratto ed immerso nei miei ameni pensieri, oppure intento a scrutare il paesaggio su cui posa il mio sguardo.
Guardo spesso i semplici oggetti e mi piace sorprenderli nella loro abitudine consueta o godere del piacevole gioco d’ingannarne l’aspetto, trasformandoli in rarissime cose mai viste.
Un tempo m’incantavano i visi degli altri…
Ora più non mi accade, perché forse è mutato lo sguardo, che è lo specchio dell’anima e sempre più spesso riflette, di sé, solamente, un’assenza diffusa …o forse son io che non so più guardare.
Un tempo ci perdevo le ore a inseguire gli sguardi. Mi piaceva fissare le linee dei volti, non solo di quelli più belli, ma di tutti, perché ogni volto nasconde nei tratti una storia.
Ogni ruga è una traccia…ogni traccia è un racconto.
Ci son visi che celano storie infinite, molti altri nessuna…ma anche questa è una storia.
A volte sembra che i visi mi parlino, più di quanto san fare le stesse persone con i loro discorsi.
La parola ci occulta, mentre il corpo ci svela…
A Venezia ci torno, ogni tanto e non so dirne il motivo. Ci son luoghi, che ad un certo momento il richiamo mi prende, mi costringe a incontrarli di nuovo.
Per me è come averli vissuti in un altro frangente e li riconosco…come i visi, gli accenti, la grazia dei corpi gentili, le movenze armoniose che io sento di avere intravisto; persone con le quali ho vissuto in un altro momento e non so riconoscerle, ma delle quali posseggo un’istintiva memoria.
A Venezia come a Genova ci torno per questo, per poterle incontrare, aggirarmi in quei luoghi che un tempo devono avermi visto passare…Io che vengo dal Sud, dove l’acqua è soltanto un miraggio…Così come lungo il delta del Po, che ho scoperto “per caso” …Ritrovati come luoghi “familiari” del cuore.

(c)