
Edward Hopper, Man in a Small City
Ebbene, con buona pace del dottor Gómez, e del frivolo lettore che predilige aneddoti e intrecci, comincerò proprio con una dissertazione filosofica del tutto necessaria per capire qualcosa del mio modo di pensare, di sentire e di essere, e che può risultare utile per chi la leggerà con attenzione. Nel corso della vita ho ricevuto innumerevoli offese. Qui il lettore più sfrontato dirà: «Be’, come tutti». Falso. Io ho subito più offese di quasi chiunque altro al mondo. So che in molti non vi danno importanza, che le perdonano, o perfino le dimenticano, almeno stando a quel che dicono, e addirittura se ne vantano, e continuano pure a essere buoni amici di chi li ha offesi. A me non succede, e certo non dimentico le offese subite. Anche se ci provassi, come potrei espellerle dalla memoria? Fare come se non fossero mai esistite? Al massimo, si può fingere che non siano esistite, ma in alcun modo è possibile cancellarle dal passato. Ciò che è accaduto è sempre irrimediabile, non c’è modo di annullarlo. Solo i tiranni più potenti sono riusciti a correggere il passato a loro piacimento, ma alla fine la verità dei fatti, inesorabile, si è sempre imposta su ogni cosa.
I predicatori dell’oblio e del perdono sono soliti sostenere che la maggior parte di tali offese sia il prodotto momentaneo di un offuscamento o della rabbia, sfoghi fortuiti, scatti impensati, e che bastino le scuse per assolvere il responsabile. Non dico che a volte non sia così, ma credo piuttosto che chi offende lo faccia dal profondo di una convinzione in precedenza repressa dalle norme sociali, oltre che dall’interesse, dalla paura e dalla finzione. Forse solo in quel momento di perdita del controllo la persona ha osato finalmente essere sincera e dire ciò che pensa. Nessuno si inventa un’offesa dal nulla. Se qualcuno ti dice: «Lei è uno stupido, un incompetente, un superbo», è molto probabile che sia perché lo crede davvero, non solo in quell’istante ma anche in momenti di maggior calma e moderazione. Perciò, per prudenza e amore della verità, è bene non dimenticare mai le offese. Gli altri si conoscono meglio e più a fondo nei loro attimi di rabbia e di smarrimento, proprio come gli psichiatri analizzano i sogni, per bizzarri che siano, per trovarvi le verità più nascoste del cuore. Allo stesso modo, occorre attribuire alle offese una certa verosimiglianza, per capricciose che paiano, poiché sono sempre in grado di rivelare parte di ciò che è nascosto e proibito. Spesso la verità si trova nell’irrazionale.
Quanto alle scuse come riparazione delle offese, il loro potere è più che problematico. Sebbene le scuse vengano fatte in pubblico, come è d’obbligo, si tratta pur sempre di una convenzione, di una formula dalla sostanza squisitamente protocollare. Le scuse non hanno un valore perché sono sincere, ma perché sono pubbliche. Più che un rimedio per l’offeso sono una punizione per chi offende. Per questo, tra la falsità da una parte e la leggerezza della punizione dall’altra, le scuse vengono sempre accettate a malincuore, come un male minore. E questo perché il pentimento arriva a freddo e si può fingere, mentre l’impulso rabbioso, frutto di un’esplosione spontanea dell’anima, non ammette simulacri. Credo più in un impetuoso slancio di coraggio che in un pentimento calcolato e tardivo. In ogni caso, e nonostante non vi sia scusa che non lasci dietro di sé l’ombra del dubbio, le scuse sono uno strumento sociale, assai rozzo del resto, che non serve a curare il dolore, al massimo a mitigarlo.
Si dice anche che i piccoli sgarbi siano inevitabili nei rapporti sociali, e che proprio per questo vadano concessi. A ciò si potrebbe ribattere che non sono affatto inevitabili, o almeno non quanto sembra. Io, per esempio, non ho mai offeso nessuno. E non perché non ne avessi voglia o ragioni. Ma ho sempre tenuto tutto per me. Sono sempre stato capace di zittirmi in tempo. Forse perché so fino a che punto le offese possano lacerare e corrodere dolorosamente un’anima sensibile. Per questo sto molto attento ai miei rapporti con il prossimo. E non perché io sia al riparo dalle passioni, da impulsi distruttivi, da un rancore vendicativo, ma perché mi trattengo e so conservare la mia furia per un altro momento. La conservo lì, intatta per quando si presenterà l’occasione. Ripeto: la conservo lì, intatta per quando si presenterà l’occasione.