Annie Ernaux, scrittrice da Nobel

Intervista a Annie Ernaux | Mangialibri dal 2005 mai una dieta

All’ottantaduenne Annie Ernaux il premio Nobel per la Letteratura 2022 con la seguente motivazione: “Per il coraggio e l’acutezza clinica con cui ha svelato le radici, gli straniamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”. Congratulazioni. Non solo per la scrittura felice, ma anche per aver avuto la meglio su due ossi duri come Houellebecq e Rushdie.

Vent’anni fa mi è capitato di fare la spesa a Košice, in Slovacchia, in un supermercato inaugurato da poco. Era il primo della città ad aver aperto dopo la caduta del regime comunista. Non so se dovesse il suo nome, Prior, a questo primato. Sulla porta d’entrata un commesso metteva un cestino nelle mani dei clienti, perplessi. Al centro, appollaiata su una piattaforma ad almeno quattro metri di altezza, una donna sorvegliava i comportamenti e le azioni delle persone che vagavano tra gli scaffali. Ogni loro singolo gesto indicava una diffusa mancanza di dimestichezza con il sistema del self-service. Tutti si soffermavano a lungo davanti ai prodotti, senza toccarli, oppure lo facevano esitando, con grande cautela, per poi tornare indecisi sui propri passi, in un impercettibile fluttuare di corpi avventuratisi in territori sconosciuti.­ Era un apprendistato alla vita dei supermercati e alle sue regole, regole che la direzione del Prior – con il suo cestino obbligatorio e la sua incombente sentinella – imponeva senza andare troppo per il sottile. Ero turbata dallo spettacolo in presa diretta di quell’ingresso collettivo nel mondo dei consumi“.

da Guarda le luci, amore mio

È una foto color seppia, ovale, incollata sul cartone ingiallito di un libretto, mostra un neonato di tre quarti seduto in equilibrio su cuscini decorati, sovrapposti. Ha indosso un camicino ricamato, chiuso da una sola asola a cordoncino, ampio, con un fiocco fissato poco dietro la spalla, come un grosso fiore o le ali di una farfalla gigante. Un bebè magrolino, lungo lungo, con le gambe aperte, tese, che arrivano a toccare il piano del tavolo. Arrotolato sulla fronte bombata ha un boccolo di capelli scuri, sgrana gli occhi con un’intensità quasi divorante. Sembra agitare le braccia, spalancate come quelle di un bambolotto. Si direbbe che stia per tirarsi su. In calce alla foto, la firma del fotografo – M. Ridel, Lillebonne –, le cui iniziali intrecciate ornano anche l’angolo in alto a sinistra della copertina, molto sporca e mezzo sfaldata.

Quando ero piccola credevo si trattasse di me, doveva avermelo detto qualcuno. Non sono io, sei tu.

Eppure c’era un’altra mia foto, scattata dallo stesso fotografo, sullo stesso tavolo, i capelli scuri pettinati alla stessa maniera, nella quale però apparivo grassottella, con gli occhi incassati in una faccia rotonda, una mano tra le cosce. Non ricordo di essermi interrogata, all’epoca, sulla differenza pur lampante tra le due fotografie”.

da L’altra figlia

E infine…

Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri, dal loro modo di parlare, accavallare le gambe, accendere una sigaretta. Invischiati nella presenza degli altri. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose. Sono sempre in ritardo sull’Altro, sulla sua volontà costantemente avanti di una mossa. Una volontà che non raggiungono mai.

    

Né sottomissione né consenso, soltanto lo sconcerto del reale che permette giusto di dirsi «cosa mi sta succedendo?» o «è a me che sta succedendo?», se non fosse che un me, un io, in questa circostanza non c’è più, o non è già più lo stesso. C’è soltanto l’Altro, padrone della situazione, dei gesti, del momento successivo, che è l’unico a conoscere.

    

Poi l’Altro se ne va, hai smesso di piacergli, non ti trova più di suo interesse. Ti abbandona con il reale, ad esempio un paio di mutandine macchiate. Ormai bada soltanto al suo tempo. Resti solo con quella che, di già, è diventata la tua abitudine di ubbidire. Solo in un tempo senza padrone.

    

Allora altri hanno buon gioco a circuirti, a precipitarsi nel tuo vuoto, non rifiuti loro niente, li senti appena. Aspetti il Padrone, che ti faccia la grazia di toccarti almeno una volta. Lo fa, una notte, ed esercita su di te quei pieni poteri che tutto il tuo essere ha supplicato di concedergli. Poi se ne va, il giorno dopo non c’è più. Non importa, la speranza di ritrovarlo è diventata la tua ragione di vivere, vestirti, farti una cultura, passare gli esami. Ritornerà, e sarai degno di lui, anzi meglio, lo abbaglierai con la tua nuova bellezza, cultura, autostima, la differenza tra te e l’individuo indistinto che eri un tempo.

    

Tutto ciò che fai è per il Padrone che ti sei dato in segreto. Ma, senza accorgertene, lavorando per aumentare il tuo valore, ti allontani inesorabilmente da lui. Prendi coscienza della tua follia, non lo vuoi vedere mai più. Ti giuri di dimenticare tutto, di non parlarne mai a nessuno.

da Memoria di ragazza