IL CONTABILE DI ENRICO MACCIO’

SCRITTO PER L’ANNIVERSARIO DEL 25 APRILE 2018

Il contabile della viteria di Sarissola della quale era titolare Enrico Macciò si apprestava ad attraversare di fretta il ponte sullo Scrivia, una gelida mattina di uno dei primi giorni di dicembre dell’anno 1940, diretto alla Stazione Ferroviaria di Busalla. Prima di imboccare il ponte, con la mano libera, l’altra reggeva una cartella di cuoio piuttosto consunta, si era tolto il capello per salutare Francesco Macciò, cugino del suo datore di lavoro, fermo sul portone del suo magazzino di rivendita di ferro, proprio dove si concludeva via Navone, anche quella mattina in attesa che ritornasse dal giro obbligato con Tom, il grosso cane boxer, Giuan U Quaranta incaricato delle spedizioni di ferro dalla Piccola Velocità Ferroviaria. Un forte vento di mare accompagnava una burrasca già nelle prime ore di quella mattina tardo autunnale, ma non nevicava. Il contabile sarebbe volentieri rimasto in fabbrica, vicino alla stufa, che le cose da verificare erano parecchie, ma il Signor Macciò doveva far avere certe carte ad un particolare indirizzo di Sampierdarena, proprio vicino al palazzo comunale, scritto su un foglietto a parte dal titolare. Non fu un trasferimento facile, a metà del ponte una anomala folata di vento gli sradicò il cappello dalla testa pelata, il cappello volò via e miracolosamente non finì nello Scrivia. Il contabile arrivò trafelato all’altezza dell’antica farmacia Lasagna, salutò il Dottor Pino e si apprestò all’ultimo sforzo per raggiungere la Stazione. I treni andavano in perfetto orario, non si poteva fare affidamento su ritardi dovuti alla neve  e al vento. E poi c’era l’incarico fiduciario della busta da recapitare che il contabile intuiva contenesse documenti estranei alla vita dell’opificio del quale lui era fidato dipendente da diversi anni.

Del frequente passaggio del contabile di Enrico Macciò di fronte al magazzeno del ferro e del cordiale scambio di saluti succedeva che Francesco Macciò riferisse casualmente in casa, durante le pause e al momento del pranzo. In famiglia tra l’ altro tutti avevano, secondo una costante tradizione orale, considerato che Enrico Macciò fosse il loro cugino o, per meglio dire, il cugino di tutti i i figli di Giacinto Macciò nato il 23/2/1852 a Masone, da Macciò Giobatta e Macciò M. Caterina, come il fratello Benedetto Giuseppe nato il 30/4/1848, anche lui a Masone, abitando la famiglia nel quartiere “Autra di qua” del paese, prima che si trasferisse a Busalla, lui chiodando, lei filatrice, come risulta da preziose notazioni di un Frate a favore dell’archivio del Comune di Masone e da quest’ultimo rese adesso disponibili per una puntuale verifica. Viene confermato che il trasferimento a Busalla dell’intera  famiglia Macciò Giobatta (7 figli dei quali 2 morti in età infantile) venne dettato dalle difficili condizioni di vita e dalla speranza di dare più proficuamente il via alla realizzazione di attività imprenditoriali nella lavorazione e nel commercio di materiali ferrosi. Poi cresciute entrambe in modo esponenziale nel periodo della prima guerra mondiale e dopo di essa a seguito del loro coinvolgimento in forniture per l’esercito prima e nella disponibilità di acquistare materiale da convertire ad usi privati poi.

Benedetto Giuseppe e Giacinto Macciò erano dunque due fratelli, personaggi cruciali per la definizione dei rapporti di parentela, e non solo di quelli, dei quali si occupa, con impegno e con ricchezza di interviste, il bel libro <Il padrone sovversivo> edito Sagep 2014 ( Autori: Mauro Valerio Pastorino- Lorenzo Torre-Giovanni Traverso). E’ appena il caso di notare che Giacinto Macciò ( dal quale nacquero 4 figli: Giovanni Battista- Giacinto- Caterina- Benedetto Francesco),  morto a Busalla il 7/3/1928, coltivava in vita larghissimi rapporti commerciali, tanto da possedere l’ abbonamento Ferroviario per tutta la Rete Italiana e risultare, senza che l’Ufficio archivio e stradario del Comune oggi lo sappia, intestatario di una via a Sarissola per riconosciuti meriti di benefattore. Del resto anche Benedetto Macciò e lo stesso Giacinto non dimenticarono il paese di origine, tanto che anche a Masone due strade ricordano la generosità verso i più sfortunati dei due fratelli che a Busalla avevano trovato lavoro, fortuna e costituite nuove famiglie.

Di Enrico Macciò, rispetto al quale tutte le considerazioni svolte intorno alla sua genealogia sembrano rilevanti per conoscere le radici sostanzialmente umili della sua provenienza, le attitudini, le inclinazioni, si sono invece occupati storici, politici per illustrare la sua complessa personalità, per capire fino in fondo le scelte fatte a sostegno di una parte sociale che poteva apparire estranea al suo mondo, per le amicizie coltivate pericolosamente durante il Regime Fascista e per le sue iniziative sovversive durante la Lotta di Liberazione sino alla sua improvvisa deportazione nel campo di Bolzano e poi in quello di sterminio di Mauthausen, sino alla sua morte sopraggiunta nel 1945 in modo drammatico.  Di Lui si conoscono oggi molti particolari della sua vita, dei suoi gusti, delle sue frequentazioni, delle sue amicizie formative di una coscienza addirittura rivoluzionaria così lontana dal mondo imprenditoriale e borghese di allora. E’ sembrato di poter fare ancora un modesto servizio alla memoria di Enrico Macciò  volgendo lo sguardo alle sue origini, a talune vicende e a qualche interrogativo sorto in ordine alla sua parentela e a presunte responsabilità sulla sua cattura, da parte sella Milizia Fascista,  a dicembre del 1944. Tra l’altro dal 1945, anno della morte di Enrico Macciò, sino agli anni ottanta del secolo scorso,nella Villa, di proprietà dell’imprenditore sino all’ apertura della successione, era rimasta la vedova Signora Adalgisa Repetto, circondata dall’affetto dei suoi parenti. La Villa rappresentava una specie di scrigno ancora da aprire per conoscere meglio il proprietario morto eroe della Resistenza.

Successivamente all’acquisto della Villa di Enrico Macciò da parte del Comune di Busalla,  si volse prioritaria attenzione al recupero strutturale della Villa stessa, confidando su uno scrupoloso esame già effettuato di ciò che il particolare de cuius aveva lasciato e che andava attentamente esaminato. Chi cedeva la proprietà al Comune era la figlia della sorella della Signora  Adalgisa Repetto, moglie e vedova di Enrico, ossia la cortese Signora Sara Pertile Costaguta, affine di Enrico Macciò. Tanto più che Enrico Macciò, non avendo avuto figli, essendo presumibilmente morto senza aver predisposto un testamento, e non essendovi legittimari, i suoi beni, mobili e immobili, andarono alla vedova Adalgisa Repetto, compresi tutti i documenti esistenti nella Villa di cui l’erede e i suoi famigliari ebbero completo ed esclusivo dominio, ben prima che il Comune di Busalla acquistasse l’immobile dagli eredi e anche prima che qualcuno vi corresse con encomiabile spirito di ricercatore storico. Per giustificare, semmai ve ne fosse il bisogno, la circostanza dell’ assenza di un testamento, per esempio olografo, si deve riconoscere che il carattere di Enrico Macciò era sostanzialmente volto “all’ottimismo della volontà” e che,  malgrado Egli svolgesse pericolosa attività contraria al Regime, niente lo frenava dall’assumersi rischi crescenti senza pensare che la sua vita potesse spezzarsi di colpo. Quella casa era stata, è noto e documentato, un importante centro di attività clandestina e sovversiva, Enrico vivente, soggetta forse al discreto controllo della Polizia Fascista, e malgrado il costante pericolo, dedita, soprattutto dopo il settembre del 1943 al sostegno fattivo delle Bande Partigiane in montagna. Ma anche luogo discreto e generoso di accoglienza di personaggi antifascisti ricercati dalla Milizia Fascista

Ricorda queste semplici notizie il bollettino del “Ventennale della Liberazione 1945-1965” assieme alla testimonianza del poeta intellettuale Sem Benelli, poi ripresa dal citato volume <Il Padrone sovversivo>  assieme ad altre, con lucidità e ricchezza di elementi, per tentare di penetrare nell’intimo di Enrico Macciò , di capirne la profondità e la sincerità della dedizione alla causa del Partito.  Chi trovò dimora nella Villa dell’antifascista industriale busallese lo descrive in definitiva come uomo dal portamento ardito, avventuroso, buono, cavalleresco.

Macciò Enrico nacque a Busalla il 13 novembre 1883 da Macciò Benedetto Giuseppe e Morotino Luigia, avendo come fratelli Macciò Gisberto e Macciò Riccardo. Zio di Enrico era Macciò Giacinto, coniugato con Maria Vittoria Martignone, cugini tutti i figli nati da questo matrimonio e i loro discendenti diretti, in un rapporto di legale parentela. Non se ne tenne conto da parte del Comitato 50° della Liberazione quando il 25 aprile 1995 venne con grande ufficialità affissa una bianca lapide marmorea (e quasi parlante) nelle mura dell’Industria Bundy (ora T.I. Automotive) dove un tempo ormai lontano aveva sede la viteria di Enrico Macciò, dalla quale prendeva le mosse il contabile dell’opificio quando andava svelto alla Stazione Ferroviaria di Busalla per assolvere gli incarichi ricevuti dal suo titolare. Tra l’altro non sembra aver avuto alcun rilievo, e non doveva comunque averlo, al riguardo la circostanza della quale si è sentito parlare di un parente che avrebbe seri dubbi sull’antifascismo di Enrico Macciò, propendendo, costui, per un doppio gioco del Macciò, che per altro lo portò dritto allo stabilimento di Mauthausen, come non si voleva dimostrare! Del resto, gli autori del corposo e pregevole <Il Padrone sovversivo>, pur avvicinandosi, attraverso una penetrante ricerca, con interviste di notevole interesse come quella alla Signora Martelli, amica di Olga Tavazza, moglie di Benito Macciò, Signora ora novantenne residente a Roma, lucidissima nel ricordare il rispetto parentale per i figli di Giacinto da parte appunto del marito Benedetto Benito figlio di Riccardo Macciò ; oltre che per i molti amici di Busalla che capitavano ospiti negli alberghi di gran lusso da Lui diretti, sino al momento della sua morte prematura avvenuta nel 1979 a Roma.

Le genuine testimonianze di un gentiluomo come Benito Macciò, che aveva larga conoscenza del mondo, ma che era rimasto legato al suo Paese, alle sue radici rendono rendono tra l’altro evidente il perché la Signora Adalgisa Repetto vedova di Enrico Macciò lo avesse sempre chiamato appropriatamente “caro nipote”.

Scritto con la disponibilità Ufficio Archivio Comune di Masone

CB

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