LETTURA: La Tragedia del Vajont raccontata da Mauro Corona

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La Tragedia del Vajont

«Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. […] Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti.»

(Marco Paolini, Il racconto del Vajont )

Il disastro del Vajont è stato un disastro ambientale ed umano. Si è verificato la sera del 9 ottobre 1963, nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont (al confine tra Friuli e Veneto), dovuto alla caduta di una frana dal soprastante pendio del Monte Toc nelle acque del bacino alpino realizzato con l’omonima diga; la conseguente tracimazione dell’acqua contenuta nell’invaso, con effetto di dilavamento delle sponde del lago, coinvolse prima Erto e Casso, paesi vicini alla riva del lago dopo la costruzione della diga, mentre il superamento della diga da parte dell’onda generata provocò l’inondazione e la distruzione degli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone, e la morte di 1917 persone.

Le cause della tragedia, dopo numerosi dibattiti, processi e opere di letteratura, furono ricondotte ai progettisti e dirigenti della SADE, ente gestore dell’opera fino alla nazionalizzazione, i quali occultarono la non idoneità dei versanti del bacino. Dopo la costruzione della diga si scoprì che i versanti avevano caratteristiche morfologiche (incoerenza e fragilità) tali da non renderli adatti ad essere lambiti da un serbatoio idroelettrico. Nel corso degli anni l’ente gestore e i suoi dirigenti, pur essendo a conoscenza della pericolosità, anche se supposta inferiore a quella effettivamente rivelatasi, coprirono con dolosità i dati a loro disposizione, con beneplacito di vari enti a carattere locale e nazionale, dai piccoli comuni interessati fino al Ministero dei lavori pubblici. ( Wikipedia )

Mauro Corona: «Una mano assassina lanciò il sasso che distrusse la mia Erto»

All’epoca Mauro Corona aveva tredici anni e quelle preghiere della nonna, che da settimane invocava il Signore di non fare venir giù il Toc, le vedeva come una sorta di lamento scaramantico. Ma quella notte di 50 anni fa, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, nel giro di pochi secondi, ha capito che quelle proteste dei paesani, che da mesi temevano per la loro incolumità, erano drammaticamente reali.

«Il ricordo più nitido – spiega Corona – è l’enorme boato che precedette e accompagnò l’onda assassina. Basti pensare al frastuono infernale che fa un camion di ghiaia quando ribalta il cassone in un cantiere. Nel nostro caso, si rovesciarono 300 milioni di metri cubi di montagna nel lago sottostante. Ancora oggi, quando sento rumori violenti, mi scuoto e la mente torna inevitabilmente a quella notte».

«In realtà – ricorda lo scrittore -, non ci accorgemmo subito del dramma, perché un costone del monte Borgà salvò la vita di tutta la famiglia, deviando la traiettoria dell’onda, che ci scavalcò miracolosamente. E nemmeno capimmo la portata della tragedia. I vecchi ci dissero di salire verso la vetta della montagna, fino a che, raggiunto un rifugio, mi misero a dormire sopra un tavolo. Nel frattempo, un compaesano scese a controllare cosa fosse successo. Tornò ore dopo, affranto: “Non vedo le case di San Martino” annunciò, in lacrime, dopo aver ispezionato l’area con la sola fioca luce di una pila tascabile, “ma soprattutto – disse – non riesco più a scorgere le luci di Longarone”».

L’alba spalancò, agli occhi dell’allora giovanissimo Corona e dei suoi congiunti, la vastità della tragedia. «Sotto di noi era tutto di colore giallo – rammenta -, una sorta di paesaggio lunare, informe. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Furono minuti di annientamento psicologico, fino a che si udirono i rotori degli elicotteri dell’Esercito, che iniziavano ad arrivare sul fronte della frana».

Qualche ora dopo, Corona e i pochi altri superstiti vennero sfollati a Cimolais: «Fu lì che il giorno seguente, il presidente della Repubblica, Antonio Segni, mi prese in braccio visitando le popolazioni smembrate dal disastro. Fu anche l’unica volta che un Capo di Stato raggiunse Erto. Da allora, tutti si sono fermati a Longarone o alla diga, ma nessuno è venuto a vedere il paese che non c’è più, dilaniato dalla frana e dall’onda, mentre la comunità è stata divisa in due: una parte in Veneto e l’altra nella pedemontana friulana.

Assieme ai commenti fuorvianti dei grandi intellettuali dell’epoca: «Giorgio Bocca sostenne per tutta la vita la teoria della disgrazia naturale, mentre Dino Buzzati, sul Corriere della Sera, scrisse che fu come un sasso caduto in un bicchiere. No, caro maestro: quel masso non è caduto, ma l’ha lanciato la mano assassina dell’uomo, inseguendo il profitto a scapito di duemila vite umane». ( Tratto dal Gazzettino.it )

Dal libro di Mauro Corona: Vajont quelli del dopo

“Non esiste più niente della vita di un tempo. Tutte le civiltà scomparse sono state cancellate in qualche anno. La nostra in due minuti. Ci siamo ritrovati il giorno dopo a partire da zero, in altri luoghi, in altri modi, con altri tempi, usando cose che non conoscevamo. E’ stato come nascere un’altra volta. Nascere vecchi è come vivere morti. Non ci si adatta a ciò che non si conosce”.

“E’ vero, Rachele lanciò l’allarme quando vide manovre notturne. Allora ci mobilitammo tutti. Armati di bastoni e rancore, bloccammo il camion già quasi carico. Per una settimana giorno e notte a fare la guardia, con i fuochi accesi nella strada”.

“I nostri, morti non hanno tomba, sono spariti, come se non fossero nemmeno esistiti”.

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Aggiornato al 27 Novembre 2023