Storia della Rote Armee Fraktion: Ulrike Mainhof

RAF

Rote Armee Fraktion

La Rote Armee Fraktion ( Frazione dell’Armata Rossa ), abbreviata in RAF e nelle prime fasi conosciuta comunemente come Banda Baader-Meinhof, è stata uno dei gruppi terroristici di estrema sinistra più importanti e violenti nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Fondata il 14 maggio 1970 da Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Horst Mahler, fu attiva fino al 1993 e formalmente disciolta nel 1998.

La Rote Armee Fraktion fu responsabile di numerose operazioni terroristiche, specialmente nell’autunno del 1977, che portarono a una crisi nazionale conosciuta con il nome di “autunno tedesco”. È stata responsabile di 33 morti tra figure di spicco in campo politico ed economico, rispettivi autisti e guardie del corpo, poliziotti, agenti di dogana e soldati americani, nonché del sequestro e omicidio di Hanns-Martin Schleyer, oltre a diverse prese in ostaggio, rapine in banca ed attentati esplosivi con oltre 200 feriti. Per mano della polizia e dei servizi segreti tedeschi, suicidio o sciopero della fame, 24 membri e simpatizzanti della RAF furono assassinati. Anche se più conosciuta, la RAF condusse meno attacchi terroristici rispetto alle Revolutionäre Zellen ( RZ ), formazione che fu responsabile di 296 attentati fra il 1973 e il 1995.

La RAF descriveva sé stessa come un gruppo di “guerriglia urbana” comunista e anti-imperialista, sul modello dei tupamaros uruguaiani, impegnato nella resistenza armata contro quello che loro definivano uno “stato fascista” e nella rivoluzione proletaria. Perciò, i membri della RAF, quando scrivevano in inglese, generalmente usavano il termine marxista-leninista “Fazione”.

Si sono evidenziate 3 fasi storiche nell’organizzazione: la “prima generazione” di Baader e dei suoi sodali; la “seconda generazione” della RAF, che cominciò a metà anni settanta e fu caratterizzata dall’ingresso nel gruppo di elementi dell’SPK (Collettivo Socialista dei Pazienti); infine la “terza generazione” degli anni ottanta e novanta.

Il 20 aprile 1998, una lettera dattiloscritta di otto pagine in tedesco firmata RAF (e con il caratteristico simbolo della pistola mitragliatrice Heckler & Koch MP5 sopra una stella rossa) fu inviata via fax all’agenzia di stampa Reuters, dichiarando lo scioglimento del gruppo. ( Wikipedia )

ULRIKE MEINHOF, AMMUTINAMENTO – SAVELLI

Ulrike Marie Meinhof ( Oldenburg, 7 ottobre 1934 – Stoccarda, 9 maggio 1976) è stata una giornalista, terrorista e rivoluzionaria tedesca, cofondatrice del gruppo armato tedesco-occidentale di estrema sinistra Rote Armee Fraktion, meglio noto come “R.A.F.” e conosciuto dalla stampa anche come Banda Baader-Meinhof.

All’inizio fu giornalista militante della sinistra radicale tedesco-occidentale, ed ebbe numerosi e fervidi contatti con membri dell’intellighenzia letteraria tedesca, tra cui Heinrich Böll, che scrisse un articolo su di lei[1], Hans Mayer e Marcel Reich-Ranicki. Fu coinvolta anche nel movimento anti-nucleare e fu editrice del giornale radicale konkret.

Nel 1961 sposò Klaus Rainer Röhl, giornalista ed editore del giornale comunista konkret, in cui lavorava la Meinhof, dal quale ebbe due figlie, le gemelle Bettina e Regine. Nel 1968 divorziò dal marito e aumentò il proprio impegno politico, venendo coinvolta in gruppi estremisti con base a Berlino Ovest, e maturando un senso sempre maggiore di frustrazione per l’inerzia e la poca forza ribelle dei gruppi radicali e della sinistra. Il 14 maggio 1970 aiutò il terrorista e rapinatore Andreas Baader a evadere dalla prigione, in quella che venne considerata la sua prima azione e l’inizio della Rote Armee Fraktion (RAF).

Dopo l’ evasione di Baader, Ulrike Meinhof si diede alla clandestinità insieme ad altri estremisti, dando vita al gruppo che venne ribattezzato dalla stampa tedesca “Banda Baader-Meinhof”.

Unita al gruppo di fuoco della RAF, Ulrike trascorse un periodo in Giordania per essere addestrata all’uso delle armi. Dopo il rientro in Patria, il gruppo effettuò furti e attentati a impianti industriali e basi militari statunitensi, nei quali rimasero uccise varie persone. Durante la clandestinità Ulrike Meinhof elaborò ciò che divenne il documento programmatico della RAF: ella infatti scrisse molti dei trattati e dei manifesti che il gruppo produsse, incluso quello sul concetto di guerriglia urbana, descrivendo quello che chiamava sfruttamento dell’uomo comune da parte dell’imperialismo dei sistemi capitalisti. ( Wikipedia )

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Victor Hugo: I miserabili nella Francia dell’Ottocento

 

VICTOR HUGO

Victor-Marie Hugo, più comunemente noto come Victor Hugo ( Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885 ) è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e politico francese, considerato il padre del Romanticismo in Francia. Si cimentò in numerosi campi, divenendo noto anche come saggista, aforista, artista visivo, statista e attivista per i diritti umani.

Tra i principali teorici ed esponenti principali del movimento letterario romantico, seppe tenersi lontano dai modelli malinconici e solitari che caratterizzavano i poeti del tempo, riuscendo ad accettare le vicissitudini non sempre felici della sua vita ( dei quattro figli che giunsero all’età adulta, tre moriranno prima di lui, mentre la figlia Adèle finirà ricoverata in manicomio ) per farne esperienza esistenziale e cogliere i valori e le sfumature dell’animo umano.

I suoi scritti giunsero a ricoprire tutti i generi letterari, dalla poesia lirica al dramma, dalla satira politica al romanzo storico e sociale, suscitando consensi in tutta Europa.

I Miserabili di Victor Hugo 

I miserabili è un romanzo storico di Victor Hugo, pubblicato nel 1862 e considerato uno dei più eccelsi romanzi del XIX secolo europeo, fra i più popolari e letti dell’epoca. Suddiviso in 5 volumi, il libro è ambientato in un arco temporale che va dal 1815 al 1832, dalla Francia della Restaurazione postnapoleonica alla rivolta antimonarchica del giugno 1832, narrando le vicende di numerosi personaggi: in particolare la vita dell’ex galeotto Jean Valjean e le sue lotte per la redenzione. 20 anni di storia francese, con digressioni sulle vicende della Rivoluzione francese, sulle Guerre napoleoniche – in particolare la battaglia di Waterloo – fino alla Monarchia di luglio.

I suoi personaggi appartengono agli strati più bassi della società francese dell’Ottocento, i cosiddetti “miserabili” – persone cadute in miseria, ex forzati, prostitute, monelli di strada, studenti in povertà… – la cui condizione non era mutata né con la Rivoluzione né con Napoleone, o Luigi XVIII. È una storia di cadute e di risalite, di peccati e di redenzione. Hugo santifica una plebe perseguitata, ma intimamente innocente e generosa; la legge, che dovrebbe combattere il male, spesso lo incarna, come l’inesorabile personaggio di Javert. Il grande eroe è il popolo, rappresentato da Jean Valjean, fondamentalmente buono e ingiustamente condannato per un reato insignificante. Hugo riassunse così l’opera: «Il destino e in particolare la vita, il tempo e in particolare il secolo, l’uomo e in particolare il popolo, Dio e in particolare il mondo, ecco quello che ho cercato di mettere in quel libro». Nel racconto fluviale ci sono descrizioni e giudizi di grande rilevanza storica, permettendo di collocare i personaggi nel loro contesto storico-sociale: la battaglia di Waterloo, l’architettura della città di Parigi, la visione sul clero e i monasteri dell’epoca, le opinioni sulla società e i suoi mali, il quadro plumbeo della Francia della Restaurazione. ( Wikipedia )

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Storia della Letteratura Italiana

Dante

La Storia della Letteratura Italiana fu pubblicata la prima volta nel 1870 in due volumi

Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo ( diminutivo di Vincenzo ) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena. Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un’epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome. Federico secondo, imperatore d’Alemagna e re di Sicilia, chiamato da Dante “cherico grande”, cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo signore, nella cui corte a Palermo venia “la gente che avea bontade, sonatori, trovato ri e belli favellatori”. E perciò i rimatori di quel tempo, ancorchè parecchi sieno d’altra parte d’Italia, furono detti siciliani. Che cosa è la cantilena di Ciullo? È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt’i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia.

Gli storici della letteratura individuano l’inizio della tradizione letteraria in lingua italiana nella prima metà del XIII secolo con la scuola siciliana di Federico II di Svevia, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, anche se il primo documento letterario è considerato il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. In Sicilia, a partire dal terzo decennio del XIII secolo, sotto il patrocinio di Federico II si era venuto a formare un ambiente di intensa attività culturale. Queste condizioni crearono i presupposti per il primo tentativo organizzato di una produzione poetica in volgare romanzo, il siciliano, che va sotto il nome di “scuola siciliana” (così definita da Dante nel suo “De vulgari Eloquentia”). Tale produzione uscì poi dai confini siciliani per giungere ai comuni toscani e a Bologna e qui i componimenti presero ad essere tradotti e la diffusione del messaggio poetico divenne per molto tempo il dovere di una sempre più nota autorità comunale.

Quando la Sicilia passò il testimone ai poeti toscani, coloro che scrivevano d’amore vi associarono, seppure in maniera fresca e nuova, i contenuti filosofici e retorici assimilati nelle prime grandi università, prima di tutto quella di Bologna. I primi poeti italiani provenivano dunque da un alto livello sociale e furono soprattutto notai e dottori in legge che arricchirono il nuovo volgare dell’eleganza del periodare latino che conoscevano molto bene attraverso lo studio di grandi poeti latini come Ovidio, Virgilio, Lucano. Ciò che infatti ci permette di parlare di una letteratura italiana è la lingua, e la consapevolezza nella popolazione italiana di parlare una lingua, che pur nata verso il X secolo si emancipa completamente dalla promiscuità col latino solo nel XIII secolo. ( Tratto da Wikipedia )

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AGGIORNATO 28 Novembre 2023

 

Tombe principesche nel Lazio

Tomba principesca

TOMBE PRINCIPESCHE

1. L’archeologia della morte e le società medio-tirreniche tra la prima etá del ferro e l’etá orientalizzante; 2. Definizione dei limiti cronologici della ricerca. le sepolture principesche nel Latium Vetus: un fenomeno ancora vivacemente discusso; 3. Le sepolture principesche nel Latium Vetus ed il loro contesto: presentazione dei dati; 4. Le sepolture principesche nel Latium Vetus: sintesi dell’ evidenza archeologica e prima interpretazione dei dati raccolti

Dato che gli Etruschi pensavano a una vita oltre la morte del defunto, la tomba era concepita come una nuova casa, dotata di un corredo di abiti, di ornamenti, di oggetti d’uso quotidiano, e, insieme, di una scorta di cibi e bevande di cui egli si sarebbe servito. Il resto era un arricchimento e poteva variare a seconda del rango sociale del defunto e delle possibilità economiche degli eredi, e anche in relazione alle usanze e alle mode dei luoghi e dei tempi[1]. Si poteva così modellare la tomba nell’aspetto sia pure parziale o soltanto allusivo della casa, e dotarla di suppellettili[2], arredi, e magari affrescarla sulle pareti con scene della vita quotidiana o dei suoi momenti più significativi

A differenza dei Romani, che esibivano le loro tombe ai margini delle vie consolari, gli Etruschi, costruivano i loro edifici funebri sotto terra o, se in superficie, li celavano alla vista ricoprendoli di tumuli di terra. Le tombe generalmente erano poste in aree, necropoli, al di fuori delle cinte murarie delle città. La tomba etrusca da inumazione, tendeva a riprodurre l’abitazione del defunto fin nei minimi particolari, compreso l’arredamento interno, mentre le più antiche urne cinerarie, erano spesso costruite in forma di capanna], con pali in legno e tetto di paglia volto a ricreare uno stretto rapporto con la dimora del morto. ( Wikipedia )

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Aggiornato al 28 Novembre 2023

 

LETTURA: La Tragedia del Vajont raccontata da Mauro Corona

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La Tragedia del Vajont

«Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. […] Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti.»

(Marco Paolini, Il racconto del Vajont )

Il disastro del Vajont è stato un disastro ambientale ed umano. Si è verificato la sera del 9 ottobre 1963, nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont (al confine tra Friuli e Veneto), dovuto alla caduta di una frana dal soprastante pendio del Monte Toc nelle acque del bacino alpino realizzato con l’omonima diga; la conseguente tracimazione dell’acqua contenuta nell’invaso, con effetto di dilavamento delle sponde del lago, coinvolse prima Erto e Casso, paesi vicini alla riva del lago dopo la costruzione della diga, mentre il superamento della diga da parte dell’onda generata provocò l’inondazione e la distruzione degli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone, e la morte di 1917 persone.

Le cause della tragedia, dopo numerosi dibattiti, processi e opere di letteratura, furono ricondotte ai progettisti e dirigenti della SADE, ente gestore dell’opera fino alla nazionalizzazione, i quali occultarono la non idoneità dei versanti del bacino. Dopo la costruzione della diga si scoprì che i versanti avevano caratteristiche morfologiche (incoerenza e fragilità) tali da non renderli adatti ad essere lambiti da un serbatoio idroelettrico. Nel corso degli anni l’ente gestore e i suoi dirigenti, pur essendo a conoscenza della pericolosità, anche se supposta inferiore a quella effettivamente rivelatasi, coprirono con dolosità i dati a loro disposizione, con beneplacito di vari enti a carattere locale e nazionale, dai piccoli comuni interessati fino al Ministero dei lavori pubblici. ( Wikipedia )

Mauro Corona: «Una mano assassina lanciò il sasso che distrusse la mia Erto»

All’epoca Mauro Corona aveva tredici anni e quelle preghiere della nonna, che da settimane invocava il Signore di non fare venir giù il Toc, le vedeva come una sorta di lamento scaramantico. Ma quella notte di 50 anni fa, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, nel giro di pochi secondi, ha capito che quelle proteste dei paesani, che da mesi temevano per la loro incolumità, erano drammaticamente reali.

«Il ricordo più nitido – spiega Corona – è l’enorme boato che precedette e accompagnò l’onda assassina. Basti pensare al frastuono infernale che fa un camion di ghiaia quando ribalta il cassone in un cantiere. Nel nostro caso, si rovesciarono 300 milioni di metri cubi di montagna nel lago sottostante. Ancora oggi, quando sento rumori violenti, mi scuoto e la mente torna inevitabilmente a quella notte».

«In realtà – ricorda lo scrittore -, non ci accorgemmo subito del dramma, perché un costone del monte Borgà salvò la vita di tutta la famiglia, deviando la traiettoria dell’onda, che ci scavalcò miracolosamente. E nemmeno capimmo la portata della tragedia. I vecchi ci dissero di salire verso la vetta della montagna, fino a che, raggiunto un rifugio, mi misero a dormire sopra un tavolo. Nel frattempo, un compaesano scese a controllare cosa fosse successo. Tornò ore dopo, affranto: “Non vedo le case di San Martino” annunciò, in lacrime, dopo aver ispezionato l’area con la sola fioca luce di una pila tascabile, “ma soprattutto – disse – non riesco più a scorgere le luci di Longarone”».

L’alba spalancò, agli occhi dell’allora giovanissimo Corona e dei suoi congiunti, la vastità della tragedia. «Sotto di noi era tutto di colore giallo – rammenta -, una sorta di paesaggio lunare, informe. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Furono minuti di annientamento psicologico, fino a che si udirono i rotori degli elicotteri dell’Esercito, che iniziavano ad arrivare sul fronte della frana».

Qualche ora dopo, Corona e i pochi altri superstiti vennero sfollati a Cimolais: «Fu lì che il giorno seguente, il presidente della Repubblica, Antonio Segni, mi prese in braccio visitando le popolazioni smembrate dal disastro. Fu anche l’unica volta che un Capo di Stato raggiunse Erto. Da allora, tutti si sono fermati a Longarone o alla diga, ma nessuno è venuto a vedere il paese che non c’è più, dilaniato dalla frana e dall’onda, mentre la comunità è stata divisa in due: una parte in Veneto e l’altra nella pedemontana friulana.

Assieme ai commenti fuorvianti dei grandi intellettuali dell’epoca: «Giorgio Bocca sostenne per tutta la vita la teoria della disgrazia naturale, mentre Dino Buzzati, sul Corriere della Sera, scrisse che fu come un sasso caduto in un bicchiere. No, caro maestro: quel masso non è caduto, ma l’ha lanciato la mano assassina dell’uomo, inseguendo il profitto a scapito di duemila vite umane». ( Tratto dal Gazzettino.it )

Dal libro di Mauro Corona: Vajont quelli del dopo

“Non esiste più niente della vita di un tempo. Tutte le civiltà scomparse sono state cancellate in qualche anno. La nostra in due minuti. Ci siamo ritrovati il giorno dopo a partire da zero, in altri luoghi, in altri modi, con altri tempi, usando cose che non conoscevamo. E’ stato come nascere un’altra volta. Nascere vecchi è come vivere morti. Non ci si adatta a ciò che non si conosce”.

“E’ vero, Rachele lanciò l’allarme quando vide manovre notturne. Allora ci mobilitammo tutti. Armati di bastoni e rancore, bloccammo il camion già quasi carico. Per una settimana giorno e notte a fare la guardia, con i fuochi accesi nella strada”.

“I nostri, morti non hanno tomba, sono spariti, come se non fossero nemmeno esistiti”.

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Aggiornato al 27 Novembre 2023

LIGURIA – Golfo dei Poeti: Lord Byron

Lerici La Spezia Liguria

Le Emozioni del Golfo dei Poeti

Il Golfo dei Poeti va da Porto Venere a Lerici, due splendide località della Riviera di Levante; al centro si trova La Spezia, cuore del Golfo. Nel paesaggio si susseguono borghi di mare, chiese e castelli medievali sul mare, spiagge di sabbia e case color pastello. Una terra amata e descritta da artisti e poeti. Qui si svolgono due importanti manifestazioni sportive: il Palio del Golfo, gara di remi fra le 13 borgate del Golfo e la Coppa Byron di nuoto in mare aperto. Fra gli eventi più belli il 13 settembre si svolge la Festa di San Venerio, il patrono del Golfo.

Fra i tanti artisti che amarono questo luogo, ricordiamo lo scrittore David Herbert Lawrence, la scrittrice e pittrice George Sand, il poeta Lord Byron e lo scrittore Percy Bysshe Shelley. Quest’ultimo ha la sua ultima residenza nel borgo di San Terenzo, borgata marinara nel comune di Lerici.

L’8 luglio 1822, Shelley annega in una tempesta improvvisa mentre a bordo della sua nuova goletta, l'”Ariel”, naviga proprio verso San Terenzo.

Il pittore svizzero Arnold Böcklin ama soggiornare in varie località del Golfo. Il pittore tedesco Carl Blechen, nel 1829 si trova a La Spezia e lascia due disegni intitolati La baia della Spezia e i Monti sul golfo della Spezia, ed anche un olio su tela Tramonto sulla baia della Spezia.[1]

La scrittrice Emma Orczy, autrice de “La primula rossa”, costruisce una villa a Lerici, dove vive dal 1927 al 1933.

Tra gli artisti italiani ricordiamo lo scrittore e scienziato Paolo Mantegazza, il pittore Oreste Carpi, i poeti Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti, lo scrittore e regista Mario Soldati che abitava stabilmente in una villa presso Tellaro e dove morì il 19 giugno 1999, il giornalista Indro Montanelli che era solito dimorare a Montemarcello e il poeta e giornalista Giovanni Giudici nato a Le Grazie (Porto Venere).Sempre a Tellaro acquista la casa da lui ribattezzata “il battistero”, Attilio Bertolucci, poeta tra i più grandi del ‘900 e padre dei due registi Bernardo e Giuseppe.

Lord Byron

Attraversate le Alpi, Byron sostò nell’ottobre del 1816 a Milano, dove entrò in contatto con Pellico e Monti e conobbe Stendhal, per poi spingersi fino a Venezia, dove arrivò nel novembre 1816 per poi risiedervi per tre anni. Qui apprese l’italiano, il veneto, l’armeno e lavorò al quarto canto del Childe Harold, al Beppo e ai primi due canti del Don Juan, che fecero furore in Inghilterra, pur se pubblicati anonimi nel 1819; in ogni caso, Byron non trascurò affatto piaceri meno intellettuali, cimentandosi in dongiovannesche avventure (si vantò di avere posseduto più di duecento donne) e in due importanti relazioni, prima con la moglie del suo padrone di casa, Marianna Segati, e poi con la ventiduenne Margarita Cogni (la Fornarina), facendo della propria dimora sul Canal Grande una sorta di harem. Il soggiorno nella città lagunare – la «Cibele marina», come viene chiamata nel Childe Harold[10] – fu brevemente interrotto solo tra l’aprile e il maggio del 1817, quando il poeta visitò Roma, passando per Ferrara (che gli ispirò il Lament of Tasso).
Byron a Venezia, nell’isola di San Lazzaro degli Armeni, in un olio su tela di Ivan Ajvazovskij (1899)
Nell’aprile del 1819 nel salotto di Marina Querini Byron conobbe la diciottenne Teresa, sposata da un anno con il ricco sessantenne conte Guiccioli: la donna divenne ben presto la sua amante e i due si stabilirono verso la fine del 1819 a Ravenna, dove i Guiccioli vivevano. La giovane esercitò un’influenza assolutamente benefica sul poeta, che finalmente adottò uno stile di vita più salutare, senza però cessare di anelare a nuove avventure, tanto che tra il 1820 e il 1821 entrò nella Carboneria attraverso i contatti del fratello di Teresa, il conte Pietro Gamba. Nella città romagnola Byron scrisse altri tre canti del Don Juan, Marino Faliero, Sardanapalus, The Two Foscari, Cain: a Mistery, The Prophecy of Dante e altri scritti che rivelavano l’odio che Byron nutriva nei confronti della tirannia, che in suolo italico trovava espressione nella Santa Sede. Volendone fare una cattolica romana, inoltre, Byron accompagnò nel marzo del 1821 la figliuola Allegra nell’educandato gestito dalle suore di Bagnacavallo, in Romagna.
Lapide commemorativa a Genova, dove il poeta risiedette «finché intenso grido della greca libertà risorta nol traeva magnanimo a lacrimato fine in Missolungi»
Nel frattempo, al fallimento dei moti insurrezionali del 1820-1821 seguirono gli arresti e le confische, e i due amanti dovettero fuggire a Pisa. Nella città toscana Byron visse nel palazzo Toscanelli, dove raccolse intorno a sé un gruppo cosmopolita di letterati e di artisti che annoverava, oltre a Shelley, anche Edward Williams, Thomas Medwin, Edward John Trelawny, Leigh Hunt e John Taaffe. In seguito a una rissa tra il suo domestico Tita e il sergente Stefano Masi fu tenuto sott’occhio dalla polizia toscana: così, abbandonò il Circolo pisano e la città e si trasferì a Montenero, vicino a Livorno, soggiornando nella Villa Dupouy. Fu qui che iniziò la pubblicazione del periodico Liberal con Leigh Hunt, suo ospite, su cui apparve The Vision of Judgement, in aspra polemica col Southey, che aveva pubblicato un libello omonimo, zeppo di accondiscendenza, in memoria di Giorgio III. Sullo stesso Liberal venne pubblicato Heaven and Earth – A Mistery.

La serenità di questi ultimi anni andò tuttavia a frantumarsi proprio in questo periodo, allorché lo colpirono i lutti di Allegra (spirata il 21 aprile 1822) e immediatamente dopo di Shelley, affogato assieme all’amico Edward Elleker Williams a causa di un’improvvisa e violenta burrasca che aveva colpito la sua imbarcazione a dieci miglia da Viareggio.

Byron, anche per l’espulsione dei Gamba per motivi politici, abbandonò il Granducato di Toscana per andare ad abitare a Genova nel Quartiere di Albaro. Nel viaggio verso Genova passò per Lerici e, forse, Porto Venere; secondo un aneddoto, del tutto falso, avrebbe addirittura attraversato a nuoto il golfo, nuotando per otto chilometri fino a San Terenzo.

 

 

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Aggiornato al 27 Novembre 2023

Libreria Aiace Roma: Libri Perduti nel Tempo

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Libri Perduti nel Tempo

La storia del libro segue una serie di innovazioni tecnologiche che hanno migliorato la qualità di conservazione del testo e l’accesso alle informazioni, la portabilità e il costo di produzione. Essa è strettamente legata alle contingenze economiche e politiche nella storia delle idee e delle religioni.

Dall’invenzione nel 1456 della stampa a caratteri mobili di Gutenberg, per più di quattro secoli l’unico vero medium di massa è stata la «parola stampata».

La scrittura è la condizione per l’esistenza del testo e del libro. La scrittura, un sistema di segni durevoli che permette di trasmettere e conservare le informazioni, ha cominciato a svilupparsi tra il VII e il IV millennio a.C. in forma di simboli mnemonici diventati poi un sistema di ideogrammi o pittogrammi attraverso la semplificazione. Le più antiche forme di scrittura conosciute erano quindi principalmente logografiche. In seguito è emersa la scrittura sillabica e alfabetica (o segmentale).

Quando i sistemi di scrittura furono inventati furono utilizzati quei materiali che permettevano la registrazione di informazioni sotto forma scritta: pietra, argilla, corteccia d’albero, lamiere di metallo. Lo studio di queste iscrizioni è conosciuto come epigrafia. La scrittura alfabetica emerse in Egitto circa 5.000 anni fa. Gli antichi Egizi erano soliti scrivere sul papiro, una pianta coltivata lungo il fiume Nilo. Inizialmente i termini non erano separati l’uno dall’altro ( scriptura continua ) e non c’era punteggiatura. I testi venivano scritti da destra a sinistra, da sinistra a destra, e anche in modo che le linee alternate si leggessero in direzioni opposte. Il termine tecnico per questo tipo di scrittura, con un andamento che ricorda quello de solchi tracciati dall’aratro in un campo, è “bustrofedica”. ( Wikipedia )

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Libri & Letture 

Aggiornati al 27 Novembre 2023

 

I libri sono come macchine costruite appositamente per stimolare le emozioni

Fantasticare

Libri & Emozioni

I libri sono come delle macchine. Il loro obiettivo (almeno nella maggior parte dei casi) è stimolare le emozioni, e gli autori sono abili a fornire il carburante per raggiungere l’obiettivo.

La costruzione delle frasi ha come scopo quello di tenere il lettore incollato alle pagine, spesso grazie ad artifici stilistici che ci invitano a proseguire nella lettura. Siamo curiosi per natura, e l’istinto ci porta a sfogliare pagine per scoprire le evoluzioni della trama. Proprio per questo – ad esempio – spesso i personaggi più piacevoli si trovano in situazioni di pericolo: per stimolare empatia e mantenere alta l’attenzione. ( Book-to-Book )

Why do I always get so emotionally involved in a book ?

Books are machines built specifically to excite your emotions.  (Not all books, but almost all fiction and a large amount of non-fiction .) Authors spend their lives studying how to evoke and manipulate emotion and pour all that knowledge into their works. They even do it on the sentence level. Writing teachers urge their students to include some sort of hook in each sentence which will lure readers to the next one.

Common techniques include ending chapters with cliffhangers, which excites our instinctual need to know what happens next–instinctual, because learning results was crucial for our ancestors’ survival (e.g. when a tribe member ventured into a cave, his friends needed to learn if he emerged safely or got eaten by a tiger inside); putting likable characters in peril, which evokes empathy, another evolved trait; and lacing stories with surprise, which tickles our natural pattern-matching instincts by thwarting our conclusions.

There is also a natural process that changes the brain over time, as we get to know a person. It’s a large part of the engine behind friendship. If you just meet me once at a party, you’ll probably forget me afterwards or remember just a couple of funny, interesting, or strange things I said. But if you spend lots of time with me, you’ll grow brain structures devoted to simulating me and predicting my behavior.

This happens because we evolved as pack animals–as tribal creatures. Huge portions of our brains are devoted to social processing. There’s even evidence to suggest we unconsciously think about other people when our minds seem to be at rest, zoned out, not thinking about anything. Back in our tribal days, who was sleeping with whom, who was in charge, who was likely to betray you, and who would be most-likely to come to your aid were crucial bits of survival information.

We rely on those social brain structures to make judgements like, “Don’t talk to Sally about her mom. It really upsets her,” and when we’re picking a birthday present for Jonathan. You have a little sim of him in your brain. You mentally give the sim various presents, see which ones most delight it, and that’s how you decide what to get for the real-life Jonathan. It’s why you feel confident saying, “I knew you’d like this!”

Metaphorically, at least, you can say that someone you’ve grown used to has inhabited your brain. You hold a copy of him in your head–not an exact copy, but one that’s good enough to excite your intellect and emotions. This is why it’s so hard to let go of a lover who dumps you or a friend who dies. He’s gone but not gone. Your brain is still running his program.

Books, especially long character novels and biographies, can have the same effect. Read “Lord of the Rings” and you wind up hanging out with Frodo for a long time, long enough for your brain to start simulating him, even when you close the book. You can also create sims by rereading the same book over and over, throughout your life. Lots of people have complex simulations of Harry Potter or Jay Gatsby running in their heads. Once a sim starts running, it’s bound to affect you.

You will find yourself wondering what happens to fictional characters after the book is over. On a purely rational level, that makes no sense. After the last page of “Nicholas Nickleby,” there is no Nicholas Nickleby any more. There’s nothing that happens to him after the book is over. And yet there is, because there’s a Nicholas Nickleby program still running in your brain, still predicting what he’ll do, still exciting your empathy.

Books offer condensed social information. They are to our tribal and social concerns what candy is to the parts of our brains that crave fruit. Social crack. Also causal crack. We’re obsessed by anything social and causal, and books cater to those obsessions. Marcus Geduld

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Libri & Letture

Aggiornato al 27 Novembre 2023 

Storie di Libri Perduti di Giorgio Van Straten

Storie-di-libri-perduti

Storie di libri perduti di Giorgio Van Straten, Edizioni Laterza

 

Un viaggio sulle tracce di otto libri perduti, libri mitici come le miniere nella corsa all’oro: tutti i cercatori sono sicuri che esistono e che saranno proprio loro a trovarle, ma nessuno in realtà ha prove certe e percorsi sicuri. I segni sono labili, le speranze di ritrovare quelle pagine sono scarse. Eppure il viaggio vale la pena.
Questo libro racconta la storia di altri libri che c’erano e non ci sono più: i libri perduti non sono libri dimenticati oppure libri pensati dall’autore e mai nati, sono quelli che l’autore ha scritto, che qualcuno ha visto, magari ha anche letto, e che poi sono stati distrutti o dei quali non si è saputo più niente. Libri bruciati, strappati, rubati, semplicemente scomparsi, ma che sono stati scritti, che sono sicuramente esistiti.
La ricerca di una perfezione irraggiungibile, circostanze ambientali e storiche avverse, la censura e persino l’autocensura, la volontà degli eredi: i motivi che portano alla perdita dei libri sono i più diversi. Uno di questi libri Giorgio van Straten l’ha avuto nelle proprie mani, ma non è stato capace di salvarlo. È proprio da quella perdita che parte la sua ricerca di otto libri, il racconto di otto storie a giro per il mondo sulle tracce di pagine che non ci sono più, ma che si può sempre sperare di ritrovare. L’autore si fa viaggiatore, investigatore, spia, si attacca a indizi, informazioni attendibili o meno, ascolta amici ed esperti per avere qualche elemento in più.
Ogni libro perduto ha la sua storia che non assomiglia alle altre, se non per qualche particolare che stabilisce strane relazioni. Partendo dalla casa di Firenze di Romano Bilenchi per poi passare all’Inghilterra di Byron e di Sylvia Plath, alla Francia degli anni Venti dove ha vissuto Hemingway, attraverso la Russia di Gogol e la frontiera spagnola che Walter Benjamin cerca di superare per sfuggire al proprio destino, dalla Polonia occupata dai nazisti dove Bruno Schulz viene ucciso per un dispetto fra ufficiali tedeschi fino a un remoto paesino del Canada dove si è rifugiato Malcolm Lowry…
Perché magari un giorno, da qualche parte, uno di questi libri che sembra perduto per sempre potrebbe miracolosamente riemergere.

«Ogni volta che nella vita mi sono imbattuto in un libro perduto, ho provato la stessa sensazione che mi prendeva leggendo da piccolo certi romanzi che parlavano di giardini segreti, teleferiche misteriose, castelli abbandonati: l’occasione di una ricerca, il fascino di ciò che sfugge e la speranza di essere l’eroe capace di risolvere il mistero. In quei romanzi da ragazzi in effetti la soluzione arrivava verso la fine del libro, suggerita dall’autore ovviamente, anche se a me sembrava frutto della mia attenzione e della mia fantasia.» ( Edizioni Laterza )

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Libri & Letture

Aggiornato al 27 Novembre 2023

Italo Calvino: Il Piacere di Leggere Romanzi

Calvino Italo

Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere

Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi

Un viaggiatore, una piccola stazione, una valigia da consegnare a una misteriosa persona… Da questa premessa si possono snodare innumerevoli vicende, ma sono dieci quelle che l’autore propone in questo sorprendente e godibilissimo romanzo. “E’ un romanzo sul piacere di leggere romanzi: protagonista è il lettore, che per dieci volte comincia a leggere un libro che per vicissitudini estranee alla sua volontà non riesce a finire. Ho dovuto dunque scrivere l’inizio di dieci romanzi d’autori immaginari, tutti in qualche modo diversi da me e diversi tra loro.” 

Italo Calvino, che ai suoi lettori ci teneva, capì bene la situazione e si allarmò. Il suo romanzo del 1979 si apriva con una appello al lettore, a cui venivano impartite le seguenti istruzioni: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni pensiero (“) La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: “No, non voglio vedere la televisione”. Alza la voce, se non ti sentono: “Sto leggendo! Non voglio essere disturbato”. (“) Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato (“) Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce».

Se una notte d’inverno un viaggiatore

Se una notte d’inverno un viaggiatore è un romanzo di Italo Calvino pubblicato nel 1979. In esso Calvino narra la storia di un Lettore che, nel tentativo di leggere un romanzo (intitolato appunto Se una notte d’inverno un viaggiatore), è per ragioni sempre differenti costretto a interrompere la lettura del libro che sta leggendo e intraprendere la lettura di un altro. L’opera diventa quindi una riflessione sulle molteplici possibilità offerte dalla letteratura e sulla impossibilità di giungere a una conoscenza della realtà.

Il libro è composto da undici brani, dieci dei quali sono inseriti all’interno di una cornice: infatti sono costituiti da dieci incipit di altrettanti romanzi. La storia della cornice, che si sviluppa parallelamente alla lettura dei diversi incipit, narra invece del Lettore ( chiamato esplicitamente Lettore ) e Ludmilla ( la Lettrice ), e della loro storia d’amore, che segue uno schema narrativo tradizionale in cui non manca il lieto fine.

Gli incipit

“Se una notte d’inverno un viaggiatore” (Italo Calvino)
Il Lettore-protagonista si trova in una stazione ferroviaria in cui tutto sembra inafferrabile. Il lettore avverte la sensazione di aver perso una coincidenza e di trovarsi ancora lì solo per errore. Entrato in un bar, il lettore siede accanto ad una donna, che inizia ad affascinarlo. Tuttavia entra nel bar un poliziotto che dà un messaggio (che era concordato in precedenza) ed il lettore esce per prendere il treno, l’ultimo treno. Poi, a causa di un errore di impaginazione, il lettore legge e rilegge le stesse pagine (da 17 a 34).
“Fuori dell’abitato di Malbork” (Tazio Bazakbal, scrittore polacco).
Tutto è concreto, corposo, al contrario del racconto precedente. Il lettore è in una cucina, ma tutti gli ingredienti sono lasciati in lingua originale e quindi, pur “sentendo il gusto” di un determinato cibo, non riesce a capire cosa sia. Anche qui emerge una figura che affascina il lettore, anzi due: Zwida e Brigd (infatti il lettore vede una figura composta dalle due donne, “bifronte”). Il lettore non completa questo romanzo perché tra due facciate scritte iniziano a frapporsi delle pagine bianche, squarciando la lettura, “come una ferita”.


“Sporgendosi dalla costa scoscesa” ( Ukko Athi, scrittore cimmero )
Questo libro viene rintracciato nell’Università, poiché alcuni nomi del precedente (per una strana curiosità) sono uguali tra i due libri. Il romanzo viene raccontato dal professore di cimmerio dell’ateneo, Uzzi-Tuzii. Tuttavia la storia (raccontata sotto forma di diario) è completamente diversa, narra del lettore che si trova nei pressi di un “osservatorio meteorologico” che consiste in una tettoia con sotto pochi strumenti per la rilevazione di determinati dati. Anche qui la presenza femminile (stavolta di una ragazza che disegna degli elementi naturali che trova in spiaggia) risulta attraente per il lettore, anche se in questo caso c’è una sorta di timore nella conoscenza della donna. La ragazza chiede al lettore di comprarle una fune, che poi (ad insaputa del lettore) servirà a far evadere un prigioniero. Il racconto termina (perché incompiuto dall’autore) nel momento dell’incontro tra il lettore e l’evaso.
“Senza temere il vento e la vertigine” (Vorts Viljandi, “pseudonimo” cimbro di Ukko Athi).
Secondo il professore di cimbro dell’Università (professor Galligani) lo scrittore cimmerio avrebbe poi terminato l’opera in lingua cimbra (tesi contrariata da Uzzi-Tuzii). Ancora una volta la storia è completamente nuova. Stavolta il libro è letto nel gruppo di studio di Lotaria, sorella di Ludmilla. La figura femminile appare prima che negli altri romanzi, infatti già nelle prime righe una donna, presa dalla vertigine, sviene tra le braccia del lettore. La scena si trasferisce poi nell’ufficio di Valeriano, nell’edificio del Commissariato. Dopo un colloquio con Valeriano (apparentemente amico del lettore), nella stanza la ragazza presa dalla vertigine rivela la propria presenza, ed il suo nome: Irina. Dopo essersi inserita nella discussione prende una rivoltella e la punta contro il lettore, e da qui il racconto apre una parentesi erotica che termina col ritrovamento da parte del lettore del foglio della sua condanna a morte. Tuttavia la narrazione si interrompe perché nella parte appena letta “c’è già da discutere per un mese”, e il resto del romanzo è stato spartito tra altri gruppi di studio.


“Guarda in basso dove l’ombra s’addensa” ( Bertrand Vandervelde, scrittore belga )
Questo racconto, tradotto dal francese da Ermes Marana, viene dato al lettore dal dottor Cavedagna. La storia ancora una volta presenta il lettore e una figura femminile importante, Bernadette. All’inizio è introdotto anche un altro personaggio, Jojo, probabilmente un rivale del lettore, che finalmente è riuscito ad ucciderlo, ed ora lo trasporta in un sacco per decidere come sbarazzarsene definitivamente (in realtà la ragazza pensa che sia stato ucciso per un moto di gelosia che ha preso il lettore mentre la ragazza aveva un rapporto sessuale con Jojo). Tuttavia il lettore, insieme con Bernadette, non riesce a trovare un posto e un modo adeguato a sbarazzarsi del cadavere di Jojo, che continua a mettere i bastoni tra le ruote al lettore anche da morto. Intanto un ragazzo cingalese è mandato da Mademoiselle Sibylle, figlia del lettore. Il cingalese sostiene che la ragazza lavora al “Nuovo Titania”, gestito da Madame Tatarescu, che aveva voluto mandare un messaggio intimidatorio al lettore. Dato che il cielo stava schiarendo, il lettore decide di scendere in ascensore per portare via Jojo in macchina, ma all’apertura delle porte ci sono tre uomini con le mani in tasca che, dopo aver chiesto cosa ci fosse nel sacco (erano conoscenti di Bernadette), ne tirano fuori una scarpa di vernice nera con la mascherina di velluto. La lettura si interrompe perché si interrompono le pagine fotocopiate dal dottor Cavedagna.


“In una rete di linee che s’allacciano” ( Silas Flannery, scrittore irlandese )
Anche questo romanzo viene dato dall’editore (Cavedagna). Il romanzo narra di un professore universitario (il lettore) assillato dal suono dello squillo di un telefono. Questo suono che sembra perseguitarlo e inseguirlo. Entrato in una casa per rispondere ad un telefono (né la casa né il telefono sono di sua proprietà), sente indicazioni intimidatorie riguardo ad una ragazza del suo corso, Marjorie Stubbs. Così il lettore si mette a correre verso l’indirizzo dato (115, Hillside Drive) e arrivato, slega la ragazza e la scioglie dal bavaglio, e subito lei vomita. “Sei un bastardo”, dice Marjorie al lettore-professore. La lettura è troncata dallo squillo di un telefono, quello del lettore-protagonista, chiamato da Ludmilla che lo invita a casa propria. A casa di Ludimilla, Irnerio (il non-lettore) approfitta di una distrazione del lettore per impossessarsi del romanzo, poiché lo ispira per una sua scultura (infatti verrà ritrovato in una mostra delle opere di Irnerio).


“In una rete di linee che s’intersecano” (Silas Flannery)
Il lettore crede di avere tra le mani un’altra copia dello stesso romanzo di prima, ma s’accorge che una fascetta con la scritta “L’ultimo successo di Silas Flannery” copriva le parole “s’intrecciano”. Inizia così la lettura di un nuovo racconto, in cui l’idea principale sembra quella di speculare, degli specchi. Il lettore, che è immedesimato in un uomo d’affari giapponese, è affascinato dagli specchi ed in particolare dai caleidoscopi, e sostiene di aver basato il proprio successo economico su un principio simile a quello dei caleidoscopi. E così comincia un ragionamento fatto di ripetizione di ogni oggetto, movimento e abitudine per eludere eventuali tentativi di omicidio nei confronti del lettore stesso. Il lettore crea una stanza con le pareti fatte tutte di specchi e le conseguenze sono confuse: Lorna, sdraiata nuda e legata al suolo, vede ad ogni suo movimento la riflessione delle sue carni in ogni specchio a perdita d’occhio. Intanto entra Elfrida, e anch’ella si riflette a non finire negli specchi, e le carni della prima si intrecciano con il corpo della seconda, e con la rivoltella che tiene in mano. Il lettore non riesce più a distinguere l’una dall’altra e l’ambientazione sembra spostarsi verso un altro luogo: la sacra dimora di Iside, dea della notte egizia. La soddisfazione del protagonista è l’ultima impressione di questo romanzo che non termina poiché il lettore-protagonista decide di mettersi in viaggio per rintracciare il vero Flannery.


“Sul tappeto di foglie illuminato dalla luna” ( Takakumi Ikoka, scrittore giapponese )
Il romanzo arriva al lettore dalle mani di Silas Flannery, che a sua volta lo aveva ricevuto da Ermes Marana. Inizia con il protagonista, uno studente “della facoltà” (non è mai specificata), che, sotto l’esame del signor Okeda, pratica esercizi di focalizzazione dell’attenzione: cerca di concentrarsi sulla singola foglia del ginkgo che cade dall’albero invece che sull’insieme di foglie. Un giorno successivo, in una passeggiata, succede un particolare che colpisce il protagonista: mentre è chinato per avvicinare una ninfea galleggiante, Miyagi (moglie di Okeda) e Makiko (figlia di Okeda) si allungano per raccogliere il fiore, ed entrambi i capezzoli sfiorano il corpo del protagonista. Sulla via del ritorno verso casa, il protagonista chiede un appuntamento a Makiko, che accetta. Tuttavia la sera succede un imprevisto. Mentre il protagonista insegue Makiko, irrompe nella stanza in cui Miyagi stava disponendo in un vaso dei fiori e delle foglie, che cadono a terra. Nel raccoglierle, Miyagi mette inavvertitamente una mano sul membro del protagonista, e lui (nello stesso istante) sul seno di lei. I due, per voglia di lei, si ritrovano a fare all’amore, sotto gli occhi di Makiko (che era stata al gioco dell’inseguimento e si preoccupava perché non vedeva arrivare il protagonista) e del signor Okeda (“avvisato” da un rumore). Questo atto porta ad un allontanamento del protagonista da entrambe le donne: da Makiko, che ormai lo vede solo come un altro degli amanti di sua madre, e da Miyagi, che sapendo di non poterlo avere (lui infatti nell’atto sessuale sussurra il nome di Makiko) approfitta di quell’unica occasione. La lettura viene interrotta da dei poliziotti che, alla discesa del lettore dall’aereo, gli sequestrano il libro perché è proibito nel loro paese.


“Intorno a una fossa vuota” ( Calixto Bandera )
Il testo è letto direttamente dalla stampa di una macchina di un ufficio di censura. Il protagonista, Nacho Zamora, vede suo padre morire, e dirgli di andare al villaggio di Oquedal col cavallo e la carabina del padre. Nacho inizia la cavalcata di notte sulla sponda del fiume secco, e solo all’alba si accorge che dall’altra parte c’è un uomo incappucciato con un fucile, appaiato con lui (l’incappucciato è appaiato con Nacho). Il protagonista arriva al villaggio e segue le indicazioni del padre, giungendo così nel palazzo imperiale. Qui prima crede di essere figlio di Anacleta Higueras, una donna che lavora nelle cucine del palazzo degli Alvarado, poi della stessa Doña Jazmina. In entrambi i casi si avvicina alle figlie (Amaranta e Jacinta) e viene cacciato in malo modo dalle madri. Intanto apprende la storia di Faustino Higueras, fratello di Anacleta, che aveva combattuto contro il padre di Nacho intorno ad una fossa, e Faustino, che ebbe la peggio, fu ucciso. La sera, arriva l’incappucciato e si rivela come Faustino, e comincia uno scontro, con la stessa modalità di quello della leggenda, contro Nacho. ( Wikipedia )

 

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