Autostrade e concessioni: l’eterno braccio di ferro tra pubblico e privato

Ave Socii

Perché uno Stato sia forte, settore pubblico e settore privato dovrebbero pervenire, se non ad una vera e propria alleanza, perlomeno ad una collaborazione costruttiva. La vicenda delle concessioni autostradali ci dimostra che spesso non è così. Avendo interessi spesso contrastanti, pubblico e privato procedono ognuno per conto proprio. Talvolta lungo direzioni diametralmente opposte.

La sfera di interessi del pubblico è fondata sul perseguimento dei diritti costituzionalmente rilevanti. La sfera di interessi del privato si basa, invece, sul criterio della massimizzazione del profitto. Il ruolo della politica, in questa “disputa”, dovrebbe essere quello di sintetizzare tutti gli interessi in gioco. E sintetizzarli, possibilmente, in tempi ragionevoli.

I continui rinvii in tema di autostrade hanno portato alla situazione che stiamo osservando ormai da giorni. Viadotti intasati, ponti costruiti e non ancora collaudati, caos sul tema delle concessioni… Evidente che le maggiori responsabilità siano della politica o, meglio, dell’assenza di politica. Il governo, più che decidere, preferisce rinviare su qualsiasi argomento. E questi sono i risultati…

Un tempo si sarebbe potuta addurre la motivazione che la colpa dei ritardi fosse “della Lega”… Peccato che ora il governo sia costituito da Cinque Stelle e Pd. E che il Ministero delle Infrastrutture, negli ultimi due anni, sia stato nelle mani prima dei Cinque Stelle, ora del Pd. Il continuo scaricabarile delle responsabilità evidenzia ancor più, qualora ce ne fosse bisogno, la necessità di una classe dirigente in grado di “decidere”.

Alcuni pensano che “liberalizzare tutto quel che si può” sia la soluzione più adeguata ed efficiente. Altri, invece, pensano che la soluzione sia accentrare interi settori dell’economia sotto il controllo statale. In realtà la linea più condivisibile, come già ricordato, potrebbe essere la collaborazione fra pubblico e privato. Una sintesi che tenga in debito conto gli interessi, egualmente rilevanti, di entrambe le parti. Nel caso delle autostrade, ad esempio, darle in concessione a chi garantisce manutenzioni adeguate a fronte di pedaggi contenuti e penali non troppo onerose.

Certo, molte volte trovare il giusto compromesso è più facile a dirsi che a farsi. Ma proprio questo dovrebbe essere il compito della politica: sintetizzare gli interessi in gioco. Non rinviare, ma decidere. Anche a costo di prendersi delle responsabilità.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Ripartenza fra tentativi di “normalità” e timori di nuovi contagi

Ave Socii

In tempi di coronavirus, persino sospendere alcuni diritti fondamentali è stato un attimo. Ovviamente in nome di un diritto al momento prevalente, come la tutela della salute. Molti si interrogano, e forse non hanno tutti i torti, se questa “privazione delle libertà” sia legittima. O se, al contrario, vi siano gli estremi per una violazione della Costituzione o, addirittura, le avvisaglie di una dittatura. E il governo accusato di prendere provvedimenti da regime, ironia della sorte, è lo stesso che diversi mesi fa nacque con l’intento di “evitare pericolose derive autoritarie”…

Detto questo, chiudere tutto è stato semplicissimo. Sarà altrettanto semplice riaprire? Certamente no. La ripartenza non è mai cosa semplice. Bisogna mantenere una visione a lungo termine del problema, evitare di procedere a tentoni, scegliere con ragionevolezza i criteri su cui basare la ripartenza stessa. In questa fase bisogna lasciare ampio margine di discrezione alle Regioni, o addirittura ai Comuni. Le decisioni prese a livello centrale, infatti, spesso non tengono conto delle esigenze dei singoli territori.

Ci sembra fuori dal mondo, ad esempio, costringere al blocco un Comune senza contagi da settimane, semplicemente perché la grande città capoluogo ha ancora almeno un caso di contagio. Far riprendere almeno la vita interna di quel Comune, controllando che nessuno vi entri o vi esca indiscriminatamente, ci pare un tantino più sensato. La ripartenza senza il coinvolgimento dei territori è impensabile e insostenibile, specie in un Paese vessato dalla burocrazia come il nostro.

Riaprire su base comunale, ancor prima che regionale, permetterebbe anche un più efficiente controllo dei contagi. I Comuni senza contagi da settimane non dovrebbero correre rischi se “lasciati liberi”. In caso di “imprevisti”, sarebbe comunque molto più facile circoscrivere il territorio di un piccolo Comune rispetto a quello di un’intera Regione. Per i Comuni più grandi, invece, si potrebbe riaprire sulla base di quartieri o municipalità. E’ evidente come la ripartenza sia un lavoro certosino. Non esauribile di certo con un provvedimento governativo. In realtà, già l’aver affidato al solo governo la chiusura dell’Italia (praticamente senza alcun passaggio parlamentare) si è rivelato piuttosto infelice…

In tutto ciò, dobbiamo tener conto anche dell’Europa. Non si sa, a dire il vero, se come ausilio o come intralcio. La ripartenza, secondo alcuni, non può non transitare per gli “aiuti europei”… Secondo altri, l’Europa finora ha solo perso tempo prezioso contribuendo ad aggravare la situazione… Per alcuni, bisogna attendere fiduciosi che l’Europa ci aiuti… Come se avessimo ancora del tempo da attendere, dopo circa tre mesi di emergenza… Per altri, la priorità è ridurre la burocrazia… Come se i governi, anche in passato, non avessero mai avuto questa “priorità”… Sappiamo cosa ne è stato di quelle belle parole, purtroppo…

L’auspicio è che la ripartenza venga gestita tenendo conto soprattutto delle istanze dei territori e delle categorie maggiormente in difficoltà. E che non si spacci per “prudenza” quel che spesso è solo inerzia o continuo rinvio. Nessuno pensi che si possa attendere ancora e “ripartire tutti insieme”. L’economia non aspetta. E l’Italia, con tutte le precauzioni, non vede l’ora di rimettersi in movimento.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Uomo al centro del mondo: un progetto destinato a fallire

Ave Socii

L’umanesimo inteso come esaltazione delle capacità dell’uomo… Come metodo di governo del mondo… Talvolta come vera e propria filosofia di vita… Mettere l’uomo al centro di tutto… L’uomo come origine e fine di ogni azione… Un sistema del genere vige nei momenti “di euforia” della Storia dell’umanità. Vige ai tempi di Hammurabi, parlando dell’Antica Babilonia. Vige ai tempi di Cheope, parlando dell’Antico Egitto. Vige ai tempi di Aristotele, parlando dell’Antica Grecia. Vige ai tempi di Augusto, parlando dell’Antica Roma. Vige ai tempi di Leonardo, parlando del Rinascimento. Vige ai tempi di Voltaire, parlando dell’Illuminismo. Probabilmente vigeva fino a qualche settimana fa, parlando del mondo aperto e globalizzato.

La Storia dell’uomo oscilla alla stregua di un pendolo. Da epoche di euforia si passa ad epoche di riflessione e, talvolta, di vera e propria depressione o sfiducia nelle capacità umane. E viceversa. Il momento che stiamo attraversando potrebbe costituire uno di questi momenti di passaggio. Se l’uomo, con le capacità di cui è dotato, non riuscirà a fronteggiare con successo gli effetti del coronavirus, si incamminerà verso un sentiero di sfiducia verso se stesso e la propria identità. Questo è, pertanto, uno di quei momenti in cui l’uomo può fare la Storia. La propria Storia.

L’umanesimo, nelle fasi “euforiche” della Storia, tende a diffondersi e dilagare in tutti gli ambiti. Scienza, economia, medicina, persino religione… Grazie alla visione “umanistica”, tutto magicamente diviene “a misura d’uomo”. Tutto è a servizio dell’umanità, perfino Dio. E talvolta ci convinciamo che tutto sia, in un modo o nell’altro, dovuto e lecito. Ma le conquiste umane, nella Storia, hanno spesso significato sacrifici e perdite. Non c’è nulla di così scontato. Nulla di così certo. Nulla di così sicuro e incrollabile. La “fede nell’umanità” non può durare per sempre. E forse in questi giorni difficili lo stiamo comprendendo meglio. E’ bastata qualche settimana e un essere invisibile, tale COVID-19, per mettere in discussione valori di cui nessuno avrebbe mai osato dubitare.

Globalizzazione, valori universali, caduta dei muri, abbandono dei pregiudizi, integrazione… Chiunque, solo qualche settimana fa, si fosse proclamato contrario a queste idee sarebbe rimasto relegato ai margini della Storia. Oggi la situazione è un po’ diversa. Solo qualche settimana fa i giovani riempivano le piazze per sposare la causa ambientalista… Altro frutto, neanche a dirlo, di un’umanità “in preda all’euforia”. Perché non c’è altra definizione per un’umanità che ha modo e tempo di pensare ai “diritti dell’ambiente”. Un’umanità abituata alla liberalizzazione di qualsiasi cosa… Al fatto che qualsiasi cosa sia possibile… Al fatto che non esistano limiti… Poi è arrivato il virus. E l’umanità ha dovuto risvegliarsi dal suo dolce torpore, correndo il serio rischio di piombare in una voragine di depressione collettiva.

Potrebbe anche darsi che, dopo la scoperta di un vaccino, tutto quanto ritornerà come prima. Certo, pure se ne uscirà vincitrice l’umanità non potrà dimenticare facilmente questa esperienza. L’autoconvinzione del proprio senso di onnipotenza ha reso l’umanità cieca dinanzi alla portata dell’ignoto. La fede illimitata nell’uomo ci ha fatto sottovalutare l’eventualità di pericoli inattesi. Forse questo potrà essere il tempo giusto per ritornare ad una fede autentica. Una fede basata non sulle capacità umane, fragili e limitate come abbiamo visto, ma su una riscoperta sincera del Mistero e del Regno di Dio. Magari attraverso una più approfondita lettura del Vangelo, libro che forse varrebbe la pena rivalutare e meditare. Perché se l’uomo può forse governare ciò che gli è noto, ciò che gli è ignoto può affrontarlo solo con l’aiuto di Dio.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Strade sempre più insicure, soprattutto per i pedoni

Ave Socii

Da tempo immemore, purtroppo, la cronaca mostra che, sulle nostre strade, c’è chi si mette al volante ubriaco o drogato. E c’è ancora chi, tra le forze politiche, è addirittura favorevole ad aumentare il numero di sostanze legalizzate. Come se non bastasse l’alcol, vogliono aggiungere la cannabis e magari pure qualcos’altro. E poi si arrabbiano, quando qualcuno si fa vedere un tantino più “proibizionista”… Allora perché non fermiamo anche la vendita di alcolici? Questo si domandano, dandoci degli ipocriti. Sanno benissimo, furbetti, che la vendita di alcolici non si può limitare facilmente. E pensano bene di proteggersi dietro a questo scudo. Ci si sballa con l’alcol, tanto vale sballarsi pure con altro. Perché l’alcol sì e la cannabis no?

Questo giochino del “mettere sotto scacco i proibizionisti”, tuttavia, dà per scontata una cosa che in realtà scontata non è affatto. Ossia, che alcol e droghe abbiano la stessa natura e servano, fondamentalmente, per sballarsi. Questa pericolosa identità è oggi sponsorizzata in primo luogo dai trapper e dai loro testi musicali, tanto amati da giovani e giovanissimi. E’ un’identità pericolosa e fuorviante. Bere alcol non significa necessariamente sballarsi; farsi una canna, invece, conduce sempre ad un’esperienza di sballo. Perché gli alcolici sono degli alimenti, i cannabinoidi dei medicinali. Chi pensasse di trattare l’alcol come una droga tout court, in pratica, giungerebbe a considerare “spacciatori” perfino quei viticoltori che mantengono alto il nome del “Made in Italy” nel mondo. D’altro canto, la cannabis è una sostanza psicotropa che ha certamente effetti benefici su determinate patologie. E, in quanto tale, dovrebbe essere trattata come un farmaco, non come un passatempo ricreativo.

Ritornando a chi viaggia sulle nostre strade, potremmo chiederci perché certa gente si mette a guidare in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti. Probabilmente è gente che soffre, gente depressa che ha bisogno di sballarsi. Gente totalmente incentrata sui propri problemi, perciò incurante di tutto il resto. Una sostanza non provoca sballo finché non è legata ad una particolare esperienza. Bere tre dita di vino a pranzo, accompagnando i pasti, è forse un’esperienza di sballo? Persino la somministrazione controllata di cannabinoidi in ambito sanitario, per curare il morbo di Parkinson ad esempio, non porta ad uno sballo propriamente detto. D’altro canto, chi prima si fa una canna oppure svariati bicchieri di alcolici e poi scorrazza per le strade… Beh, forse ha bisogno di curarsi.

Chi ha avuto particolari esperienze di vita, soprattutto all’interno di famiglie problematiche, tende a cercare al di fuori del nido familiare la propria ragion d’essere. E spesso la trova nel divertimento estremo, nello sballo appunto. Mettere a rischio la vita altrui è forse una componente essenziale di quest’esperienza. Come dire: io ho sofferto tanto e ce l’ho con la società, perciò la società deve capire cosa vuol dire soffrire. A volte il fatto stesso di aver sofferto giustifica, agli occhi di costoro, la sofferenza che può capitare ad altri membri della società. L’invidia nei confronti del mondo li rende pericolosi: si lamentano che la loro vita è un inferno, quando certe volte sono loro stessi a rendere infernale la vita degli altri. E’ forse “libertà di divertirsi” questa? Nessuno può permettersi di affermare la propria libertà, arrivando a negare la libertà altrui.

Mettendosi nei panni di queste persone, si finisce senza dubbio per giustificarle. Le loro “vite difficili” coinvolgono e commuovono. Se sbagliano non importa, l’importante è che prima o poi si redimano… Perché la redenzione è possibile per tutti… Si tratta di un pensiero (purtroppo) assai diffuso oggi, dove sembra che ai criminali sia concesso tutto e che delle vittime tutti si dimentichino. Perché è così che dovrebbe essere considerato uno che scorrazza per le strade in preda allo sballo: un criminale. Il fatto che dei pedoni abbiano attraversato col rosso non giustifica un conducente in stato di ebbrezza che li travolge. Non vogliamo fare la solita predica sul divertimento sano e senza eccessi. Se volete bere, bevete. Se volete drogarvi, drogatevi. Ma per tornare a casa, fatevi almeno accompagnare da chi sta meglio di voi. Ne va non tanto della vostra vita ma della vita altrui, dei pedoni soprattutto.

Purtroppo il clima di buonismo negli ultimi tempi imperante ha varcato pure i confini del diritto. Dinanzi a un sistema che concede attenuanti a persone che “hanno sofferto”, noi rispondiamo con un progetto ri-educativo serio di reintegrazione e reinserimento nella società. Un progetto basato sulla rielaborazione del senso della vita, sull’abbattimento del vittimismo e sulla responsabilizzazione. Crediamo che ai soggetti devianti debbano essere concesse possibilità che magari non hanno mai avuto. Ma non all’infinito. Qualora tale progetto fallisca, infatti, non rimane che trattare queste persone come in effetti vogliono essere trattate: da criminali. E, nel caso risultino nuovamente coinvolte in reati provocati da situazioni di sballo, provvedere alla loro neutralizzazione.

L’applicazione della pena di morte, in realtà, non dovrebbe valere solo per chi viaggia per le strade in preda a droghe o alcol. Dovrebbe valere per tutti coloro i quali mettono a rischio la vita altrui, fra i quali anche spacciatori e assassini. Perché la vita è un diritto sacro e, in quanto tale, nessuno dovrebbe permettersi di insidiarlo. Qualora questo accada, potrebbero aprirsi degli spiragli per un intervento dello Stato nel caso il reo sprechi le possibilità di reinserimento nella società. Speriamo, ovviamente, che interventi tanto drastici non trovino mai applicazione pratica. Tuttavia crediamo che ognuno di noi avrebbe un motivo in più per responsabilizzarsi, se sapesse di rischiare grosso. E’ così strano sentir parlare di morte per i colpevoli, in uno Stato in cui si parla spesso di morte per gli innocenti?

Vostro affezionatissimo PennaNera

Crescita economica. Perché alcuni vogliono bloccare l’Italia?

Ave Socii

Da tempo gli argomenti principali del dibattito politico in Italia sono l’immigrazione, il razzismo, il fascismo, l’ambiente, le tasse etiche… Nessuno intende più parlare seriamente di crescita, di sviluppo, di piani industriali, di lavoro, di autosufficienza energetica… Perché di certi argomenti si sente parlare poco o niente? Perché li si tira fuori solo verso fine anno, quando c’è da approvare il Def? O quando c’è da imbastire una campagna elettorale? O, peggio, quando una multinazionale rischia di abbandonare l’Italia e lasciare a casa migliaia di lavoratori? Eppure si tratta di tematiche evidentemente importanti. Magari più importanti di molte altre… Il Parlamento si preoccupa di istituire Commissioni sul razzismo… Ben vengano, ma allora perché non istituire pure Commissioni sulla tutela dei settori strategici dell’economia italiana? Qualcuno ha forse interesse a che di certe cose non si parli?

Ogni tanto alcuni si svegliano e iniziano a parlare di economia circolare, in effetti comincia a diventare una moda… Poi però ci si accorge che, all’atto pratico, siccome il “retto pensiero” impone di schierarsi contro i termovalorizzatori perché “inquinano”, i rifiuti debbono essere portati in altri Paesi. Qui vengono trattati e trasformati in energia, che ovviamente noi siamo costretti a comprare perché non autosufficienti. Tutto questo costa. Ma noi, pur di rimanere fedeli ai principi imposti da ambientalisti e teorici della decrescita, preferiamo pagare. Pagare sia per trasferire i rifiuti all’estero, sia per riprenderceli sotto forma di energia. Invece di sfruttare al meglio queste risorse a casa nostra. Con quale credibilità, allora, possiamo continuare a parlare di economia circolare?

Nel dubbio, meglio parlare d’altro. Di immigrati, ad esempio. Su questo tema in Europa fanno finta di nulla, forse proprio perché gli italiani concentrino ancor più la loro attenzione sull’immigrazione. Forse in Europa non vogliono che l’Italia si interroghi anche su argomenti come la crescita economica. Forse in Europa sperano proprio questo: che in Italia ci si arrovelli su ogni questione purché non sia quella della crescita. Forse è interesse dell’Europa mantenere l’Italia in una posizione subalterna rispetto agli altri Stati. Un’economia che arranca è costretta a chiedere aiuto agli altri. E questo agli altri conviene, poiché il nostro potere contrattuale ne esce fortemente ridimensionato. E lo è ancor più se la politica nazionale, invece di promuovere la crescita, promuove una condizione di mera stabilità o addirittura la decrescita. Intanto Paesi come la Cina stanno crescendo con rapidità impressionante. Inquinano come pochi, però gli ambientalisti continuano a prendersela con l’Occidente…

Eppure esistono misure che favorirebbero la crescita persino qui in Italia. Persino all’interno della gabbia dei Trattati europei. Persino nel rispetto dell’ambiente. Pensiamo alla riduzione delle tasse, sulle imprese soprattutto, per far ripartire il lavoro. Pensiamo alla liberalizzazione della giustizia civile, affinché almeno i processi per sbrigliare i contenziosi tra privati vengano accelerati. Pensiamo alla liberalizzazione dei sindacati, perché possano adattarsi più velocemente ai mutamenti del mercato del lavoro… Perché se ne continua a parlare poco o niente? Forse c’è davvero un interesse a che l’Italia resti al palo, contrattualmente debole, facilmente svendibile… Finché il governo sarà guidato da un’ideologia buonista, antimeritocratica, giustizialista, filocinese, contraria alla crescita, gli interessi dell’Italia saranno sempre posposti agli interessi di qualcun altro. Se non ci destiamo subito da questo torpore, presto vedremo il nostro tricolore lasciar posto a una bandiera rossa a cinque stelle.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Pregiudizio. Alcuni miti da sfatare

Ave Socii

Quante volte avete sentito dire che “per conoscere il diverso non bisogna avere pregiudizi”? Della serie: se hai pregiudizi sarai sempre un ignorante e non conoscerai mai davvero… Perciò apriamo le frontiere, abbattiamo i muri e superiamo i limiti! In realtà, la questione è un po’ più complessa di come viene semplicisticamente insegnata. Siamo esseri umani, pertanto sempre inclini all’errore. Per di più siamo quasi sempre influenzati dalle nostre esperienze passate, nelle scelte attuali e future. Cancellare i pregiudizi non è affar da poco, dunque. Ognuno di noi, chi più chi meno, corre il rischio di essere influenzato da qualche pregiudizio. La differenza, pertanto, non è tra chi ha pregiudizi e chi non li ha. La differenza, semmai, è tra chi ammette di averli e chi vuol far credere di non averli. Chi dice di non avere pregiudizi è un ipocrita. Speriamo perlomeno che non lo sia in mala fede.

Forse parlare di “pregiudizio” non è che l’arma migliore per scatenare sensi di colpa e di inadeguatezza in persone che hanno pensieri scomodi e “politicamente scorretti”, in modo da farle tacere. Un’arma utilizzata per affermare determinate idee e deprecare le idee di chi la pensa diversamente. Il senso di colpa che chi condanna il pregiudizio vorrebbe scatenare, nella nostra società occidentale, scaturisce il più delle volte dalla apparente discordanza fra norma giuridica e morale cristiana. Ma esse hanno campi di applicazione diversi, non dovrebbero essere confuse. Alcuni invece vorrebbero trasformare questo dualismo in un punto debole per la società occidentale. Avranno certamente i loro (loschi) interessi per fare una cosa del genere… Magari favorire determinate culture tradizionalmente ostili a quella occidentale… Culture che magari confondono il culto con la legge e ne fanno, al contrario di noi, un punto di forza… Intenda chi ha orecchie…

Il pregiudizio agisce sempre a doppio senso: c’è chi pre-giudica, ma c’è anche chi si sente pre-giudicato e vorrebbe far sentire agli altri il peso di questo pregiudizio. Per farli sentire in colpa facendosi vedere “vittime”, metterli in difficoltà e cercare di ottenere quanto desiderato. Magari trattamenti “più umani”, invocando un fantomatico “stato di necessità”, pure a costo di violare la legge. Prendete il caso dei rom… Costoro dovrebbero spostarsi periodicamente, in quanto “nomadi”… Tuttavia se hanno la possibilità di avere un alloggio stabile e confortevole, non fanno certo troppi complimenti… Magari occupano abusivamente le case altrui, oppure si allacciano abusivamente ai servizi, o entrambe le cose… Si circondano di donne incinte, così nessuno può cacciarli… Rubano e magari pretendono pure di essere compresi, perché “povere vittime” in “stato di necessità”! Contrastare le leggi con la “presunta umanità”: così fanno le “vittime”, appoggiate spesso da qualche “paladino dei diritti umani”.

Pregiudizio nell’immigrazione. Per fronteggiare il continuo calo di popolarità, ogni tanto i fascio-buonisti ricorrono ad immagini forti e tentano di “scuotere le coscienze”… Adesso tutti si turbano, per quella foto che ritrae padre e figlia morti annegati durante l’attraversamento del fiume… Chissà in quanti saranno morti in quel modo e per quanto tempo, purtroppo, senza che a nessuno sia mai passata per la mente l’idea di parlarne… Perché se ne parla solo in certi momenti? Perché certe immagini vengono esibite solo quando i fascio-buonisti sembrano trovarsi in difficoltà? Ah, questi ipocriti “paladini dell’umanità” a intermittenza! Si attaccano a tutto, pur di screditare l’avversario politico… Anche se i flussi totali sono crollati, dicono che la linea dura non paga perché tanto i migranti arrivano coi “barchini”… Tutti a dire che il problema è l’Italia che non accoglie, invece di dire che il problema vero sta in Africa…

Dovrebbero solo vergognarsi, certi politici millantatori di presunta umanità! Prima consentono che arrivino immigrati a frotte… Poi fanno gli scandalizzati e gridano al pregiudizio e al razzismo, perché il “decreto sicurezza” lascia per strada migliaia di “disperati”. Forse la responsabilità è pure di chi a suo tempo ha ingiustificatamente aperto le porte a tutti questi “disperati”, o no? Le tensioni in Libia ormai fungono quasi da pretesto… Improvvisamente l’Italia sembra essere diventata l’unico porto sicuro del mondo, anche con quel “selvaggio razzista disumano troglodita” di Salvini al Ministero dell’Interno. Trasformare l’Africa in una polveriera forse fa comodo a qualcuno, almeno i migranti saranno sempre giustificati a non mettervi più piede e andare altrove. Sennò non si spiegherebbero il silenzio e l’immobilismo dell’Onu… Con tutti gli “ambasciatori dei diritti umani” che annovera tra le sue fila, qualcuno potrebbe pure preoccuparsi di cosa succede in Libia! O no?

L’ultimo ricorso presentato “dai migranti” della nave olandese è stato respinto dalla Corte Europea… Vuol forse dire che anche i giudici hanno dei pregiudizi verso gli immigrati? L’assistenza va garantita, ma perché la nave deve per forza puntare in Italia, quando batte bandiera olandese e l’equipaggio è tedesco? L’Italia che c’entra? La nave forza più volte il blocco perché “i migranti sono allo stremo”… E c’è pure chi applaude, invece di invocarne l’affondamento. Siamo noi quelli disumani? Chi invece viola deliberatamente le leggi per ottenere un po’ di visibilità, mettendo a rischio la vita di decine di persone, è forse meno disumano? E se la prossima volta schierassimo i cannoni? Non lasciamoci intenerire da chi fa finta di stare dalla parte dei più deboli. L’immigrazione non è un diritto. L’accoglienza si fa in ben altro modo. Non confondiamo i principi evangelici con le prese per il c…

Finché in Italia c’erano altri governi andava tutto bene. Nessuno in Europa si preoccupava della questione migranti, tanto c’era l’Italia che pigliava su tutti… Finché accoglievamo porci e cani potevamo pure sperare in un minimo di flessibilità… Ora invece rischiamo perfino la procedura di infrazione per debito eccessivo. L’ipocrisia dell’Europa è stata svelata, è dunque evidente che questo governo vada di traverso a qualcuno. E non solo in Europa… Nel mondo c’è chi pensa che l’immigrazione sia un diritto… Quando forse non è altro che la risposta (spesso patologica) alle carenze di Paesi che non riescono a dare un futuro ai propri abitanti. Mettiamocelo in testa: il problema dell’immigrazione non sta da noi, sta da loro! Ed è “a casa loro” che va risolto, creando condizioni tali affinché queste persone non siano costrette ad emigrare e ad essere trattate come “disperati”.

Pregiudizio di chi si droga verso l’autorità e il resto della società. Chi si droga lo fa in aperto contrasto con l’autorità e con una società percepita come contraddittoria nei messaggi che manda. La società prima mi dice che sono libero, poi però mi giudica se mi comporto in certi modi… L’autorità non mi ama, è buona solo a bacchettarmi e a mettermi in difficoltà… Perciò l’autorità deve sentirsi in colpa e io, pure a costo di rischiare la vita, voglio farla sentire in colpa… Così ragiona chi si droga o, in generale, assume comportamenti rischiosi. L’autorità trova difficile sanzionare tali comportamenti, se di mezzo c’è una relazione che potrebbe naufragare. Perché una relazione che naufraga genera sensi di colpa. E l’autorità si trova in difficoltà, poiché sente tutto il peso del senso di colpa. Peso mitigato dalla sostanza, invece, per chi si droga o assume comportamenti simili.

Tutto il precedente ragionamento è sostenuto, guarda un po’, da un pregiudizio di fondo: il drogato crede che all’origine della sofferenza sia sempre l’autorità, mai la relazione. E se una relazione va male, la colpa è sempre dell’autorità e mai della “vittima”. E’ l’autorità, con le sue regole, che mette a repentaglio la relazione, non la vittima con i suoi comportamenti rischiosi. Perciò è l’autorità che deve piegarsi, eliminando le regole e liberalizzando questi comportamenti. Ma proviamo a cambiare prospettiva: dal lato dell’autorità, se essa è stata coerente nelle sue scelte e nell’applicazione delle regole, non c’è nulla che le possa essere rimproverato. Se l’autorità, nella relazione, ha dato tutto l’amore di cui era capace, ogni suo senso di colpa è ingiustificato. La sofferenza, in tal caso, non può che provenire dal capriccio di una relazione malata. Questa autorità, pertanto, non trova alcuna difficoltà a troncare una relazione del genere.

Ma quale autorità riesce a mostrarsi davvero credibile e coerente, alla luce di una società contraddittoria come la nostra? Quale genitore oggi avrebbe il coraggio di dire a un figlio drogato “io ho fatto tutto il possibile per te, se il tuo desiderio è morire va’ e ammazzati!”, senza sentirsi più o meno in colpa per questo? Molti in questa società dicono che è bene provare qualsiasi esperienza, ma che in caso di difficoltà bisogna intervenire in ogni modo per evitare il peggio… Messaggio che va a nozze con l’atteggiamento del drogato, il quale per definizione prova esperienze al limite così da scatenare sensi di colpa in chi non si mostra capace di aiutarlo fino in fondo. E molte volte l’autorità, per inseguire i capricci del drogato, tollera certi comportamenti financo a liberalizzarli.

La società deve tornare ad essere coerente, se vuol sperare di generare delle autorità credibili. Solo allora si potrà invertire la rotta, in tema di liberalizzazione e simili, relegando ai margini i comportamenti “da drogato”. Tutto il contrario di ciò che accade ora, poiché oggi al margine forse stanno proprio quelli che non si sono mai fatti una canna. Da diversi studi sta emergendo pure che il consumo di cannabis aumenta spaventosamente, proprio qui in Europa ad esempio… E che questo può comportare un aumento del rischio di dipendenza… Bella scoperta, meglio tardi che mai! Allora speriamo che vengano presi conseguenti provvedimenti nelle opportune sedi. Perché drogarsi non è un diritto.

Altri pregiudizi. Bello vedere che nel calcio c’è posto anche per le donne. E’ certamente un segnale di integrazione e di abbattimento di pregiudizi. Alcuni vorrebbero che uomini e donne fossero equamente retribuiti in ogni lavoro… Un sogno, ma davvero un giorno si realizzerà? Certamente lo speriamo tutti. Però ricordiamoci di questo: se le donne sono pagate meno degli uomini, non è perché la società ha dei pregiudizi verso di loro. Ma per una questione ben più pratica: ad un’azienda, a parità di altre condizioni, le donne costano più degli uomini. E questo per motivi tutt’altro che sociali. Che le donne siano predisposte ad attraversare una gravidanza non lo decide la società, ma la natura. Una donna che va in maternità rappresenta un costo per l’azienda. Non sempre una donna gravida è in grado di lavorare e “produrre” tanto quanto una donna non gravida. E’ la natura, non è pregiudizio…

Anche per questo siamo dell’idea che ognuno di noi, che sia uomo o donna, debba essere libero di svolgere lavori domestici, pure in via esclusiva rispetto ad altri lavori. E che il lavoro casalingo debba essere retribuito come un qualsiasi altro mestiere. Sarebbe un toccasana per tutti i nuclei familiari, soprattutto per i figli. Ma ad alcuni questo ricorda troppo la famiglia “tradizionale”, ovvero il “Medioevo”… Così si costringono le donne a stare a casa… Ecco, anche questo è un pregiudizio secondo noi. Chi ha detto che debba essere per forza la donna a stare a casa e badare ai figli e alle faccende domestiche? Anche un padre può farlo, se la madre lavora al di fuori dell’ambito domestico. Nessuno lo vieta.

Madre, padre e figli: questo secondo noi è il modello di famiglia che dovrebbe prevalere, rispetto a famiglie affidatarie e altri tipi di famiglia. Nella nostra cultura, ogni altro tipo di famiglia non può che prendere a modello la famiglia nucleare suddetta. Siamo noi che abbiamo un pregiudizio verso i “genitori” omosessuali e le famiglie “arcobaleno”, o piuttosto altri che hanno pregiudizi verso la famiglia “tradizionale”? Per poterli affidare, i figli bisogna prima farli. E’ la natura, non è pregiudizio…

Condannare il pregiudizio verso i diritti civili, le minoranze, il “diverso”… spesso non è che una trovata dei fascio-buonisti per disgregare la società democratica e indebolirne l’identità culturale. Come se tutto quel che è stato conquistato in passato sia da dare per scontato, oppure da accantonare per far posto al “nuovo”. Intanto l’identità culturale occidentale traballa pericolosamente: scossa dall’avanzata dei “diritti civili”, all’interno, e dall’avanzata di culture ostili e intolleranti, all’esterno. Accogliere tutti per creare un’accozzaglia sociale indistinta, senza radici certe e dunque più influenzabile e controllabile da certi centri di potere… Forse è questo l’obiettivo che alcuni intendono raggiungere, ben consapevoli che il pregiudizio non smetterà mai di esistere e di influenzarci.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Prostituzione. Dell’inutilità del moralismo

Ave Socii

Il settore del divertimento è uno di quelli che sta andando per la maggiore, nella parte opulenta del mondo. Anche grazie ai tentativi, sempre più pressanti, di liberalizzazione di interi segmenti di mercato altrimenti in mano alle associazioni criminali. E’ davvero sempre positivo cercare di togliere potere ai criminali, semplicemente liberalizzando attività inizialmente in mano loro? Alcuni suggeriranno di prendere a modello l’Olanda e di osservare i successi ottenuti nel contrasto allo spaccio di droga. Ma non è tutto oro quel che luccica. Probabilmente alcuni olandesi non apprezzano tutta questa “libertà di sballo” portata dal libero consumo delle droghe “leggere”. Probabilmente la questione dello sfruttamento illegale della prostituzione nei quartieri a luci rosse è tutt’altro che risolta. Probabilmente in Olanda hanno liberalizzato troppe cose. Ma in genere questo non viene detto…

I mercati controllati dalla criminalità si possono anche regolamentare, nessuno lo vieta. Purché poi si facciano i dovuti controlli. Come per la regolamentazione della prostituzione. Se nessuno controlla, l’intento di evitare lo sfruttamento illecito della prostituzione non si realizza e i criminali continuano a regnare tanto quanto regnavano prima. Tuttavia i controlli costano. E’ dunque necessario, per ottimizzare le risorse, scegliere con attenzione cosa liberalizzare e cosa no. Non si può avere tutto, quando le risorse scarseggiano. Neanche quando in gioco c’è la sacrosanta libertà di divertirsi. Non è moralismo, è realismo. E se proprio vogliamo regolamentare il divertimento, scegliamo tipologie di divertimento meno artificiali possibile. I divertimenti naturali sono i più democratici che esistano: non hai bisogno di nulla, fuorché del tuo corpo.

Perché impedire di usufruire dei divertimenti davvero naturali, quando si fa del tutto pur di far passare quelli artificiali e indotti dalle sostanze? Fra i due, noi preferiamo di sicuro regolamentare il divertimento naturale. Perché tanta attenzione riservata solo alle “droghe leggere”? Quando si potrebbe fare benissimo la stessa cosa con la prostituzione? Anzi, regolamentando la prostituzione forse la salute collettiva e l’ordine pubblico ne gioverebbero pure. Difficilmente, invece, ne gioverebbero legalizzando le droghe. Spesso chi vuole la regolamentazione del mercato dello spaccio, non si mostra altrettanto “liberale” riguardo la prostituzione. Spesso chi da un lato inneggia all’antiproibizionismo, dall’altro veste inspiegabilmente i panni del moralista. Vendere droga è forse meno immorale che vendere il proprio corpo?

Deprecabile, a nostro avviso, dovrebbe essere invece il fatto che ragazzine di 13 anni già indossano abiti succinti e si truccano pesantemente. Perché qui i sostenitori del femminismo e dell’antiproibizionismo non si scandalizzano? Che tipo di modelli imitano, queste ragazzine? Speriamo non le loro madri! Chi è maggiorenne può fare quel che vuole della propria vita, ovviamente nei limiti della liceità. Anche vendere il proprio corpo in piena libertà, a nostro avviso. Se dobbiamo proprio fare lezioncine di morale, sarebbe più opportuno farle ai minorenni quando siamo ancora in tempo per farci ascoltare. Ma i minorenni assorbono più facilmente ciò che vedono e sentono attorno a loro. Ciò che è buono come ciò che è cattivo. E poi, scimmiottando i valori propugnati dai loro modelli adulti, li estremizzano e mettono “alla prova” la coerenza della società, per vedere fin dove la società stessa tollera che ci si spinga.

La società manda messaggi ambigui e contrastanti… Prima esalta l’apparenza, il farsi vedere, il dare un’immagine di sé attraente, il sex appeal… Poi si scandalizza dinanzi alle donne di facili costumi. O dinanzi alle “ragazze oggetto”. O dinanzi alle pubblicità in cui le donne posano in atteggiamenti provocanti. O dinanzi a comportamenti che esaltano il maschilismo o il “machismo”. Nessuno di noi saprebbe prendere una posizione chiara e netta, dinanzi a comportamenti del genere. Forse tali atteggiamenti un po’ ci piacciono anche. Sotto sotto, oppure anche più in superficie, ad ogni uomo piace vedere una donna in forma e provocante. E ad ogni donna piace vedere un uomo possente e sicuro di sé. Influenze della società o caratteristiche naturali? Chi lo sa…

Ogni essere umano, in buona sostanza, sembra provare attrazione per chi “si vende”. Gli uomini, forse, perché alla ricerca di sicurezza. Le donne, forse, perché alla ricerca di attenzioni. Quando ci sono di mezzo i bisogni umani, il moralismo è utile quanto una penna priva di inchiostro. Se una persona fa di tutto pur di attirare l’attenzione, magari arrivando a vendere il proprio corpo, probabilmente questa è la strategia che meglio si adegua alle sue esigenze di attenzione da parte degli altri. Se la correzione di determinate strategie non è arrivata in tenera età, in età matura nessuno più gliele toglierà. Ovviamente c’è pure chi si vende per necessità e magari non ha di questi problemi di autostima… Riguardo tutte queste persone, comunque, vale la stessa domanda: perché rischiare che del loro corpo benefici la criminalità?

E allora, piuttosto che condannarle ad una vita di inutili pregiudizi, giudizi ipocriti e sensi di colpa, perché non consentire loro di vendere il proprio corpo in piena libertà e consapevolezza? Magari non in mezzo a una strada. Magari con qualche protezione in più. Magari con maggiori tutele anche per i potenziali clienti, oltre che per loro stesse. Magari consentendo loro, tramite un lavoro regolare, anche di raggiungere una sorta di realizzazione personale. Forse non è la priorità, ma lo Stato dovrebbe regolamentare il mondo della prostituzione. Ne beneficerebbe esso stesso. Anche se ciò farebbe arrabbiare non poco le associazioni criminali, che di punto in bianco si vedrebbero togliere il monopolio su un segmento di mercato redditizio. Con le droghe sarebbe diverso, il potere dei narcotrafficanti rimarrebbe sempre ben saldo. Forse è per questo (lo diciamo con un pizzico di malizia) che qualcuno spera così tanto nella liberalizzazione delle droghe.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Morte e vita. Il diritto e la pena

Ave Socii

La vicenda della ragazzina olandese che ha deciso di darsi la morte, perché provata dal male di vivere, ha riacceso il dibattito sull’eutanasia. Chi si professa “progressista” crede che il progresso passi anche per la “buona morte”. Certo, consentirla a delle ragazzine minorenni forse non è il massimo. Anche l’Olanda, in realtà, ha norme piuttosto stringenti su questo tema.

Decidere di morire, perché si è stanchi di vivere… Se la “buona morte” ha un qualche senso, crediamo debba limitarsi ai soli casi di malattie terminali e malattie per le quali non esiste alternativa diversa dall’accanimento terapeutico. Di certo non dovrebbe servire per curare casi di depressione. Così l’aborto, se ha un qualche senso, dovrebbe limitarsi ai soli casi di rapporti sessuali non consenzienti. E ai casi di malattie gravi dell’embrione. E dovrebbe essere praticato, comunque, entro tempi non troppo lunghi dalla fecondazione.

Forse stiamo perdendo il “senso della vita”, presi come siamo dal “senso della morte”. Preferiamo tutelare chi sceglie di morire, invece di supportare chi vorrebbe scegliere di vivere. I fascio-buonisti, dall’alto del loro senso di progresso, premono per una regolamentazione delle “pratiche di morte”. Se per loro il concetto di vita è così relativo, allora per quale motivo non sono altrettanto pressanti in tema di pena di morte per i criminali? Va bene battersi per il diritto a una vita dignitosa. Però, a questo punto, non dimentichiamoci della dignità di vivere. E di chi, forse, per quel che ha combinato non merita una tale dignità.

Speriamo che mai nessuno debba morire per mano d’uomo, ci mancherebbe. Però, se proprio qualcuno deve perdere la vita in questo modo, preferiamo siano i colpevoli e non gli innocenti. Pensate che strani che siamo! I “politicamente corretti” cosa dicono, invece? Pena di morte per i criminali no, aborto e eutanasia sì… Saremo noi fuori dal mondo, ma questo ci pare un po’ un controsenso. Perché se un privato sceglie di morire va tutto bene… e se invece è lo Stato a decidere che uno deve morire, perché ha violato determinate leggi, ripiombiamo nel buio Medioevo?

E così, in nome del progresso, dobbiamo liberalizzare anche la morte… Così comanda la “retta dottrina” dei fascio-buonisti. Noi abbiamo un’idea di progresso diversa. Per noi una società è progredita se ognuno dei suoi membri si assume le responsabilità di ciò che fa. Chi nega il diritto alla vita di una persona, dovrebbe sapere che di quel medesimo diritto può anche essere privato. Non da un altro individuo, sia chiaro, ma dallo Stato. Anche gli aborti e i suicidi assistiti sono negazioni della vita. Per “giusti motivi”, ci mancherebbe… ma anche lo Stato può avere “giusti motivi” per privare qualcuno della vita, non solo i singoli. L’intervento dello Stato, anzi, potrebbe pure distogliere gli individui dal desiderio di farsi giustizia da sé, prevenendo il sorgere di eventuali faide e contribuendo ad abbassare il livello di tensione sociale. Lo Stato dovrebbe essere l’unico legittimato a compiere simili atti “di giustizia straordinaria”.

Noi vorremmo uno Stato in cui le pene siano certe e servano alla “rieducazione del condannato”, come raccomanda anche la Costituzione. Rieducazione finalizzata al reinserimento del reo nel tessuto sociale. In questo senso, l’ergastolo è forse la pena più inutile che esista… Fine pena mai, nessuna possibilità di ritorno alla vita sociale, quindi nessuna finalità rieducativa… Un posto in galera occupato a vita da un tizio che, nella maggioranza dei casi, trascorre i suoi giorni a meditare una strategia di fuga oppure il suicidio (che poi non è altro che una particolare strategia di fuga)… Ergastolo spesso commutato in altra misura perché magari il condannato ha dato di matto, oppure per “buona condotta”… Alla faccia della certezza della pena… E il tutto a spese dello Stato.

La Costituzione stessa, nella sua prima formulazione, prevedeva la pena di morte in casi eccezionali. Un tempo perfino la Chiesa condannava a morte i suoi colpevoli. Formalmente, lo Stato Pontificio ha abolito la pena di morte solo nel 2001. In realtà, tuttavia, le ultime condanne risalgono a circa due secoli fa. Ora la Chiesa, coerentemente, condanna espressamente qualsiasi forma di “negazione della vita”, che sia aborto o pena di morte o eutanasia. D’altro canto, uno Stato che ha tempo di interrogarsi sull’introduzione della “buona morte”, secondo noi, dovrebbe interrogarsi anche sull’introduzione della “pena di morte”. Sembrano ora riecheggiare a nostro sfavore le parole dell’illuminista Beccaria: perché lo Stato dovrebbe prevedere la morte come pena, quando la condanna come reato?

Eppure il nostro ordinamento non può non prevedere fattispecie di reati riguardanti, in un modo o nell’altro, il concetto di “morte”. Tutti noi saremmo contenti se non vi fossero omicidi, ma evidentemente la realtà dei fatti è un po’ diversa. Qualcuno potrebbe dunque obiettare a Beccaria: perché la morte può comunque esistere come reato, all’interno di uno Stato che la aborrisce addirittura come pena? Le considerazioni di Beccaria sulla pena di morte, perciò, dovrebbero essere ribaltate: se è sbagliato aborrire la morte solo come reato e prevederla comunque come pena, perché dovrebbe essere giusto aborrirla solo come pena e prevederla comunque come reato?

Siamo dell’idea che uno Stato davvero progredito debba prevedere la pena di morte per reati particolarmente efferati, che violano gravemente specifici diritti di rilevanza costituzionale. Vogliamo incominciare a ristabilire un po’ di certezza della pena? Ebbene, pena più certa di questa non esiste davvero. Chi nega la vita altrui dovrebbe sapere che può incorrere nel medesimo trattamento. Però non vogliamo la legge del taglione. Crediamo sia comunque opportuno dare un “tempo di recupero” al reo, per consentire la sua responsabilizzazione e “rieducazione”. Qualora poi il reo non sfruttasse adeguatamente questa possibilità, lo Stato potrebbe sempre prendere i dovuti provvedimenti. Fossimo noi lo Stato, arrivati a questo punto preferiremmo senza dubbio giustiziare il colpevole piuttosto che rischiare, per causa sua, di piangere altri innocenti.

Probabilmente non tutti condivideranno le nostre posizioni, i temi qui affrontati sono particolarmente delicati. Ma noi siamo per la cultura libera e per la libera espressione del pensiero. Neanche noi condividiamo le posizioni di alcuni, in merito a questi argomenti. Tuttavia le rispettiamo e auspichiamo un confronto costruttivo nel rispetto reciproco. Speriamo che pure il dibattito politico trovi al più presto una sintesi positiva e coerente fra le varie istanze.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Giustizia italiana. Un mondo tutto da riformare

Ave Socii

Controllare i controllori. Quando si è in presenza di un organo deputato al controllo, c’è forse motivo di dubitare della serietà e imparzialità dei suoi componenti? Tutti noi vorremmo che la risposta fosse no… Ma alla luce anche dei recenti “scandali” che stanno colpendo la magistratura italiana, forse ci domandiamo se chi controlla necessiti a sua volta di essere controllato.

Da più parti, e da molti anni, si parla di “riforma della giustizia”. Secondo noi, sarebbe necessario rivedere più in generale il ruolo di ogni organo di controllo. Compito non certo facile, visto che già nei tempi antichi qualcuno si domandava “chi controlla i controllori?”… Chi riveste ruoli di controllo e non è a propria volta controllato da nessuno, potrebbe abusare indiscriminatamente del potere conferitogli dalla carica che riveste. Inventare organi di controllo superiori complica il problema, invece di risolverlo. I controllori superiori controllano gli inferiori, ma chi controlla i superiori? Un nuovo organo di controllori collocato ancora più in alto? Ma poi chi controllerà questi ultimi? E così via, all’infinito.

E’ evidente che il “metodo gerarchico” fin qui descritto non è il massimo. E’ dunque necessario riflettere sulla possibilità di introdurre altre modalità di controllo. Magari di controllo “fra pari”. Se si motivasse adeguatamente le parti a controllarsi a vicenda, forse, si eviterebbero eclatanti abusi di potere. Nella Roma repubblicana, i consoli erano due proprio perché l’uno controllasse l’operato dell’altro e viceversa. Tornando ai giorni nostri, il sistema parlamentare italiano prevede che vi siano due Camere aventi i medesimi ruoli e poteri. Ognuna delle due Camere si autogoverna e stabilisce il proprio regolamento interno (cosiddetta “autodichia”). Non sarebbe più opportuno, invece, che l’una stabilisse le regole dell’altra e viceversa?

Si parla tanto di conflitto di interessi. Quello citato sopra potrebbe essere un esempio. Ma se esiste un conflitto di interessi davvero grave, forse è quello per cui l’organo dei controllori, la magistratura, si autogoverna. Quello per cui un giudice viene giudicato da un altro giudice. Un suo “simile”, diciamo così. E per gli amici, ovvero i simili, le regole spesso si interpretano nel senso più favorevole possibile. Alla faccia dell’imparzialità. E spesso l’incompetenza del Legislatore moderno contribuisce ad allargare in misura indeterminata le possibilità di interpretazione delle leggi da parte del potere giudiziario.

Fare in modo che esistano organi di controllo “alla pari”, che insistono cioè sui medesimi interessi, potrebbe essere una soluzione al problema. Il conflitto d’interessi dovrebbe essere esternalizzato, cioè ricondotto ad organi differenti, invece che rimanere internalizzato nel medesimo organo. Creare organi superiori, per l’appunto, è inutile poiché ripropone al proprio interno le medesime tipologie di conflitti. Se proprio deve esistere un “organo superiore”, questo dovrebbe accogliere al suo interno rappresentanti delle varie istanze di un sistema. Ognuna delle parti, rappresentative delle varie istanze, propone le condizioni cui le altre parti dovrebbero attenersi per salvaguardare al meglio i loro interessi. In sede congiunta, poi, si effettua una sintesi delle posizioni. Questo ci pare il metodo più corretto per trattare il problema del controllo. Una sorta di applicazione della teoria dei giochi.

Spesso anche i membri di diversi organi vengono scelti in rappresentanza dei poteri di un sistema. Si pensi ai componenti della Corte Costituzionale, scelti in egual numero dai tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario). In presenza di conflitti fra questi poteri, ogni organo deputato alla risoluzione di tali conflitti dovrebbe accogliere rappresentanti di tutti i poteri coinvolti. Il Consiglio Superiore della Magistratura accoglie membri togati e laici, ma forse non basta. Perché ogni membro sia egualmente motivato a perseguire gli interessi della propria parte, dovrebbe essere ricompensato a partire dai risultati positivi conseguiti dalla parte che rappresenta. E, al contrario, penalizzato in base ai risultati negativi.

Il tema della “responsabilità civile dei magistrati” è collegato a quanto detto prima. L’innocente che abbia subito un processo lungo e ingiusto, dovrebbe essere risarcito direttamente dai rappresentanti del potere giudiziario. Costoro dovrebbero rispondere delle loro mancanze. Ciò potrebbe ridurre il ricorso al loro strapotere di interpretazione. Se un magistrato pagasse per le sue omissioni, potrebbero anche ridursi i tempi della giustizia. Se i compensi dei giudici fossero inversamente proporzionali al tempo dei processi, forse si uscirebbe da una situazione che definire “farraginosa” è un’offesa agli eufemismi.

Evitare la presenza di organi di controllo superiori, magari, farebbe pure risparmiare dei bei soldini. Così come decidere i compensi in base ai risultati conseguiti e non perché “si ha diritto a quei compensi”. Ma dei bei soldi pubblici si risparmierebbero anche liberando parzialmente le casse statali dall’onere di stipendiare indistintamente tutti i rappresentanti della giustizia. In questa direzione potrebbe andare un provvedimento incentrato sulla liberalizzazione della giustizia civile. In particolare, tutto ciò che concerne i contenziosi fra privati dovrebbe essere gestito da mediatori giuridici, non necessariamente facenti parte dell’apparato statale. Sia chiaro, anche lo Stato potrebbe decidere in merito alla disputa fra privati. Ma forse, liberalizzando la giustizia civile, si eviterebbe l’attuale ingolfamento dei Tribunali.

Lo Stato dovrebbe avere rappresentanza, mediante magistrati propri, solo in sede amministrativa (nei contenziosi fra pubblico e privato) e in sede penale (al momento della violazione delle relative norme). In entrambi questi casi, la sfera pubblica persegue interessi diretti ed è motivata a farlo. Ma nei contenziosi fra privati, dove l’interesse pubblico spesso non è in gioco, il pubblico interviene senza alcuna motivazione. Ed ecco che i processi possono durare un’eternità. Ecco che le udienze possono essere rinviate di mesi. Ecco che i giudici possono godere di ferie spropositate rispetto ad altri funzionari pubblici.

A nostro avviso, per far sì che uno Stato divenga più efficiente, c’è bisogno di cambiare paradigma. Passare, cioè, dalla “ricerca di imparzialità” (che sovente coincide con “inerzia”) alla “ricerca di motivazione e interesse”. Fare in modo che ogni parte coinvolta si metta nei panni delle altre, scrivendo le regole necessarie al perseguimento degli interessi altrui e non dei propri. Perché nessuno può essere imparziale, mentre scrive le regole per se stesso. Solo rendendo interessati i suoi membri, lo Stato può sperare di funzionare meglio. Agganciare i benefici dei funzionari pubblici ai risultati da loro conseguiti, per esempio, potrebbe spronare i funzionari stessi ad impegnarsi di più. E la macchina dello Stato a muoversi più velocemente. Ma finché i controllori non pagheranno, finché continueranno a suonarsela e cantarsela a modo loro, dimentichiamoci pure una legge uguale per tutti.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Cannabis shop… Attaccatevi a ‘sta canna!

Ave Socii

Ieri sera abbiamo accolto con immenso piacere la sentenza della Corte di Cassazione in merito alla liceità di vendere prodotti a base di cannabis. Vendere cannabis, anche leggera, è illegale. Finalmente! D’ora in poi, chi ha sfruttato in modo subdolo le zone grigie della normativa dovrà fare un passo indietro. Immaginiamo che non finirà così, sarebbe troppo semplice. Di certo qualcuno protesterà e non è da escludere che possa pure ottenere  ragione. Per cui stiamo in campana, non si può ancora cantar vittoria definitivamente. Però è già una piccola soddisfazione.

Intanto va registrata, manco a dirlo, la solita ed immancabile levata di scudi da parte dei fascio-buonisti. Era un settore in piena espansione, quello dei negozi di cannabis… Proibizionisti… Così si ledono i diritti… Molti esercizi chiuderanno… Scusate tanto! Ma di tutti gli esercizi commerciali che chiudono ogni giorno… quanti vi stanno così a cuore come i rivenditori di cannabis? Questo è il nostro parere: se proprio la crisi deve colpire qualcuno, che colpisca i rivenditori di cannabis! Fino a ieri erano ancora ai margini della liceità, da oggi sono spacciatori a tutti gli effetti. E’ questa la loro natura. E la sentenza della Cassazione l’ha finalmente rivelata.

Tutti questi rigurgiti antiproibizionisti, francamente, ci fanno un po’ sorridere. Quelli che pensano che sia tutto lecito e che nulla vada proibito… Il loro atteggiamento pare piuttosto quello di chi vuol ingigantire oltremodo il concetto di “liberalizzazione” fino al limite del ridicolo. La liberalizzazione non va bene per tutto, è evidente. Ci sono settori che non si possono liberalizzare a piacimento. Quando si ha a che fare con la salute pubblica, come in questo caso, liberalizzare vuol dire spesso mettere a rischio i cittadini più vulnerabili. Siano essi tossicodipendenti che vogliano tornare a una vita sana… Oppure pedoni investiti da auto guidate da tizi sballati che hanno appena fumato una canna…

A questo punto, qualcuno potrà opporre al precedente ragionamento il paragone con le sigarette. Perché le sigarette si vendono senza problemi, mentre la cannabis suscita tutta questa antipatia? Perché non essere proibizionisti anche con le sigarette, che magari fanno pure più male? Risposta. Esistono già norme severe sul consumo di tabacco nei luoghi pubblici e al chiuso. La ratio sottostante è sempre e comunque la tutela dei soggetti deboli, i non fumatori nel caso specifico.

Ciò detto, chi fuma una sigaretta sa che ha maggiori probabilità di incorrere in determinate patologie. Deterrente al consumo personale potrebbe essere l’elevato prezzo delle sigarette, il quale funge anche da anticipo per le future spese che il servizio sanitario dovrà sostenere per curare le malattie correlate al fumo. Per quanto riguarda la cannabis, la presenza di principi psicotropi complica il quadro. Il problema qui non è l’atto del fumare in sé, ma l’effetto psicotropo che esso sortisce. Il quale può generare conseguenze imprevedibili e difficilmente controllabili. In buona sostanza, se fumi una sigaretta il problema è solo tuo, sempre che con te non ci siano soggetti vulnerabili. Se fumi cannabis, invece, il problema è garantire la sicurezza degli altri in generale. E ciò non è possibile, finché se ne consente la libera vendita al dettaglio.

Per questi motivi, è inopportuno che siano dei semplici rivenditori di cannabis a soddisfare la domanda dei consumatori. Si tratta in tutto e per tutto di farmaci che, come tali, andrebbero prescritti da specialisti e acquistati in farmacie autorizzate. Ogni altra modalità di vendita metterebbe a rischio non solo la sicurezza dei terzi, ma anche quella degli stessi consumatori. Un medico, in quanto competente in materia, può prescrivere farmaci psicotropi alla luce di visite specialistiche. Un qualsiasi commerciante, invece, ha come unico obbiettivo quello di guadagnare. E non è detto che non possa farlo in modi anche spregiudicati, arricchendosi deliberatamente sulla pelle di chi ha bisogno.

Costringere i negozi di cannabis a chiudere (o almeno a ridimensionarsi) è solo il primo passo. La sentenza della Cassazione, ribadiamo, non è che una goccia nell’oceano. Dal canto nostro, non saremo pienamente soddisfatti finché non vedremo i consumatori di droghe finire in galera, tanto quanto gli spacciatori. O perlomeno, puniti con una pesante sanzione pecuniaria. Se uno consuma una dose, anche “modica”, significa che da qualche parte l’ha presa. Se dietro il consumo non c’è il parere favorevole di un medico, ebbene quel consumo non può che avvenire fuori dalla liceità. Quella dose non è caduta dal cielo, ma è stata sicuramente acquistata da uno spacciatore. Il che ha contribuito ad arricchire un sistema illegale. Il consumo di quella dose, pertanto, è uno degli ingranaggi che hanno contribuito a mettere in moto quel sistema illegale. Ed ogni ingranaggio di un sistema illegale va bloccato, senza eccezioni.

Vostro affezionatissimo PennaNera