Perché?

Non sembra vero. Siamo passati da un sogno ad un incubo dei peggiori. Siamo passati da far piangere gli inglesi in casa loro a piangere noi in casa nostra per una sconfitta contro la Macedonia. Perché?

Da ore si assiste alla feroce ricerca di capri espiatori, su tutti Gravina e Mancini, ma anche Jorginho per i rigori sbagliati nel girone, Berardi per il goal sbagliato ieri, Donnarumma secondo alcuni colpevole sul goal subito (e lì diciamo subito la nostra: lasciate stare Gigio, quello era il classico “ Tiro della Domenica”, il macedone ha pescato il jolly). In pochi si fanno la domanda: perché?

Quattro anni fa venne rovesciato tutto addosso ad un uomo (che almeno uscì contro la Svezia e nel girone arrivò dietro la Spagna, altro che Macedonia e Svizzera!). Ora?

Che Mancini nel giro di qualche mese sia passato da “Uomo della Provvidenza” a perfetto ebete, non ce lo farete mai credere. Certo, se pensiamo che da Campione d’Europa in carica, Valcareggi si beccò i pomodori e venne scortato dalla polizia per aver perso una Finale Mondiale contro il Brasile di Pelé, Tostao, Gerson e Rivelino (dopo che solo qualche giorno prima la sua Nazionale ci regalò la partita più emozionante di tutti i tempi), in proporzione Mancini e i suoi cosa meriterebbero?

Dunque via Gravina, via Mancini, piazza pulita? Basterebbe?

Basterebbe una Rivoluzione in FIGC?

Sinceramente non sappiamo. Una cosa è certa: questa Nazionale è più forte della Svizzera e della Macedonia, quindi non merita alibi. La domanda però è: era più forte di Belgio, Spagna ed Inghilterra? O è stato un episodio, come fu per la Danimarca del 1992 che, arrivata quasi per caso all’Europeo (noi almeno questo no), batté Francia, Olanda e Germania? Come direbbe Quelo: la seconda che hai detto (almeno la sentenza del campo è stata questa).

Eravamo bambini quando la Nazionale nel 1982 superò Argentina, Brasile, Polonia e Germania, conquistando alla grande il Mondiale in Spagna. La stessa Nazionale, pochi mesi dopò pareggiò contro Cipro grazie ad un’autorete cipriota e ad una parata di Zoff nel Finale, per non parlare della sconfitta 2-0 in Svezia che fu tale solo perché Zoff si superò, altrimenti sarebbe stata goleada svedese. Allora però era una Nazionale che stava esaurendo il suo ciclo, questa avrebbe dovuto iniziarne uno.

Perché dunque?

La risposta se la deve dare il calcio italiano. Non tiriamo fuori la scusa che le squadre sono zeppe di stranieri. Lo erano già l’anno scorso e lo erano già nel 2006, quando si è vinto il Mondiale.

Il problema è che ora pure le squadre Primavera sono zeppe di calciatori stranieri, il che rende più difficile costruire una Nazionale di livello.

Diciamoci la verità però, quella di ieri è una vergogna (più decoroso sarebbe stato uscire per colpa di CR7 che non della Macedonia). Forse Barella non è il “Nuovo Tardelli”, forse Jorginho non è da Pallone d’Oro (ma nel Chelsea però continua a giocare, come Verratti nel PSG), Immobile non è un Vialli o un Paolo Rossi, ma con la Macedonia dovevano vincere. Scaricare addosso a Mancini è riduttivo (anche perché, onestamente: chi doveva convocare? Avesse avuto la possibilità di tornare trent’anni più giovane la vinceva da solo).

E qui veniamo al punto. L’Olanda post-Cruijff si guardò due Mondiali in tv. La Francia post-Platini idem. Il Belgio, che negli anni 80 ebbe un periodo soddisfacente (una Finale di un Europeo e un quarto posto al Mondiale 1986) è sparito per anni dai radar per poi essere, oggi, una delle Nazionali qualitativamente più forti. Noi siamo passati  dal dover lasciare a casa il Mancini calciatore (genio assoluto), dal permetterci di dire a Vialli di non giocare in Nazionale, andando più indietro dallo scegliere fra Causio e Claudio Sala (averceli oggi!), a quasi prendere in considerazione l’idea di richiamare Balotelli.

Sono cicli.

Ieri, uno di questi, che solo sei mesi fa sembrava non solo nato, ma cresciutello per l’età che aveva, forse è già abortito.

Lasciatelo stare!

jorginho

Le ultime partite dell’Italia sono state deludenti, questo è ineccepibile.

Dà però fastidio vedere che in molti, sui social e no, hanno già trovato un capro espiatorio: Jorginho.

Nelle ultime gare è emerso qualcosa che preoccupante è dire poco: l’Italia fatica a tirare in porta. Contro l’Irlanda poi, di interventi l’estremo difensore avversario non ne ha proprio fatti, l’occasione più ghiotta l’hanno avuta senza dubbio gli irlandesi e la parata più impegnativa l’ha fatta Donnarumma.

Non tiriamo più in porta. Forse anche perché pare che nessuno voglia assumersi questa responsabilità. Si indugia, si passa il pallone, ma nessuno tira, quasi a dire “Tiri qualcun altro perché io non mi prendo una responsabilità del genere”.

Ora, di fronte a questo, con chi se la prende il popolo bue? Con l’unico che, piaccia o meno, questa responsabilità se l’è voluta prendere (sbagliando, ma almeno se l’è presa). Certo, pure noi nel vederlo tirare alto quel rigore contro la Svizzera, abbiamo esclamato a botta calda: “Ne hai già sbagliati due, non potevi lasciar tirare un altro?”.

Poi però vediamo gli altri che piuttosto di tirare in porta passano la palla al raccattapalle e allora diciamo che tutto sommato, almeno lui ha mostrato un gran coraggio. Sapeva che se sbagliava sarebbe stato massacrato mediaticamente, ma si è dimostrato un uomo con le palle.

Dunque Jorginho probabilmente non vincerà più il pallone d’oro, ma non merita neanche il “Pallone di Merda” che qualcuno vorrebbe donargli.

Per noi Jorginho è e resta un signor centrocampista, che si è vinto da protagonista una Champions e un Europeo nel medesimo anno, scusate se è poco. L’Europeo poi, lo ha giocato sontuosamente, anche nella partita più sofferta della manifestazione (quella contro la Spagna, squadra che dal punto di vista del gioco ci aveva messo sotto), sebbene le difficoltà, non ha mai perso la bussola e ha dispensato raziocinio in mezzo al campo.

L’idea di fargli fare il capro espiatorio la rigettiamo senza se e senza ma.

Semplicemente meravigliosi!

campioni euro

Chi l’avrebbe detto? Chi, il 14 Novembre 2017,  il giorno dopo una  della serate più nere della storia del calcio italiano, avrebbe detto che al prossimo Europeo sarebbe successo quello che abbiamo visto ieri sera? Eppure è tutto vero! Siamo sul tetto d’Europa! Ci siamo arrivati meritatamente, partita dopo partita.

Il merito è della squadra, ma soprattutto di una persona: Roberto Mancini, che ha saputo costruire un capolavoro.

Il compito che aveva era difficile. Partiva però da un vantaggio quando è stato ingaggiato, toccare ancora più il fondo non avrebbe potuto, avrebbe solo potuto fare meglio.

Dopo poche partite si è capito che qualcosa di buono stava nascendo, certo chi immaginava una cosa del genere. E’ stato superbo nel suo ruolo di allenatore e di selezionatore, creando e plasmando un gruppo formidabile.

Diciamoci la verità, forse a livello di singoli c’erano Nazionali più forti della nostra, ma durante l’Europeo nessuna come noi è stata squadra. Bella, compatta, organizzata, determinata,  tutti vorrebbero una Nazionale con queste caratteristiche, il Mancio ce l’ha regalata!

Si è sempre detto (non senza fondamento, intendiamoci), quando la squadra di Mancini continuava a collezionare risultati utili, che  per renderci conto del valore dell’Italia, avremmo dovuto incontrare squadre più quotate di quelle incontrate fino agli ottavi.

Quando le abbiamo incontrate, abbiamo visto che questa Nazionale non era un bluff.

Nell’ordine: Belgio, Spagna e Inghilterra (quest’ultima in casa sua), sono state eliminate. A parte contro la Spagna, dove effettivamente le “Furie Rosse” ci hanno ingabbiato bene a centrocampo, col Belgio e contro gli inglesi siamo stati migliori degli avversari. Belgio rimesso in piedi da un rigore a  favore fischiato “Ad Minchiam”, senza il quale nel primo tempo avremmo chiuso il match e ieri, a parte il black-out iniziale, superiori agli inglesi senza se e senza ma.

Dunque vittoria non meritata, ma strameritatissima!

Certo, Donnarumma ha dimostrato di essere veramente il “Nuovo Buffon”.

Certo, Jorginho è stato da fantascienza e ci è veramente dispiaciuto che abbia sbagliato il rigore ieri, giacché qualche giargianese avrebbe magari subito dimenticato il tanto di buono che ha combinato l’italo-brasiliano, in tutti gli Europei  padrone assoluto  del centrocampo (a parte, come abbiamo già scritto, contro la Spagna),  ma per fortuna Gigio ha rimediato.

Certo, Chiesa ha dimostrato di essere un’arma micidiale per velocità, tecnica e classe.

Che dire poi dei due centrali, in particolare (non ce ne voglia Bonucci, che è stato superlativo) del capitano Giorgio Chiellini, che dopo anni di Finali internazionali perse con il suo club e con la Nazionale (2012), finalmente ne ha vinta una da protagonista, giocando un Europeo sontuoso in marcatura sui suoi avversari.

Ma quest’Italia è stata un blocco, in cui tutti hanno contribuito alla causa, anche chi subentrava, ecco perché insistiamo che questa è vittoria di squadra.

il calcio è sport di squadra. L’Italia è stata più squadra di tutti. L’Italia ha vinto.

Grazie ragazzi, grazie Mancio!

Ciao Pablito!

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Quindici giorni fa Diego, ieri Pablito. Due calciatori e due personaggi completamente differenti  (non solo per il sistema di gioco, ma caratterialmente) entrambi però facenti parte, per noi che negli anni ’80 eravamo bambini, della nostra infanzia.

Perché Paolo non è stato solo “El hombre del partido”, il cannoniere del Mundial 1982, è stato di più.

E’ stato, insieme agli altri “Ragazzi di Bearzot”, il simbolo di una squadra bella, vincente, amata, rispettata. L’Italia del 1982 è stata ciò che avremmo voluto che fosse l’Italia come paese e in quell’estate si può dire che lo fu.

Perché agli occhi del mondo  (anche se forse per poco) in quel periodo non eravamo più “Italiani spaghetti mafia, mandolino”, ma eravamo “Paolorossi”.

In queste ore su di lui è già stato scritto e detto  tanto, perciò non staremo a ripercorrere le tappe della sua straordinaria carriera.

Una cosa però ci ha sempre colpito. Dietro a quell’uomo che sembrava fragile, fisicamente non possente rispetto ad altri cannonieri (si pensi a Riva, a Boninsegna, a Bettega), timido, si nascondeva una forza d’animo insospettabile.

Ci riferiamo a quando, nel 1980, venne squalificato per due anni a causa del Calcio-Scommesse. Mesi fa abbiamo scritto anche un post al riguardo, quella squalifica fu discutibile e contraddittoria per certi aspetti. La sua fu semplice omertà, piuttosto che voglia di fottersene delle regole e della sportività al fine di ottenere un vantaggio.

Perse due anni della sua carriera (aveva 24 anni e ricominciò a 26, perdendo  quello che per un calciatore è un periodo “buono”), tornò in Nazionale e le prime partite beh, non brillò certo.

Nonostante ciò continuò a lavorare, anche grazie al fatto che aveva alle spalle un uomo che in lui ci credette fino all’ultimo, senza se e senza ma e che alla fine dimostrò che crederci ne era valsa la pena: Enzo Bearzot.

Fu così che una carriera che sembrava compromessa irrimediabilmente, si riaccese e dalle stalle del Calcio Scommesse passò alle stelle del Mundial, del Pallone d’oro e della gloria che lo accompagnerà per sempre, regalandoci parecchi insegnamenti.

Paolo Rossi ci ha insegnato che anche se nella vita non sei un bulldozer, puoi farcela.

Soprattutto ci ha insegnato che nulla è perduto, che se si tocca il fondo, ci si può sempre dare una spinta per cercare di risalire.

Ci ha insegnato che senza la prosopopea che hanno molti calciatori oggi (e che si sognano di fare ciò che ha fatto lui) si possono fare grandi cose.

Ci ha insegnato che si può diventare eroi rimanendo normali.

Ci ha insegnato che anche se gli altri hanno Zico, Falcao, Socrates, Eder, Junior, si possono battere.

Grazie Paolo, per i goal, per il campione che sei stato e per quello che ci hai insegnato.

I Pionieri del calcio-Francesco “Franz” Calì, il primo capitano della Nazionale

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(Francesco Calì)

 

“….Per calma, sicurezza, e per la perfezione del giuoco il più degno a coprire il posto di capitano del nostro undici nazionale…”.

Provate ad indovinare a chi La Gazzetta dello Sport dedicò queste parole. A Giacinto Facchetti? A Gaetano Scirea? A Dino Zoff? A Franco Baresi? A Paolo Maldini? Tutti calciatori (capitani della Nazionale) a cui questa descrizione sarebbe calzata a pennello, senza alcun dubbio.

La  Gazzetta dello Sport però non dedicò queste parole ad uno di loro. Le dedicò a Francesco “Franz” Calì, il primo storico capitano della Nazionale, dopo la prima partita ufficiale degli Azzurri, disputatasi il 15 maggio 1910 all’Arena di Milano.

Fu scelto capitano per due motivi. Uno “gerarchico” in quanto  era il giocatore più anziano, l’altro “culturale” poiché  avendo vissuto in Svizzera sapeva le lingue, conoscenza importante all’epoca in quello che fu il primo incontro internazionale dell’Italia (immaginiamo se oggi a Bonucci, l’attuale capitano della Nazionale, venisse chiesto di sapere pure l’inglese e il francese per ricoprire tale ruolo…).

Chi era Francesco Calì?

Nato nel 1882 a Riposto, in Sicilia, dovette trasferirsi in Svizzera giacché è lì che emigrò la sua famiglia, in cerca di fortuna.  Un assalto di pirati infatti, mise in ginocchio l’azienda familiare, dedita al commercio di vini.

Fu lì che iniziò a giocare a calcio e fu lì che si guadagnò il soprannome di Franz.

In seguito la famiglia tornò in Italia e riprese l’attività di commercio vinicolo e lui mise a frutto la sua esperienza calcistica accumulata in Svizzera.

Insieme al fratello Salvatore si trasferì a Genova e lì giocò prima nel Genoa e dal 1902 nell’Andrea Doria.

In Nazionale, oltre a giocare, fu più volte membro della Commissione tecnica (insieme ad Umberto Meazza, un altro “Pioniere” di cui ci siamo occupati in un post precedente, pubblicato il 24 giugno di quest’anno).

Anche lui, come altri protagonisti del calcio dei suoi tempi, venne richiamato alle armi e diede il suo contributo durante la Prima Guerra Mondiale, rimanendo ferito.

Terminato il conflitto, divenne editore di cartoline, non abbandonando la sua passione per il football. Nel 1944 infatti venne nominato Presidente dell’Andrea Doria, che due anni dopo farà la fusione con la Sampierdarenese dando vita alla Sampdoria.

Morirà a Genoa nel 1949.

Un’ulteriore curiosità. Calì fu anche arbitro. Nel 1902 arbitrò Juventus-Milan, valevole per la Coppa Città di Torino. Calì all’epoca, come potete intuire leggendo la sua carriera, era in attività come calciatore, ma all’epoca gli arbitri venivano scelti su indicazione della società di appartenenza. Vi immaginate se oggi Juventus-Milan venisse arbitrata da un calciatore della Sampdoria in quanto considerato neutrale?

Erano veramente altri tempi…

I pionieri del calcio-Umberto: l’altro Meazza

Umberto-Meazza

Quando si pronuncia il cognome Meazza, è ovvio che il pensiero vada subito al grande “Peppin”, forse il più grande calciatore italiano di tutti i tempi e vada anche allo stadio di San Siro a lui intitolato.

C’è stato un altro Meazza però, meno famoso, che ha calcato le scene del calcio italiano: si chiamava Umberto (nella foto sopra) e a quanto risulta, con il più famoso Giuseppe non era neppure parente.

Immaginiamo se oggi, invece di Mancini, alla guida della Nazionale ci fosse una commissione di arbitri, per garantire l’imparzialità. Pensiamo se, ad esempio, per fare le convocazioni, per fare gli allenamenti e le formazioni, si riunissero Rocchi, Guida, Orsato, Doveri e qualche altro loro collega, decidendo tutti insieme e dividendosi i compiti. Naturalmente impensabile: eppure era ciò che accadeva più di cento anni fa.

Prima che il grande Vittorio Pozzo infatti assumesse la guida della Nazionale, portandola ai traguardi che tutti conosciamo, non vi fu un unico allenatore a decidere chi dovesse o meno giocare in azzurro, ma una Commissione Tecnica. Ebbene, la suddetta negli anni cambiò spesso i suoi componenti, ma Umberto Meazza fu uno di quelli che, in vari periodi (dal 1910 al 1924), ne fece maggiormente parte, con 32 presenze.

La prima Commissione, quella che nel 1910 decise la formazione per la prima, storica partita contro la Francia disputata all’Arena di Milano, era composta tutta da arbitri, fra cui Meazza.

Chi era dunque Umberto Meazza? Nato nel 1880 a Casteggio (in provincia di Pavia),  morì nel 1926 a Milano. Commerciante di vino, era un grande appassionato di calcio, che  praticò giocando nel Mediolanum e nell’US Milanese.  Divenne arbitro, fondando nel 1911 l’AIA ( l’Associazione Italiana Arbitri). A lui e a Giulio Campanati (ex arbitro e dirigente arbitrale, per tanti anni presidente dell’AIA) è intitolata la Sezione Arbitri di Milano.

Fu dunque senza dubbio una figura carismatica nel mondo dirigenziale ed arbitrale del nostro calcio. Prima giocatore, poi arbitro e allenatore contemporaneamente, oggi nel calcio una figura del genere non potrebbe esistere.

 

Precisazione doverosa: le informazioni per scrivere questo post sono state prese dai siti https://storiedicalcio.altervista.org/blog e www.calcioromantico.com

 

 

 

I pionieri del calcio-Renzo De Vecchi: il primo “colpo di mercato” della storia

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Come sapranno anche le pietre, la storia del calcio è piena di colpi di mercato in cui vengono spese cifre incredibili non solo per calciatori stranieri, ma anche per quelli italiani. Facciamo qualche esempio: il trasferimento di Savoldi dal Bologna al Napoli, l’acquisto di Baggio dalla Fiorentina da parte della Juventus,  il passaggio di  Donadoni al Milan dall’Atalanta, oppure il trasferimento (non privo di oscure trame) di Lentini dal Torino al Milan e ancora  l’acquisto di Cassano dal Bari da parte della Roma.

Immaginiamo se, in questi trasferimenti di calciatori di prim’ordine (o di chi era destinato a diventarlo, come Cassano quando si trasferì alla Roma), le società che li acquistarono, pur di assicurarsene le prestazioni, avessero promesso, oltre all’ingaggio, un impiego sicuro in banca.

Ovviamente impensabile (particolarmente per quanto riguarda Cassano..).

Eppure è ciò che accadde nel 1913, più di 100 anni fa, quando  il Genoa strappò al Milan il diciannovenne Renzo De Vecchi offrendogli, oltre a 24000 lire di ingaggio annuo (non facciamoci ingannare, considerando che all’epoca lo stipendio medio di un operaio era di 3 lire al giorno, era una cifra sensazionale). Ci fu però un problema. I regolamenti dell’epoca autorizzavano i trasferimenti dei calciatori da una città all’altra solo se comprovati da esigenze lavorative. Il Genoa superò anche quest’ostacolo: De Vecchi venne assunto come impiegato presso la Banca Commerciale Italiana a Genova, con uno stipendio ben più sostanzioso di quello che riceveva a Milano, dove operava come impiegato in un Istituto di credito e fu libero di trasferirsi sotto la Lanterna.

Ma chi fu  Renzo De Vecchi?

Fu senza dubbio il primo grande terzino italiano. Abile negli interventi, guida sicura per i compagni già quando a soli 15 anni, nel 1909, esordì nel Milan: in pratica un Paolo Maldini d’inizio ‘900.

Per la sua classe venne battezzato dai tifosi milanisti  con un soprannome che dice tutto: “Figlio di Dio” e che si portò dietro sia  quando si trasferì a Genova, sia quando giocò in Nazionale.

A proposito di Nazionale, pochi sanno che De Vecchi è tuttora il più giovane calciatore di sempre che vi ha esordito: segnatamente il 27 maggio 2010 a Budapest contro l’Ungheria, all’età di 16 anni.

Con i colori del Genoa vinse tre campionati, giocò fino al 1930, dopo fece l’allenatore per qualche stagione.

Morì nel 1967, a 73 anni, a Milano, dove era tornato a risiedere.

Allora il calcio era già cambiato, i calciatori in banca non ci avrebbero voluto più lavorare,  ci andavano solamente a portare i soldi e a prelevarli.

 

 

I Pionieri del calcio-Virgilio Fossati: allenatore, giocatore, soldato

Virgilio_Fossati

(Nella foto: Virgilio Fossati)

Più di una volta abbiamo udito la frase: “È un allenatore in campo”, rivolta a quei giocatori la cui abilità tattica risulta superiore a quella dei compagni.

Ebbene, Virgilio Fossati, nato a Milano nel 1889, allenatore in campo lo fu davvero.

Immaginatevi oggi, nell’Inter, Lukaku, piuttosto che Brozovic, oppure Handanovic, che mentre stanno giocando decidono le sostituzioni, dicono ai loro compagni che zona del campo devono coprire e via dicendo..

Era quello che accadeva più di cento anni fa (escluso il discorso relativo alle sostituzioni, allora non previste),  quando appunto Virgilio Fossati, ottimo centrocampista dell’epoca, ricopriva il ruolo di giocatore e allenatore della sua squadra: l’Inter, con cui vinse il campionato 1909/10.

Allora quella del giocatore-allenatore era una figura presente in quasi tutte le squadre, oggi è quasi scomparsa. L’ultimo ad aver ricoperto quel ruolo con successo (vittoria nella Coppa delle Coppe), almeno per quanto ricordiamo, è stato Gianluca Vialli col Chelsea, in Inghilterra, dal 1998 ad inizio 2000.

Fossati fu un valoroso centromediano e per la sua bravura tattica giocò anche in Nazionale. Nella prima partita della storia degli azzurri, vinta 6-2 contro la Francia all’Arena Civica di Milano, tra i marcatori vi è  anche il suo nome.

Giocò fino al 1915 sia in Nazionale che nella “sua” Inter (di cui fu oltre che allenatore e giocatore, pure capitano, per non farsi mancare nulla..), ma poi la sua carriera terminò.

Purtroppo non furono un contrasto di gioco, un infortunio o un improvviso problema fisico a chiudere la carriera di Virgilio, ma fu ben di peggio.

Nel 1915, in barba ad alleanze contratte trent’anni prima, l’Italia dichiarò guerra all’Austria. Iniziava la Prima Guerra Mondiale, che vide molti giovani innocenti perire al fronte. Tra questi ci fu anche Virgilio Fossati.

Nel giugno 1916, questo bellissimo esempio di calciatore-allenatore,  morì a Monfalcone in uno scontro con gli austriaci. Morì da capitano dell’8º Reggimento di fanteria della Brigata Cuneo.

Il suo corpo non fu mai più trovato.

Ecco le motivazioni per cui gli fu conferita la Medaglia d’Argento al valore militare: “Dopo aver svolto in tutte le fasi del combattimento attiva e audace opera si offriva spontaneamente per rintracciare possibili varchi nel  reticolato nemico ed in tale ricerca cadeva colpito a morte incitando i soldati ad avere fiducia nell’esito vittorioso dell’azione”.

A distanza di più di cent’anni dalla sua scomparsa, è giusto ricordare questo pioniere del calcio, vittima (come altri suoi colleghi calciatori dell’epoca) dell’atrocità della guerra.

Ovunque tu sia, R.I.P. Virgilio Fossati.

 

 

 

Per favore lasciate stare Vittorio

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(La Nazionale campione del mondo nel 1938. Al centro, Vittorio Pozzo)

La Nazionale ieri ha vinto 5-0 contro il Liechtenstein. Così facendo, ha raggiunto la nona vittoria di fila, fatto che non succedeva dai tempi di Vittorio Pozzo. Però c’è un però.

Pozzo in quelle nove sfide vinse anche (in Coppa del Mondo) contro la Francia in casa sua, il Brasile e l’Ungheria, non contro Liechtenstein, Grecia e Finlandia.

Perciò, titoli trionfalistici come quello del Corriere dello Sport stamattina, fanno sinceramente un po’ ridere.

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Non si possono paragonare infatti le vittorie di questa Nazionale, che pur sta facendo benissimo, intendiamoci, a quelle di una Nazionale che, cambiando gli uomini, ma non l’allenatore, portò a casa due Mondiali ed un Olimpiade.

Piaccia o no, il periodo di Pozzo CT è stato quello in cui l’Italia le ha suonate a tutti, è stato il periodo in cui veramente la nostra Nazionale era la migliore al mondo.

Ha avuto solo un torto, quella squadra: ha vinto e convinto nel periodo sbagliato. Ha vinto nel periodo in cui in Italia vi era una dittatura e in cui i calciatori (crediamo più per costrizione che per scelta propria) facevano il saluto romano (che, non dimentichiamo, in quel periodo erano 40 milioni di italiani a fare, non solo loro). Per questo forse, oggi è ingiustamente finita nel dimenticatoio ed è snobbata, trattata con la puzza sotto il naso.

Noi però siamo sportivi e analizziamo semplicemente i fatti sportivi. I fatti dicono che vincere 3-1 in casa della Francia, 2-1 contro il Brasile, 4-2 contro l’Ungheria (che un tempo calcisticamente era uno dei paesi più in auge), non è come vincere 2-0 con la Grecia oppure 0-5 in casa del Liechtenstein.

Dunque lasciamo perdere i paragoni.