Lavoro, follie e calcetto

La settimana appena conclusa si è distinta, tra i vari avvenimenti, per le polemiche sul solito Ministro Poletti che colpisce ancora con la sua inadeguatezza. E più che un politico, mi sembra di avere dinnanzi un comico che si avvale di pessimi autori, tanto le sue espressioni sono fuori luogo e in grado di generare estenuanti infiniti dibattiti. Perché, ovviamente, non contento della prima gaffe, ha continuato a parlare, oltre che di calcetto, anche di relazioni sociali e volontariato.

Forse è il caso di cominciare a chiarirsi un po’ le idee. A mio avviso, il concetto espresso da Poletti è abbastanza banale e, in un certo senso, fa breccia in un punto nevralgico del mondo lavorativo.

Che i rapporti di fiducia (se così vogliamo chiamarli) siano spesso necessari per poter avviare un’attività lavorativa è un qualcosa di cui, ormai, siamo purtroppo tutti convinti. Si sente spesso dire, infatti, che per trovare lavoro bisogna conoscere qualcuno, che senza le opportune relazioni non si va da nessuna parte.

Dunque, il diffuso convincimento che il mondo del lavoro si basi fin troppo sul cosiddetto “familismo” di certo non aveva bisogno di un Ministro che, invece di sottolineare l’importanza del curriculum, ha finito per degradarlo parlando di occasioni di lavoro nate durante una partita di calcetto. Soprattutto, alla presenza di tanti giovani che iniziano a prendere confidenza con il mondo del lavoro, anche se con un progetto scolastico, quale l’alternanza scuola – lavoro, di cui spesso gli stessi ragazzi lamentano il malfunzionamento.

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Un’azienda privata non è un ente di beneficienza, questo è abbastanza ovvio. Il nostro ordinamento costituzionale sancisce espressamente che l’iniziativa economica privata è libera, pur nei limiti del rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Dunque, in un’ottica liberale, tale attività è preordinata al raggiungimento del profitto e, a tal fine, l’azienda ha bisogno di figure professionali adeguate, magari da formare, ma che rispondano alle esigenze produttive.

In tale contesto, il curriculum non può perdere la sua importanza e dovrebbe svolgere il suo ruolo primario di suscitare l’attenzione di un direttore delle risorse umane che dietro quel foglio cartaceo o elettronico potrebbe non vedere soltanto un anonimo bisognoso di assunzione, ma una personalità ricca di sfumature con il suo complesso bagaglio di studi, interessi, esperienze. La convinzione che le persone più adatte possano essere rintracciate nelle cosiddette “relazioni sociali” può far perdere di vista le professionalità migliori.

Lo Stato, invece che favorire le realtà lavorative basate sul familismo, dovrebbe ricordarsi un po’ più spesso del suo ruolo costituzionale (tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni) e favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, sostenere i giovani nei loro spostamenti sul territorio nazionale alla ricerca di opportunità, convincere e incentivare le aziende a rischiare nel selezionare le professionalità di cui hanno bisogno, andando al di là della cerchia dei “soliti noti”.

Tutto questo nel cosiddetto “libro dei sogni”. Nella realtà, continuiamo ad avere un Ministro che, invece, si ostina a dire che per lavorare bisogna giocare a calcetto, fare volontariato e diventare amici di qualcuno. Intanto le professionalità migliori continuano ad andare all’estero lasciando che il nostro Paese affoghi completamente.

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Lavoro, giovani in fuga e frasi fuori luogo

Frasi fuori luogo, espressioni infelici, molti nostri politici ne hanno sempre una a portata di mano, incapaci di collegare il cervello alla bocca ed evitare di darvi solo aria.

Per non smentire tale abitudine, il Ministro Poletti ha deciso di rivolgersi ai centomila giovani in fuga dall’Italia, affermando che è meglio che alcuni di loro non stiano più tra i piedi. Poi, le scuse tardive, del tipo “non volevo dire ciò che ho detto“.

Ascoltando queste parole, mi è venuto in mente un episodio legato alla campagna referendaria, quando Renzi scrisse lettere ai giovani italiani all’estero e una ragazza in video gli rispose dicendo che dopo il voto di sicuro il Premier si sarebbe nuovamente dimenticato di loro. Mi chiedo cosa abbia pensato quella ragazza ascoltando le parole di Poletti.

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Ragazzi che in Italia non hanno trovato le opportunità che cercavano, che hanno avuto il coraggio di affrontare una nuova vita all’estero per mettere finalmente a frutto le proprie capacità, lasciando familiari e affetti, forse meriterebbero un po’ più di rispetto e considerazione da parte dei nostri vertici, che negli anni si sono sbizzarriti con vari termini, da “bamboccioni”, a “choosy” e “pistola”.

Nel frattempo, si stanno spegnendo sempre più le speranze che la giovane Fabrizia Di Lorenzo non sia tra le vittime della strage di Berlino di ieri sera. Anche Fabrizia è un “cervello in fuga”, laureata a Bologna, ma trasferitasi nella capitale tedesca per lavorare in un’azienda di trasporti. Anche lei all’estero, via dal nostro Paese e ora questa terribile sorte.

Fabrizia

Intanto, il dibattito politico sterilmente va avanti tra leggi elettorali e discussioni infinite sul curriculum della Ministra Fedeli. Che avrà certamente commesso qualche “inciampo lessicale” nell’illustrare i suoi titoli di studio, che magari non vanterà gli altisonanti titoli dei Professori del Governo Monti (che tanti danni hanno fatto e ancora oggi ce ne lamentiamo), ma che forse potrebbe tranquillamente iniziare a lavorare ed essere giudicata per il suo operato.

A farci tornare con i piedi per terra ci prova Marco Furfaro, un politico di cui ammiro l’onesta intellettuale e l’oggettività degli interventi, che tra lauree e fughe all’estero, ci ricorda un altro dramma del mondo del lavoro, le morti bianche: “Gli mancavano 15 minuti per finire il turno e tornarsene a casa, da sua moglie e dai suoi bimbi. Stava lavorando una billetta, un semilavorato a forma di sbarra che si usa in metallurgia. Parte una scheggia, gli penetra nell’occhio, arriva al cervello. Viene ricoverato subito in condizioni critiche, troppo critiche. Morirà qualche ora dopo. Aveva 39 anni, Marcello. Lavorava alla Pandolfo di Lentiai, in provincia di Belluno. E oggi abbiamo il dovere di parlare di lui. Lasciamo ai talk show e alla brutta politica il commento sulle battute di Giachetti, i mancati post di Di Maio, la laurea della Fedeli. La sinistra ha un senso se torna a parlare di ciò di cui non parla più nessuno, di chi muore sul lavoro e finisce su un trafiletto di cronaca. Perché le morti bianche sono ancora troppe e la modernità ha un senso se garantisce sicurezza”.

Non penso di dover aggiungere altro, nella speranza che queste parole si concretizzino in interventi che diano più dignità e sicurezza ai lavoratori.

Morti bianche