Il diritto a riappropriarsi della propria vita

Una massima che tutti conosciamo molto bene è “si lavora per vivere, non si vive per lavorare“. Potrebbe apparire scontata ai più, forse, ma di fatto viene molto spesso disapplicata.

Ci lasciamo prendere dalle incombenze lavorative, prolunghiamo l’orario di ufficio oltre l’umana sopportazione, magari ci portiamo il lavoro a casa. Tutto questo, per tentare di raggiungere i nostri obiettivi, ottenere un avanzamento di carriera o semplicemente fare bella figura con il capo che conta su una squadra efficiente, più che altro per alimentare il proprio prestigio. La continua disponibilità genera maggiori aspettative con un aumento delle pressioni e dei carichi di lavoro, il classico serpente che si morde la coda.

A prescindere dalla capacità di raggiungere i nostri obiettivi, il nostro tempo libero diventa inesistente, diviene impossibile dedicarsi ai propri affetti e ai propri interessi.

Ho sempre detestato l’idea di poter essere reperibile al di fuori dell’orario di lavoro: la possibilità che qualcuno possa chiamarmi, mandarmi messaggi o e-mail anche nel fine settimana e che io debba essere costretto a rispondere mi pone in uno stato di continua angoscia, come se mi sentissi perseguitato.

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Tuttavia, poche ore fa ho letto una notizia davvero interessante, secondo cui la Francia sarebbe uno dei primi Paesi ad aver varato una legge che fissa un nuovo principio per tutti i dipendenti: staccare telefono e computer, non rendersi sempre reperibili. In pratica, la legislazione francese avrebbe sancito il “diritto alla disconnessione“, da applicare concretamente mediante accordi tra imprese e sindacati. Principio che dovrebbe essere adottato anche in Italia, sebbene tempi di approvazione del disegno di legge e criteri applicativi non mi siano noti.

La notizia mi consola, ma nello stesso tempo suscita in me alcune perplessità. Il diritto ad essere disconnessi fuori dell’orario di lavoro, anche senza norme specifiche, doveva essere il risultato di una scelta di buon senso di aziende e lavoratori. Questi, invece, sono i primi a “trasgredire“, a quanto pare.

Dunque, siamo al paradosso di uno Stato che deve stabilire per legge cosa non deve fare un lavoratore nel tempo libero. D’altronde, se noi siamo i primi a non pensare a noi stessi.

In ogni caso, mi chiedo cosa accadrà alla resa dei conti: aziende e sindacati riusciranno a trovare un accordo su come i dipendenti devono gestire il proprio tempo libero?

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