MANFRINA (Jingle Bells)

Diciamocelo chiaro: la tutela della salute della gente non è mai stata la loro priorità.
Ciò che a loro preme è non scombussolare l’esistenza di medici e direttori di ospedali oltre un certo limite. Daltronde, le lobbies di questi signori sono potentissime!
Ma il nuovo dpcm intende compiacere anche governatori e sindaci.
Per le feste, compri solo nelle rivendite della tua regione e, a Natale e Capodanno, mangi solo alla trattoria del tuo paesello.
Non sia mai che ti venga in mente di portare i tuoi soldi altrove…!
Puoi percorrere centinaia di chilometri, andando da Arezzo alla Cisa, o in Maremma, oppure fino nell’esclave di Cicognaia, all’interno della provincia di Rimini, ma ti è vietato farne 40 per raggiungere il lago Trasimeno, che, ahimè, si trova in Umbria.
Intendiamoci. Non c’è niente di male a cercar d’incentivare le economie locali.
Ma perchè non dirlo apertamente, anzichè ricorrere sempre ai soliti sotterfugi, e rifilare, per l’ennesima volta, al cittadino il ritornello delle precauzioni e del rischio-contagio?
Quand’è che la si fa finita con questa manfrina ipocrita?

QUALE INDUSTRIA?

La Confindustria si è sempre, più o meno, scagliata contro le restrizioni imposte dal governo alla nazione.
Ciò porta il mio pensiero al mondo dell’industria, ma mi astengo dal prendere posizione a favore/sfavore di entrambi i soggetti testè citati.
Penso, piuttosto, a che cosa si è ridotta la produzione industriale in questo paese.
Non abbiamo mai avuto fabbriche particolarmente ciclopiche, neppure nel passato; però, costruivamo treni, automobili, autocarri, frigoriferi e lavatrici…, oltre che macchinari per tessere, per assemblare capi di abbigliamento.
Poi, molto è scomparso, in parte (s)venduto a multinazionali predatrici a caccia di un marchio, in parte decentrato in zone del globo dalla manodopera a basso costo (dove un lavoratore guadagna in cinque anni quello che un tecnico da noi prende in un mese).
Oggi come oggi, l’industria che conta (e che rende) è quella dell’alta tecnologia, soprattutto in ambito digitale, laddove, qui, siamo particolarmente sguarniti, fatta eccezione per qualche sparuta realtà, non certo in grado di incidere sul p.i.l.
Il genio italico non è che eccella in molte cose, ultimamente. Sa fare telefonini…, per esempio? Sa fare chimica industriale, forse? O centrali nucleari? Oppure nanotecnologie e robotica? O, magari, vaccini contro malattie, altrimenti, incurabili???
Sa far da mangiare, questo sì! Sa fare pasta e vini. Sa fare il prosecco,  il parmigiano e la mortadella. Ma questa è roba che, all’estero, rientra tra i generi squisitamente voluttuari, e che pochi benestanti possono permettersi (anche perchè viene venduta a prezzi astronomici), quindi non suscettibile di consumi talmente vasti da assicurarci export e prosperità a vita. Nel mondo, siamo famosi per il cibo (oltre che per la mafia, la lirica e la nostra endemica disorganizzazione), ma questo è l’unico fiore all’occhiello che abbiamo.
Per il resto, importiamo. O, nella migliore delle ipotesi, contribuiamo alla produzione altrui con della componentistica.
Ecco perchè quella della Confindustria mi pare prosopopea fuori luogo, oltre che una voce sempre alquanto sgraziata.

LA’ E QUI

Esistono paesi dove il senso civico e del bene comune è talmente alto che un capo di governo può tranquillamente permettersi di annunciare un aumento venturo delle tasse e nessuno si scompone più di tanto.
Sarà che trattasi di britannici, proverbialmente flemmatici ed imperturbabili, ma pare proprio che, di fronte alla necessità di rimpinguare le casse dello stato, sconquassate dalle conseguenze del covid19, i sudditi di sua maestà Elisabetta II siano rassegnati e comprensivi, per non dire propensi ad offrire ciascuno il proprio contributo al risanamento dell’erario.
La manovra non sarà immediata; per prima cosa si dovrà uscire definitivamente dall’incubo dell’epidemia; ma, intanto, la gente ha la possibilità di abituarsi alla prospettiva di un aumento del prelievo fiscale e mettersi debitamente l’animo in pace – to set their mind at ease, come dicono da quelle parti…
Mi faccio un risolino, tra me e me, pensando a cosa succederebbe qui, se il presidente del consiglio, o un qualsivoglia ministro, andasse a dichiarare, alla stampa o alla televisione, che, finita la follia del virus, il governo aumenterà le tasse per risanare l’enorme esborso di denaro fagocitato dall’emergenza.
Qui…, dove non si dorme la notte pur di scovare un mezzo per eludere una gabella; dove non ti fanno una fattura nemmeno se minacci di riferirlo allo zio, colonnello della finanza (guardia…); dove il concetto di imposizione di tasse equivale a quello di “mettere le mani nelle tasche delle persone”…
Ma scherziamo…? Qui, sarebbe la messa a ferro e fuoco del parlamento da parte delle opposizioni, ma anche degli alleati della coalizione. Qui, protesterebbero tutti, dagli imprenditori, agli operai, ai sindacati, ai pensionati. E il prezzo di caffè e cornetto al bar schizzerebbe subito a cifre  esorbitanti.
Qui…
…dove si puntano sempre i piedi nell’esigere di essere “ristorati”, prima di sentire il ben che minimo richiamo al dovere di “ristorare”.

GRAMMATICA VIOLENTATA

Il mio viaggio nella terra delle parole usate ed abusate prosegue, questa volta, esaminando un altro termine, oggigiorno utilizzato sovente a sproposito: l’aggettivo “sostenibile”.
Come si sa, la stragrande maggioranza degli aggettivi deriva da un sostantivo, di cui essi descrivono la qualifica (es., legno, legnoso).
Non è il caso del “nostro”, dato che, qui, all’origine c’è un verbo. Anzi, a dirla tutta, il vocabolario della lingua italiana classica neppure ne prevede l’esistenza; segno che trattasi, presumibilmente, di un neologismo (dei tanti di cui abbiamo preso a far uso per comodità e brevità di espressione, per lo più derivanti da idiomi stranieri, soprattutto l’inglese, o dall’imitazione del costume degli americani di coniare, da termini preesistenti, nuove parole dal contenuto figurato, allo scopo di focalizzare immediatamente l’attenzione di chi ascolta su un tema specifico). Comunque, in questo caso, il processo è addirittura inverso. E’ il sostantivo, “sostenibilità”, a generarsi dall’aggettivo.
“Sostenere” significa “sorreggere, mantenere in piedi”. Ma le accezioni secondarie, in italiano, sono svariate. Può voler dire “sopportare” (un impegno), “proteggere, incoraggiare” (un progetto, una compagine sportiva), “appoggiare, affermare” (una causa), o ancora “nutrire, alimentare” (l’organismo fisico umano o animale), e persino “resistere a, tollerare” (la fatica, la malattia, il dolore).
Il passaggio al concetto di salvaguardia dell’ambiente è breve. Va in questa direzione, infatti, l’ulteriore specificità impressa all’aggettivo “sostenibile”, attraverso l’aggiunta del prefisso “eco”, che ne stigmatizza il riferimento preciso all’insieme delle condizioni climatiche del pianeta e di tutti quegli elementi, presenti sul pianeta, che per noi abitatori  rappresentano una risorsa.
Ma, attenzione, abbiamo già assistito, con ribrezzo, all’uso improprio del termine “resilienza”, per non sussultare ogni qual volta sentiamo sproloquiare di “agricoltura sostenibile”, di “industria sostenibile”, di “produzione sostenibile”. Dato che l’intento di chi utilizza tali espressioni è  esclusivamente quello di riferirsi alla tutela dell’ambiente attraverso azioni che ne preservino equilibrio ed integrità, allora è il sostantivo ad entrare in gioco, qui, non l’aggettivo, se si ha a cuore la grammatica e non le si vuole usar violenza. In conclusione, “sostenibilità dell’ambiente” è corretto; “ambiente sostenibile” sbagliato.
Peggio ancora se si parla di “finanza sostenibile” o di “debito sostenibile”, laddove l’azione di tutela, espressa dall’aggettivo, lecita e sacrosanta in merito all’ambiente, in questo caso è addirittura deprecabile, in quanto suscettibile di famigerate manovre foriere di ristrettezze e di austerità, a danno dei cittadini, in tempi di crisi nell’eurozona, a causa di un debito pubblico smisurato o di finanze dissestate, relativi ad un determinato paese membro.
Il debito di uno stato non lo si sostiene; lo si regolamenta attraverso opportune azioni conseguenti a formule matematiche precise (calcolo del rapporto tra P.I.L. e tasso d’interesse applicato all’indebitamento).
Le scellerate regole del cosiddetto “Patto di stabilità”, tanto care a certi europarlamentari rigoristi (come gli olandesi o gli austriaci, per esempio), dovrebbero espletarsi proprio attraverso il “sostegno” alla finanza, piuttosto che alla crescita ed al benessere delle persone, una volta passato il covid19 e non appena si profilino, in Europa, segnali di ripresa economica.
Per quel che mi riguarda, biasimo con tutto me stesso questa linea d’azione mortificante e vessatoria nei confronti del popolo, e, rimanendo ligio al significato-base del termine “in oggetto”, dichiaro che certe idee non sono affatto “sostenibili”.

CONTABILE

Nel paese dei “quaquaraqua”, si cercano commissari tra gli amici degli amici.
E, puntualmente, si trovano solo oche capitoline che hanno sproloquiato troppo ed… a sproposito, al punto da diventare impresentabili, oltre che inascoltabili.
Tanto varrebbe cercarli con la bacchetta del rabdomante… Forse ne salterebbe fuori qualcuno dotato di un minimo di sobrietà.
La rete, come sempre succede, si scatena con frasette (…e vignette) ilari ed ironiche, per non dire caustiche.
Eppure, basterebbe un buon commercialista…, o un ragioniere. Insomma, un oscuro contabile, che sappia fare il suo lavoro e non necessiti di sontuosi  curriculum, pompa e riverenze.
A parte protezione.

IMPEDIMENTI

Nel “paese dei balocchi” il rettore di un ateneo, chiamato a contribuire alla (mettiamola così…, in parole povere) risoluzione di alcune problematiche esistenti nella sanità della sua regione di origine, giustifica il proprio rifiuto di accettare l’incarico adducendo la scusa di un trasferimento sgradito alla moglie.
C’è qualcuno, nel governo, che ha preso in considerazione la sua rimozione da “l’incarico” nell’università?
No, perchè questo mi ricorda quando fui severamente rimbrottato, in classe, con tanto di votaccio sul registro, allorchè, in quinta elementare, dichiarai al maestro di non aver potuto studiare la lezione perchè mia madre doveva fare le pulizie di Pasqua.

PIU’ IN LA’

Quando si è costretti al guado dei tempi oscuri, si può scegliere di rinunciare alla traversata ed attendere che passi la piena, rimanendo seduti sulla riva.
Al contrario, si può decidere di cogliere la sfida e porre in atto una specie di rivoluzione interiore che metta alla prova la nostra capacità di resistere, di opporsi in qualche maniera alle difficoltà che ci investono.
Ciò potrebbe, se non altro, toglierci dall’imbarazzo di dover, poi, ammettere a noi stessi di esser stati fiacchi, imbelli,  rinunciatari, cosa che gli altri forse non vedono, ma che non sfugge alla nostra coscienza.
Tutto ciò che trae vantaggio dai “terremoti” della vita e che addirittura prospera quando è esposto al rischio e all’incertezza ha il potere di fortificarci, di renderci consapevoli delle nostre peculiarità, fisiche ed intellettive, nonchè di migliorarci come esseri umani.
Accettare supinamente quella che, per comodità, chiamiamo sorte non ci fa onore; chiudersi nella propria torre d’avorio non contribuisce al nostro riscatto; rimanere immobili nello status quo può soddisfare il nostro atteggiamento guardingo, ma, alla lunga, metterci dinanzi al confronto con chi, invece, ha dimostrato iniziativa, inventiva, fantasia: un match da cui usciremmo irrimediabilmente perdenti.
Quello che viviamo adesso è un momento terribile della nostra storia. Non è difficile registrare l’ansia crescente nelle persone, lo sconcerto, lo sconforto, e tutto ciò che conduce ad uno stato d’animo stabilmente pervaso dalla paura di non farcela. Ma anche, purtroppo, dalla propensione a scaricare all’esterno tutte le responsabilità delle cose che accadono, dei fallimenti e delle sconfitte.
Assumiamoci, ciascuno, le nostre, dunque! E ripartiamo esattamente da qui, con l’umiltà di chi è cosciente di avere la propria parte di colpe, ma determinato a reagire.
Resistere significa raccogliere le forze, stringere i denti e provare ad attraversare il fiume impetuoso degli eventi nefasti che tentano di sommergerci.
Ne usciremo trasformati. Forse stupiti, per primi, di questa metamorfosi. Ma orgogliosi di aver saputo spingersi più in là.

PAROLE E PECORE

Peggio delle pecore! Anche nel parlare.
Ma le pecore belano… Ecco, loro sono più coerenti di noi con la loro natura.
Alludo alle parole che, tutto d’un tratto, diventano di moda; qualcuno comincia a metterle in circolo, ed esse si diffondono a macchia d’olio, rimbalzando di bocca in bocca. La gente le tira in ballo, vogliosa di ostentazione, perché le sente dire da altra gente, e non vuol rinunciare a sentirsi “aggiornata” o, peggio, ad entrare nel novero di chi utilizza il linguaggio più di tendenza , anche se con scarsa consapevolezza del perché lo fa.
“Resilienza” è un termine abusato, ultimamente. Una parola che non dovrebbe trovare spazio sulla stampa e sugli altri mezzi di comunicazione, perché non esiste nella nostra lingua. Deriva dal latino, ma è l’inglese ad essersene impossessato. Nessuna meraviglia che degli esterofili come gli italiani ne abbiano fatto la loro versione “all’amatriciana”.
La pochezza culturale, che imperversa tra conduttori televisivi, politici e opinionisti da strapazzo, si espleta, da un po’ di tempo in qua, anche nel condire ogni discorso con questo intrusivo sostantivo, perfino quando non ce n’è affatto bisogno. La rete lo riprende…; il popolo gli fa eco…
Si può benissimo usare il termine “resistenza” oppure la locuzione “capacità di reagire” ed ecco che l’idea è resa al meglio, con quel che abbiamo già di disponibile e, soprattutto, di lessicalmente autoctono.
Perché mai, quando qualcuno comincia a ripetere stramberie, tutti gli vanno dietro come fa il gregge, allorché una sola pecora decide di cambiar direzione?

BUON SENSO

Buon senso… Che cosa s’intende per “buon senso”?
Spesso ripetiamo parole o locuzioni così…, senza molto badare al loro significato. Questo comporta un utilizzo di esse, a volte, improprio.
Il buon senso è stato ultimamente tirato in ballo, a vario titolo, riguardo ai comportamenti da tenere, specialmente in questa circostanza del contagio, ma anche in riferimento alle disposizioni governative e alle ordinanze regionali/comunali.
Non voglio entrare nel merito di queste ultime.
Mi limito a cercar di definire il concetto di “buon senso”.
Se il “senso” è comunemente inteso come la facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni, appare sottinteso che la nostra mente sia – almeno parzialmente – in grado di “subodorare” ciò che sta accadendo o che accadrà in futuro. Da umani, prevedere con certezza assoluta non ci è concesso…; ma fare una rapida sintesi delle informazioni, degli avvenimenti, degli atteggiamenti, delle azioni, degli eventi in generale è possibile. Il che contribuisce ad arricchire, giorno dopo giorno, momento dopo momento, le nostre esperienze, sulla base delle quali potremo valutare quanto determinate conseguenze di certi fenomeni si ripresentino, più o meno regolarmente, nel corso della nostra esistenza.
Ebbene, la capacità, che sviluppiamo, di fare tesoro di ciò che abbiamo dovuto attraversare, onde poter trarre delle conclusioni atte a mettere al riparo la nostra vita da fastidiosi e, persino, tragici imprevisti è un “buon” lavoro, ed un “buon” risultato, che conferisce a quelle facoltà intellettive, proprie dell’essere umano, inizialmente confuse e incapaci di selezionare e di distinguere, un crisma di qualità.
E’ appunto così che il senso diventa “buono”.
E, dato che le esperienze ed il percorso vengono, spesso effettuati da una collettività enorme, che si trova a fare gli stessi passi ed a raggiungere le medesime conclusioni, il buon senso viene anche definito come “senso comune”, liberando, di conseguenza, il concetto da implicazioni soggettive ed interpretative.

LE PORTE DELLA STALLA

Tutti dicono che il “lockdown” sia alle porte. Ormai, la gente l’ha esperimentato una volta. L’accetterà senza riserve o quasi. Che altro si poteva fare di fronte ad un’emergenza come quella dell’epidemia dilagante…?
La rassegnazione è uno dei peggiori nemici della democrazia.
Ma, rimanendo alle “porte”, quelle della famosa stalla andavano chiuse prima che gli altrettanto famosi buoi scappassero.
Tradotto in termini un po’ meno metaforici, ciò significa che, sia a gennaio-febbraio che durante l’estate, il governo aveva tutto il tempo a disposizione per organizzarsi al meglio (della disponibilità presente nelle varie strutture sanitarie) e prepararsi a fronteggiare adeguatamente il contagio. Contagio, che era incombente all’inizio dell’anno; e già ampiamente diffuso tra la popolazione nel corso dei mesi estivi.
Non c’è stata mai alcuna emergenza, se non quella provocata dall’inettitudine da chi dovrebbe governare.
Parlare di emergenza significa tirare in ballo l’imponderabile. E non è certo  il caso del coronavirus in Italia.
Che vi fosse un’epidemia tanto insidiosa ed aggressiva in Asia lo si sapeva almeno dai primi di gennaio. Da allora al primo caso “italiano” ufficiale (21 febbraio), sono trascorsi ben 52 giorni.
Che cosa si è fatto, in quel lasso di tempo, per predisporre strutture, presidi, misure di varia natura, appropriati al contrasto del virus? NULLA.
Che cosa si è fatto per informare la gente delle caratteristiche di questo morbo e dei suoi effetti devastanti sul fisico e sulla psiche delle persone? NULLA.
Eppure, torno a ripetere, c’era tutto il tempo.
Probabilmente, si sperava (in virtù di chissà quale sortilegio) che il paese fosse risparmiato o marginalmente lambito dalle conseguenze della malattia.
Cosa che – diabolicamente perseverando nell’errore – si è continuato a fare durante l’estate, quando l’intensità degli effetti della patologia  aveva dato l’impressione di stare scomparendo.
Oggi, fedele al principio pressappochista dello “stare agli eventi”, questo governo plays by ear …; chiude il paese, un po’ per volta, a seconda di quanti nuovi contagi giornalmente si assommano, e continuerà a farlo fino all’inevitabile blocco totale.
Ora, ha un nuovo nume in cui sperare. Il vaccino.