Questa vicenda
Giannino è
una delizia, nella sua sommaria italianità. Nel torpore di una campagna elettorale scossa dalle piccole cose di pessime gusto congegnate dal media guru
Gianroberto Casaleggio, confezionatore di un nuovo ordine mondiale, per un sempiterno
Beppe Grillo, ecco che compare lui. Un dandy
gattaro, per come viene descritto da
Alessandro Sallusti, un direttore senza testata per come lo interpreto io. Geniale tutto a modo suo, esploso per un
lapsus linguistico di una sostenitrice di
Nichi Vendola che ha distorto un vezzeggiativo, trasformando il buon
Giannino in
Giannetto,
rendendolo ancora più prossimo a suscitare simpatia umana.
Un'affinità tradotta in valore aggiunto quando ha abbracciato la sacra causa di osteggiare la costruzione della cittadella della
Juventus sui terreni della
Continassa.
Giannino contro
Agnelli, contro la
Fiat, contro i poteri forti nella sua proverbiale invettiva dai microfoni di Radio24.
Luigi Zingales ha denudato
Giannino, lasciandolo al vento della campagna elettorale nel suo rush finale. Perché ha ceduto alla tentazione di mostrare un curriculum inoppugnabile da messia del neoliberalismo, per esibire quel sogno di una rivoluzione liberale impacchettato per benino nella campagna elettorale del 1994, agli albori del ventennio berlusconiano.
Millantare è abitudine dei vanesi, di egocentrici inclini al narcisismo categoria che si incrocia nelle redazioni con una frequenza superiore alla media. Per fare il giornalista non è indispensabile, però, conseguire Master universitari. Ritengo la cosa in sé opinabile, ma non vi è alcuna esplicita indicazione che escluda dalla professione chi non ha conseguito un titolo post universitario. Come non lo è un titolo universitario, almeno fino a questo momento. Perché quel che vale è l'insieme di competenze maturate, con sacrificio, dedizione, tenacia, studio. Valori che conferiscono
autorevolezza.
Certo l'economista professore
Zingales che accerta la mancata veridicità del titolo conseguito nella sua università (non doveva poi scomodarsi più di tanto) in questa fase conclusiva ha conferito una drammaticità inaspettata al personaggio Giannino, vittima di un vezzo, di una bugia bambinesca che nell'era di quell'internet maligno quasi ispira tenerezza se non fosse per l'appello alla trasparenza divenuto valore di quel manifesto
FARE. Apice che rammento, in questa campagna da
Porcellum, toccato solo nella puntata di
Otto e mezzo in cui
Lilli Gruber accennò alla malattia e alla dedizione di
Giannino nel sostenere la lotta contro il cancro e i malati.
Nella sua fin troppo argomentata lettera dimissionaria/denuncia pubblicata sul suo profilo Facebook (un social può accogliere nell'era della velocizzazione digitale un testo così denso e mantenere la stessa efficacia dei canali comunicativi tradizionali?),
Zingales indica il reo che confessa controvoglia, piegato dalla necessità di non perdere quel candido e agognato scranno della credibilità.
Con quel suo dire affabulatorio, quella meravigliosa capacità di elencare senza sosta enti, fondazioni, istituti, oggetti e soggetti del demanio pubblico sconosciuti, Oscar Giannino cattura una fetta di elettorato che del declino,
Equitalia, nipotine di
Mubarak ne ha una repulsione incontrollata. Riempie
timeline, manco fossimo pronti ad elaborare le conseguenze di un nuovo miracolo italiano.
Invece mi scivola nel più italiota dei difetti, quell'abitudine un po' così di ingigantire per rafforzare posizioni preminenti come se quanto costruito in una vita, come se quella militanza nel
PRI a nulla valesse, come se quei discorsi vivi, appassionati nei teatri poco contassero rispetto all'essere un
masterizzato qualunque.
Difettuccio che lede la compattezza del suo seguito, che si era educato a discorrere di contenuti politici seri in una campagna elettorale in cui
MPS, scudo fiscale, Finmeccanica, conflitto di interessi, La7 e altre eventualità non pesassero nella costruzione dell'impianto della credibilità, della fiducia. Architettura fragilissima che un foglio di carta è bastato a far vacillare e che potrebbe avere conseguenze nelle regioni sensibili, come nel caso del nostro Ohio, la
Lombardia.
Peccato, perché è bastato dire quel poco e tirarsi via dalla spartizione di seggi e
seggini per destabilizzare gli equilibri dei signori di Palazzo.