INCONTRO CON LA PITTRICE ANNA VARRIALE

ANNA VARRIALE

Di seguito l’intervista integrale alla pittrice Anna Varriale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

La sensazione che si ha ammirando i dipinti di Anna Varriale è che hanno un anima. La Natività, un quadro realizzato quest’anno, emana vibrazioni che rapiscono, emozionano oltre una semplice tela dipinta.

Anna la tua passione per la pittura nasce da bambina?

Assolutamente no. Avevo ventidue anni quando ho iniziato a dipingere. Fu una persona a me molto vicina che, vedendo un mio disegno, mi spinse a proseguire su questa strada regalandomi tutto il necessario per dipingere, cavalletti inclusi.

Quali sono i tuoi soggetti preferiti?

Non prediligo soggetti particolari. Mi piace spaziare; dipingo tutto ciò che mi colpisce e mi piace, dai paesaggi alle nature morte.

So che nella tua vita artistica per un lungo periodo non hai più dipinto, solo da un po’ hai ripreso?

Si, per molto tempo ho abbandonato la pittura.

Per quale motivo?

Non credevo in me in quanto, essendo autodidatta, non avendo fatto studi d’arte, mi sentivo un pesce fuor d’acqua. A questa mia insicurezza si sono aggiunte problematica esistenziali che mi hanno spinta ad abbandonare la pittura. Solo da qualche anno ho ricominciato a dipingere. 

I tuoi quadri hanno una vaga impronta fotografica, sbaglio?

Sì, mi piace ritrarre dal vivo senza alterare la realtà. Se dovessi darmi una collocazione stilistica, mi definirei impressionista.

Quali sono i tuoi riferimenti artistici? A quali pittori ti rifai?

Da giovane ero attratta dalla pittura classica. In particolare mi piacevano Caravaggio, Rembrandt, nonché i pittori del 400/500. Conto di ritornarci. Al momento sono in una fase di sperimentazione.

Caravaggio e Rembrandt erano pittori che lavoravano molto col chiaro/scuro mentre i tuoi quadri sono pieni di luce…

Adesso sì! Ecco perché ho detto che sto sperimentando. Mi sto approcciando anche a un altro tipo di pittura.

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Si dice che i vari periodi che caratterizzano lo sviluppo artistico di un pittore sarebbero conseguenza delle variazioni del suoi stati d’animo. Questo tuo periodo di luminosità artistica potrebbe essere conseguenza di un momento di serenità interiore che stai attualmente attraversando?

Non saprei. Ripeto, sono in una fase di sperimentazione. Tuttavia, se la vogliamo mettere così, diciamo che questo momento di luminosità rappresenta una mia rinascita interiore. Prima i miei quadri erano poveri di luce, probabilmente perché artisticamente non avevo il coraggio di manifestare tutto ciò che avrei voluto mettere su tela.

Oltre a esporre qui a Pozzuoli sulle Rampe Causa, hai già esposto altrove?

Sì, il 24 novembre in una galleria a Via Merliani.

A livello di soddisfazioni la pittura ti gratifica solo moralmente oppure anche in altri termini?

Al momento artisticamente sono alla ricerca di un riscontro che attestasse finalmente il mio effettivo valore di pittrice. Già quello sarebbe tanto.

Come artista sei “libera” o fai parte di un’associazione?

Pur essendo indipendente, mi sono iscritta all’associazione di artisti puteolani Terra di Pozzuoli coordinata dal pittore Nino D’amore.

Non vivendo d’arte, come fai a conciliare la tua passione per la pittura con il lavoro?

Con fatica. Ma ci riesco. Per spostarmi durante un evento con i miei quadri, non avendo nessuno accanto, mi organizzo da sola. Come lavoro faccio la dama di compagnia. Di notte lavoro, di giorno ho tempo per dipingere. Quando c’è la passione a sostenerti, non esista ostacolo che possa fermarti!

Pensi che davvero, come qualcuno sostiene, l’arte possa salvare l’umanità?

Sì, assolutamente! L’arte è un rifugio e uno sfogo per la fantasia. Penso che chiunque riesca a manifestare le proprie fantasie attraverso l’arte, sotto qualunque forma la esprima, può trasmettere un messaggio positivo per la società. L’arte è comunicazione di anime! Oggi purtroppo la gente comunica senza riflettere, ripetendo come un mantra quello che sente dire in televisione o legge sui giornali. L’arte invece obbliga a riflettere, dunque impone di far funzionare il cervello e il cuore sia dell’artista che dello spettatore. Ecco perché penso che possa salvare l’umanità!

 

WALTER MOLINO E LA SUA WEBAPP PER I CAMPI FLEGREI

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Di seguito in versione inegrale l’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it  a Rosario Walter Molino ideatore della webapp www.totemgo.com


Pozzuoli presso l’ Associazione, Lux In Fabula, nell’ambito della manifestazione “QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE”, si è svolto l’incontro con l’informatico  Rosario Walter Molino ideatore della web-app www.totemgo.com.

TOTEMGO  è un’applicazione multimediale e interattiva finalizzata a far conoscere il territorio flegreo. Al termine dell’ incontro abbiamo intervistato Molino.

Qual è lo scopo di TotemGo?

Poter divulgare le peculiarità della mia città, Pozzuoli, al mondo intero, creando un maggiore senso di consapevolezza di cosa sono i campi flegrei nel complessivo.

Perché l’hai battezzata TotemGo?

Il nome TotemGo deriva dall’unione delle parole “totem” e “go”. Totem perché la App utilizza il paradigma dei totem per descrivere un luogo. Quindi non più in maniera monolitica ma frammentata su più punti grazie all’utilizzo del gps: se voglio descrivere un luogo, non lo descrivo su un’unica pagina bensì frammentato su più punti e geolocalizzato con il gps. L’altra parola, go, che in inglese significa andare , indica la possibilità che la app ti concede di spostarti da un luogo all’altro virtualmente.

Perché creare una web-app anziché la classica app?

La web-app ti garantisce l’universalità, con qualsiasi dispositivo riusciamo a connetterci a TotemGo, per cui c’è la libertà di accesso a qualunque informazione senza dover installare alcune applicazione sul proprio dispositivo.

TotemGo nasce nel 2015, da allora a oggi come si è sviluppato?

Il 31 marzo 2015 sono state create le caratteristiche basilari della app: la creazione dei totem con il gps, le guide, la possibilità di leggere ciò che gli utenti hanno scritto, di fare il download in pdf delle guide e dei totem creati, e la possibilità di creare una sorta di caccia al tesoro con il gps. Il 2016 è stato l’anno della connettività, consentendo agli utenti la possibilità di creare degli eventi legati a una città e con il sistema rss feed far sì che sulla app arrivino i titoli dei quotidiani presenti su internet legati alla città in questione. A esempio per Pozzuoli la connettività permette di consultare i giornali locali online, ovviamente previo consenso da parte loro. Il 2017 è stato l’anno dei geobooks e della realtà aumentata la quale permette che foto e dipinti dell’epoca possono essere sovrapposti a ciò che si sta guardando al momento con lo smartphone, consentendo di appurare le differenze del sito tra ieri e oggi. I geobook è un sistema innovativo che consente di collegare il luogo che si sta guardando ai libri che ne parlano. Se dovessi trovarmi in prossimità del Tempio di Serapide, mi arriveranno i link riguardanti i libri che ne parlano, mediante la connessione con librerie online tipo Città Vulcano messa a punto da Lux In Fabula in cui sono archiviati in forma digitale tutta una serie di volumi che parlano di Pozzuoli e dei Campi Flegrei. Il 2018 è stato l’anno della realtà virtuale, della ricerca e della scrittura vocale. La realtà virtuale permette di inserire foto a 360 gradi, permettendo all’utente di compiere un viaggio virtuale inserendo il proprio smartphone negli occhialini di realtà virtuale. In tal senso la caratteristica di TotemGo è quella di creare in automatico un percorso virtuale servendosi del meccanismo dei totem e del gps.

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Poiché TotemGo consente agli utenti che si registrano di interagire attivamente con la app inserendo foto, creando percorsi, giochi e quant’altro, possiamo paragonarlo a Wikipedia?

Tipo wikipedia in quanto nel nostro caso è il solo utente il gestore delle proprie informazioni, gli altri non possono modificarle; ma possono segnalare se sul portale viene inserito qualcosa di offensivo o inopportuno, permettendo agli amministratori di intervenire per levarlo e bloccare per sempre chi li aveva inseriti.

Progetti per il futuro?

Al momento sono talmente immerso nello sviluppo e propaganda di questo progetto che non ho tempo di pensare ad altro.

A noi non resta che utilizzare l’ app e augurare un forte in bocca al lupo all’ intraprendente informatico/geniale puteolano!

ROSARIA ANTONACCI, IL CORAGGIO DI UNA DONNA

 

Di seguito la versione integrale dell’articolo apparso su comunicaresenzafrontiere in cui si racconta la drammatica vicenda di Rosaria Antonacci.


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La storia di Rosaria Antonacci è quella di una donna che alcuni anni fa, a causa dell’occlusione dell’arteria femorale, ha subito l’amputazione di entrambe le gambe a distanza di due anni l’una dall’altra.

All’età di trentadue anni Rosaria iniziò ad accusare lancinanti dolori al piede sinistro che la costrinsero a continui ricoveri ospedalieri senza che le fosse diagnosticato alcun problema circolatorio. Addirittura ci fu chi attribuì i dolori come conseguenza dei piedi piatti, di cui non era affetta, obbligandola a portare dei plantari costosissimi. Poiché, nonostante i plantari, i dolori non cessavano, Rosaria si rivolse al Professor Bianchi di Pozzuoli il quale escluse l’origine ortopedica del fastidio, suggerendole di fare un ecodoppler:

<<A quella richiesta, feci presente al professore che di ecodoppler ne avevo già fatti tanti, tutti con esito negativo. Lui insistette, dicendo che mi mandava da un collega per approfondire. Fu così che appresi di avere l’arteria femorale completamente occlusa. Ricordo ancora le parole di quel dottore, “Mi spiace signora, ma da oggi la sua vita cambierà”. Piansi per tutto il tragitto dall’ospedale a casa. Io sono fatta così, piango per qualche ora, poi dopo asciugo le lacrime ed inizio a pensare a come risolvere il problema. E così iniziò il mio calvario, il cui esito è purtroppo noto!>>.

A distanza di anni, dopo aver fatto visionare a un medico legale le varie cartelle cliniche di cui è in possesso, s’è sentita rispondere che c’erano gli estremi per avviare un’azione legale contro l’ospedale che tracciò inesorabilmente il suo destino, ma purtroppo i tempo tecnici per farlo sono scaduti:

<<A quel primo intervento ne sono seguiti tanti, circa quaranta, ho smesso di contarli! Ho percorso tutte le strade per salvare la mia gamba, poi mi sono arresa. La cancrena divorava il mio piede e il mio cervello. Pensavo che dopo l’amputazione non sarei più entrata nella stanza fredda, ma non è stato così!>>.

Secondo il medico legale dalle carte si evincerebbero anche delle superficialità negli ultimi interventi chirurgici subiti ai monconi, per cui si potrebbe aprire una controversia legale su questo fronte, ma Rosaria è stanca e diffidente:

<<Aprire un contenzioso? Sono stanca!>>

Ciò che Rosaria non tollera è la discriminazione che ha riscontrato esistere tra il trattamento che ricevono gli amputati ASL rispetto a quelli INAIL , una diversità burocratica

<<A quelli INAIL è concesso di tutto e di più. Lo so perché essendo iscritta in più gruppi social di amputati, quando ci confrontiamo in chat, noto che gli amputati INAIL hanno diversi privilegi che noi amputati ASL invece non abbiamo. Sulla mia pelle sto scoprendo che esistono amputati di serie A e di serie B. Una cosa che non dovrebbe esistere! Io appartengo alla serie B, ci riconosci, siamo quelli seduti in carrozzella che aspettano la maturazione dei tempi burocratici, anche per una modifica di invaso. A tale proposito lasciami ringraziare il Centro Ortopedico Corpora, che fornisce gli ausili per disabili che verso noi invalidi si comporta in maniera più che umana, facendoci spesso anche da autista prelevandoci a casa con i propri mezzi per accompagnarci al laboratorio a misurare la protesi e poi riaccompagnarci nuovamente a casa, in maniera del tutto gratuita. >>

A dispetto degli infiniti problemi derivanti dalla propria disabilità, Rosaria non si è persa d’animo e si è rifatta una vita. Approfittando del tempo libero di cui dispone, ha rispolverato la passione giovanile per la pittura e si è avvicinata alla ceramica, creando un’infinità di oggetti che regala agli amici o tiene per sé in casa. Ha anche creato un b&b, Pozzuoli 100%, a Via Napoli, nell’appartamento dove ha vissuto per 51 anni situato al secondo piano di un palazzo senza ascensore adiacente a quello dove da un anno si è trasferita a vivere dopo l’infarto, sempre a Via Napoli, perché situato al piano terra e dunque molto più comodo per muoversi.

Rosaria la scorsa estate è stata a mare e si è fatta i bagni coprendosi le protesi con delle calze nere autoreggenti di latex:

<<L’estetico per le protesi non è convenzionato e costa troppo per le mie tasche. Per quanto è possibile, la mia disabilità cerco di viverla nel migliore dei modi. Di vita ce ne è una sola. La perdita di entrambe le gambe mi limita, ma non mi impedisce di vivere. Spesso alla domanda, “Cosa fai di bello?”, rispondo “Sono in ricostruzione, mi sto inventando la vita giorno per giorno!”. Gli impedimenti veri nascono qui!>>, dice toccandosi la testa.

Come darle torto?

Nel salutarci, Rosaria mi fa dono di un piccolo corno di ceramica fatto da lei. Guardandola sorridere mentre me lo porge, mi sembra impossibile che quel sorriso luminoso e sincero appartenga a una persona che avrebbe mille ragioni per essere arrabbiata con la vita e invece!?…

LA REGISTA MARIA DI RAZZA SI RACCONTA

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Di seguito la versione integrale dell’intervista alla regista Maria Di Razza pubblicata su comunicaresenzafrontiere


Maria Di Razza: regista, nata a Pozzuoli, Campania. Nel 2007 dirige Ipazia. Nel 2013 realizza il premiatissimo cortometraggio di animazione Forbici sul tema del femminicidio, menzione speciale ai Nastri d’Argento 2014. Con il cortometraggio in animazione Facing off  è finalista ai Nastri d’argento 2015, a cui segue (In)Felix, una fantasia animata distopica sulla Terra dei fuochi. 2018 con “Goodbye Marilyn”, cortometraggio animato,  partecipa nella sezione Eventi speciali delle Giornate degli Autori alla 75° Mostra del cinema di Venezia. 

Maria Di Razza, regista per caso o per passione?

Sicuramente per passione. Da che ero piccola mi piaceva il cinema. Soprattutto mi incuriosiva capire come nascesse un film, cosa si nascondesse dietro quello spettacolo proiettato su un telone bianco appeso al muro.

Lei è diventata famosa grazie ai film di animazione, eppure il suo primo film non è un cartone.

Prima di cimentarmi con i cartoni animati, mi venne voglia di raccontare il personaggio di Ipazia, la filosofa/scienziata greca uccisa dal fanatismo cristiano. Eravamo nel 2007. L’idea mi venne leggendo il romanzo Il Teorema del Pappagallo dove a un certo punto si accenna a questa donna. Da lì’ iniziai a documentarmi su di lei. Il cortometraggio, un lavoro di finzione anziché di animazione, è un prodotto artigianale che, quando lo rivedo, ci trovo sempre delle ingenuità da correggere. Quella era la prima volta che stavo sul set cinematografico, per giunta  dietro la macchina da presa, e avevo la timidezza perfino di dire stop! Dopo quel lavoro, mi presi una lunga pausa. Poi nel 2012 l’incontro con la regista Antonietta  De Lillo ha segnato la mia carriera. Antonietta aveva intenzione di fare un film corale sull’amore, mettendo in gioco il punto di vista di più persone per realizzare una fotografia dell’amore in tutte le sue sfaccettature. Indagandone le facce buie. E fu lei che mi dette lo spunto di raccontare del femminicidio come aspetto di amore-buio, l’amore che si trasforma nel tempo diventando altro. Così nacque Forbici!

“Forbici”  narra di un episodio di cronaca…

Sì, avvenuto a Palma Campania, dove il marito, durante la notte, mentre i figli dormivano, armato di due paia di forbici, uccise la moglie. La nascita di Forbici, se non l’ha cambiata, ha sicuramente dato una sterzata alla mia vita perché da questo piccolo racconto di animazione che dura tre minuti e mezzo, in bianco e nero, fatto con estrema  semplicità, si è scatenato l’incredibile: il film ha girato il mondo, partecipando a decine di festival; ha vinto un mare di premi; ha avuto una menzione speciale ai nastri d’argento.

Perché ha scelto di dedicarsi al cinema di animazione?

Prima di tutto per questioni economiche: l’animazione fatta in maniera semplice costa poco rispetto a un lavoro tecnologicamente curato tipo Disney. E poi l’animazione è un grande escamotage, permette di raccontare qualsiasi storia, perfino quella di un asino che vola! Ci sono due lungometraggi di animazione molto semplici cui sono molto legata, Valzer con Bashir e Persepolis, che pur nella loro semplicità, hanno raccontato storie potentissime arrivando agli Oscar. Il definirli semplici non è riduttivo ma sta a indicarne la diversità rispetto ai cartoni animati delle grandi produzioni i quali hanno un impianto tecnologico notevole, con effetti speciali tali che, nella loro grandiosità, stupiscono lo spettatore ma, probabilmente, lo distraggono dal messaggio contenuto nel film. Un lavoro di animazione “semplice”, per giunta senza sonoro, che racconta una storia potente, evidenzia la forza dell’immagine.

I suoi primi tre corto animati, oltre che per la semplicità, sono muti: ciò allo scopo di dare appunto valore alla forza delle immagini?

Anche. Ma soprattutto per dare spazio alle tematiche, consentendo allo spettatore, attraverso le immagini, di riflettere su quanto sta vedendo. In Facing Off il mio secondo corto animato, affronto il tema della chirurgia plastica cui molte persone ricorrono per migliorare il proprio aspetto a scapito dell’identità. Il film è stato anche un pretesto per fare un omaggio  ai grandi del cinema dato che nel suo interno vi sono richiami a capolavori del pasato. Partendo da Hitchcock, il mio mito, per poi proseguire   con Kubrik e tanti altri.

Parliamo del suo terzo corto (In)Felix: lei ha pubblicamente affermato che, tra tutti i film che finora ha realizzato, è quello cui è particolarmente legata.    

Vi sono legata prima di tutto perché parlo di uno spaccato della mia terra martoriata dal dramma della Terra dei fuochi. Precisamente della discarica Resit che, come ha confermato la perizia fatta dal geologo Balestri, sta inquinando le falde acquifere al punto che entro il 2064 lì non ci sarà più vita. Lo spunto lo presi leggendo la perizia di Balestri che si può scaricare da internet, un faldone di oltre duecento pagine, molto complicata perché ricca di termini tecnici. Nel leggerla, apprendendo quello che vi è sotterrato, mi pianse il cuore. Mi sembrava impossibile come l’essere umano potesse uccidere in quella maniera il proprio territorio. Ma, attenzione, la Resit non è un caso isolato. In molte zone di Italia e del mondo vi sono tante altre “Resit”, solo che non lo sappiamo!

(In)Felix è caratterizzato dalla bellezza dei disegni

Sì, sono di una bellezza incredibile. L’autore è Domenico Di Francia che ha fatto duecento tavole a china, rigorosamente a mano libera, che poi con Costantino Sgamato abbiamo digitalizzato e animato. Ogni disegno è un quadro: io ce li ho tutti conservati, sono spettacolari.

Se non erro lei per i primi tre corto si è servita di un equipe puteolana!?

Sì, perché anche Angela Aragozzini che ha animato Facing Off è di Pozzuoli. In (In)Felix ci sono le musiche di Antonio Fresa, napoletano, che ha poi fatto la colonna sonora di Goodbye Marilyn.

Con Goodbye Marilyn ha partecipato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, riscuotendo un grosso successo di critica e di pubblico. Pubblicamente non ha avuto problemi a dichiarare che quando ricevette la notizia che il film era stato selezionato per il festival per due giorni è stata su una nuvola.

Penso che chiunque al posto mio avrebbe avuto la stessa reazione. Per anni sono andata a Venezia da spettatrice. Ritrovarmi all’improvviso da protagonista è stata una cosa bellissima. Partecipare a Venezia era il mio sogno e l’ho realizzato! In questo devo ringraziare la casa di produzione Marechiaro Film di Antonietta De Lillo, che ha prodotto il film, per avermi lasciata libera di scegliere a quale festival partecipare, senza intervenire in alcun modo. L’idea di girare Goodbye Marilyn me l’ha data, seppure indirettamente, proprio Antonietta regalandomi a Natale il romanzo da cui ho poi tratto il film. All’epoca ero impegnata nella stesura di un progetto completamente diverso. Non appena lessi il romanzo, mi innamorai della storia e decisi di accantonare il vecchio progetto per realizzare il film su Marilyn che però non poteva essere raccontato senza le parole. A quel punto decisi di fare il cosiddetto salto di qualità.

Lei ha avuto l’ardire di far doppiare Marilyn a Maria Pia Di Meo, la più grande doppiatrice italiana che presta la propria voce a Meryl Streep, e l’intervistatore di Marilyn a Gianni Canova, giornalista di Sky nonché Pro-rettore dell’università IULM.

Riguardo all’ardire, personalmente non so quante doti artistiche possiedo. Quando mi sento definire regista, pensando a Hitchcok o Scorsese, non credo di meritare quest’appellativo. Di sicuro sono una persona determinata. Mi ero  ripromessa di fare il salto di qualità. O lo facevo con queste caratteristiche, oppure tutto finiva ai primi tre corto. Per cui, lentamente, ho iniziato a lavorare al film la cui realizzazione ha richiesto complessivamente un anno e mezzo.

Al di là della delicatezza della storia di Goodbye Marilyn, personalmente, ho molto apprezzato  la colonna sonora di Antonio Fresia.

Ad Antonio ho dato carta bianca. Non sono voluta assolutamente intervenire in quanto con (In)Felix feci l’errore di dargli dei suggerimenti. In particolare sul finale del film, dove c’è la trasformazione degli animali, dissi che mi sarebbe piaciuta una musica del tipo La Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Lui invece disse che ci voleva l’opposto perché una musica forte come intendevo io sarebbe stata didascalica. Quindi per Marilyn gli diedi campo libero.

E poi con il suo ardire telefonò alla doppiatrice ufficiale di Meryl Streep

Quella telefonata fu incredibile. Solo per reperire il numero ci avrò messo circa un mese. Poi, attraverso una doppiatrice, finalmente riuscii ad averlo. La chiamai, mi presentai e lei, “ma chi sei?” rispose. Le spiegai il motivo per cui la stavo chiamando. Inizialmente disse di no. Del resto, giustamente: io non sono una regista famosa; il film è un cortometraggio; lei doppia attrici e film da Oscar. Accettando era come se sminuisse la propria professionalità. Probabilmente anch’io avrei fatto lo stesso al suo posto.  Ciononostante, insistetti perché leggesse la storia e visionasse i disegni. Fatto ciò, se ne innamorò e disse sì. Il film le è molto piaciuto. Durante una telefonata dopo Venezia mi ha ringraziata per averle concesso la possibilità di doppiare Marilyn Monroe, seppure in forma animata, dicendosi speranzosa di poter lavorare ancora con me, lusingandomi molto.

La voce maschile è invece di Gianni Canova di Sky 

Altro mio mito: da appassionata di cinema, vedo i film su Sky e lui racconta i film in un modo che ti fa vedere certe cose che sfuggono finanche a un attento osservatore. Mi fa fare delle riflessioni su dei film che diversamente mai avrei fatta da sola. Con lui ci siamo conosciuti all’Ischia Film Festival dove presentavo Infelix che gli piacque molto, facendo una bellissima recensione. Quando gli chiesi se avesse voluto doppiare Goodbye Marilyn, immediatamente rispose di sì! Quando il film è stato proiettato a Venezia, lui era seduto al mio fianco durante la proiezione per la stampa: non credo di esagerare se dico che fosse più emozionato di me!

È tipico dei vincenti puntare in grande, lei punta all’oscar 2020?

A riguardo ci tengo a fare una precisazione. Quando al Rione Terra dissi di puntare magari all’Oscar 2020, lo dissi poiché il mio film è stato selezionato al Tirana International Film, un festival prestigiosissimo dove chi vince passa di diritto alle preselezioni dell’Oscar. Ovvio che se poi arrivasse l’Oscar ne sarei felicissima. Sarebbe una cosa meravigliosa. Ma da buon matematico punto i piedi per terra e evito di lasciarmi prendere dall’entusiasmo. Tenga presente che a livello personale la mia vita non è cambiata affatto: per vivere faccio l’impiegata; continuo a fare la mamma e la casalinga.

Progetti per il futuro?

Questa è una bella domanda. Come ho già detto, prima di lavorare a Marilyn ero impegnata in un altro progetto che ho poi accantonato e non so se lo riprenderò. Ora sono alla ricerca di una storia che mi appassioni come è accaduto per Marilyn, quindi non so nemmeno se il prossimo film sarà un lungometraggio o se continuerò a cimentarmi con il corto. Un lungometraggio di animazione significano almeno cinque anni di lavoro. Non percependo alcun contributo istituzionale per i miei film, finora ho fatto enormi sacrifici economici e ho avuto l’aiuto delle persone che mi vogliono bene. Anche se devo dare atto alla Regione Campania di essersi fatta carico in maniera postuma delle spese inerenti il soggiorno a Venezia di una parte del cast di Marilyn. Per questo motivo, se devo fare un nuovo lavoro, devo trovare una storia convincente che valga i sacrifici necessari per realizzarla.  

Ha mai pensato di fare un film di animazione ambientato a Pozzuoli o nei campi flegrei?

Francamente non ci ho mai pensato. Ma non perché non ami la mia terra. Come lo stesso sindaco Figliolia ha pubblicamente riconosciuto, in tutte le interviste che ho rilasciato a Venezia ho sempre citato Pozzuoli cui sono molto legata al punto che se mi regalassero una casa altrove, rifiuterei. Le mie radici sono qui, a Pozzuoli!

Vincenzo Giarritiello

QUATTRO CHIACCHIERE CON ENZO GIARRITIELLO

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Sabato 10 novembre ha preso il via a Pozzuoli, presso l’associazione culturale Lux In Fabula, la rassegna Quattro Chiacchiere Con L’Autore, una serie di incontri quindicinali con scrittori, poeti, pittori, autori vari in cui ogni artista si racconta.

Ha inaugurato la manifestazione lo scrittore Vincenzo Giarritiello il quale, intervistato dalla poetessa Luisa De Franchis, ha raccontato la genesi dei suoi due primi romanzi, L’Ultima Notte e Signature Rerum-il sussurro della sibilla , di cui si sono letti alcuni estratti; dei laboratori di scrittura creativa per ragazzi che ha tenuto nel corso degli anni in una libreria per ragazzi a Pozzuoli, al IV Circolo didattico di Pozzuoli e alla sezione femminile del carcere minorile di Nisida.

Sollecitato dalla De Franchis, l’autore si è a lungo soffermato su quest’ultima esperienza, definendola in assoluto “la più tosta ma anche la più formativa a livello umano” tra le proprie esperienze legate alla scrittura.

Entrando nel merito della propria attività di scrittore – oltre a L’ULTIMA NOTTE e SIGNATURE RERUM, ha pubblicato la raccolta di racconti LA SCELTA con le Edizioni Tracce di Pescara –, esortato dalle domande della De Franchis sui suoi interessi ermetici che si riflettono in maniera evidente in entrambe le opere, in particolare in SIGNATURE RERUM  al cui inizio è posta una frase di Giamblico tratta da I Misteri Egiziani, (invece quelli che sono migliori di noi conoscono tutta intera la vita dell’anima e tutte le vite precedenti di essa […]) ,  l’autore ha parlato della propria formazione culturale di matrice ermetica,  spiegando che vivere in una terra ricca di storia e, soprattutto, di mistero, come i campi flegrei, è per lui motivo di profonda riflessione e studio sulla vita e su se stesso.

In particolare, riferendosi al mito della sibilla Cumana, argomento di spunto per Signature Rerum, l’autore ha espresso la propria convinzione che l’acropoli di Cuma incarni una sorta di cammino iniziatico visto che l’itinerario si dipana dalle tenebre alla luce:  si parte dall’oscurità dell’antro della sibilla per poi lentamente salire fin su al tempio di Giove, transitando per quello di Apollo posto a metà del percorso.  Schema che ritroviamo tracciato in tante opere di matrice iniziatica tra cui La Divina Commedia di Dante.

La serata è stata allietata dalla presenza del cantautore Nicola Dragotto che, intervallandosi ai relatori, ha suonato alcuni brani tratti dal suo cd L’Ultima Causa.

Il prossimo incontro sarà sabato 24 novembre con il saggista/ studioso di religioni Enzo Di Bonito.

INTERVISTA ALLO SCRITTORE NANDO VITALI

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Di seguito ripropongo in versione integrale l’intervista allo scrittore napoletano NaNdo Vitali pubblicata su comunicaresenza frontiere.it 


Ferropoli (Castelvecchi Ed.) La storia di Angela Di Bagnoli e la musica del ferro La storia si svolge a Bagnoli (Ferropoli) inizi degli anni Settanta fino al 2001, narra la vicenda di due musicisti, amici dall’infanzia, Luciano e Rocco, e le loro compagne, Angela ed Elena. Racconta della gelosia di Luciano nei confronti del tenebroso Rocco, cantautore di talento….

Ferropoli è un romanzo autobiografico?

Non è un romanzo autobiografico Nasce come una sorta di memoria inconscia. Una ricostruzione della mia memoria infedele, dagli esordi giovanili come chitarrista a tutto ciò che caratterizzò il periodo in cui l’Italsider era in funzione a Bagnoli, quartiere in cui sono nato e ho vissuto per anni, fino alla sua dismissione.

La prima passione la chitarra?

Sì, la musica e la voglia di riprodurre attraverso la chitarra i brani amati. Un su e giù del braccetto dei giradischi per cercare di avvicinarsi all’originale riprodotto dal vinile.

Poi la grande passione, la scrittura?

  Iniziai a scrivere i primi racconti per divertimento. Erano gli anni ottanta e degli amici stavano fondando una piccola rivista letteraria, Il Filo di Arianna, dove pubblicai i primi racconti. Fu , poi la volta di Spazio Libero di Vittorio Lucariello, luogo di formazione per attori e scrittori. Quel periodo fu molto importante perché lì si formarono i sogni, prendendo una loro sostanza: un conto è sognare da solo, altro è invece sognare in gruppo. Sognare in compagnia significa edificare delle città immaginarie. In fondo tutti quanti noi, quando scriviamo, fondiamo delle città, le nostre samarcande. Tuttavia, anche le città periodicamente vanno distrutte per poi essere rifondate. Scrittori distruttori ne nascono uno ogni cent’anni, vedi Joice. Anche Houellebecq: Le Particelle Elementari .Una rivelazione sul tema dell’amore per me. L’amore non solo per una donna ma per tutti i circuiti nervosi e per tutte le parti chimiche che ci alimentano. In un certo senso dare dignità religiosa a tutta quella parte del nostro corpo che prima veniva considerata disdicevole. Corpo e mente sono complementari l’uno all’altra, non puoi mai scinderli. Non credo nel cogito ergo sum di matrice cartesiana. Ritengo invece che bisogna sottoporre il nostro corpo a una serie di torsioni, anche estreme; una sorta di prove iniziatiche che ti permettono di essere uomo. In tal senso l’abbattimento dei tabù in amore è indispensabile per mettersi alla prova.

Ti senti più costruttore o distruttore?

Più costruttore: per poter distruggere devi conoscere molto bene quello che stai distruggendo. Per cui è un azzardo che non mi sono mai sentito di affrontare.

Alcuni libri potrebbero alimentare la distruzione della “città”?

Come ti dicevo compito di uno scrittore è quello di scrivere storie belle. Se tu non osi, non puoi entrare in un laboratorio per confrontarti con ciò che stai cercando, il tuo libro potrebbe scoppiarti in mano. Del resto quando fu scoperta l’energia nucleare sapevamo che poteva causare disastri immani ma non potevamo rimanere nella grotta: l’uomo è fatto per sperimentare a proprio rischio e pericolo.

La cura della scrittura versus la scelta del tema da narrare?

La qualità della scrittura è esattamente paragonabile alla qualità della voce: per poter avere una voce chiara devi esercitarla in modo tale da poter raggiungere un vasto cromatismo di possibilità sonore. Devi esercitarti per raggiungere un livello di chiarezza che sia capace di esprimere esattamente quello che volevi dire. Per poterlo fare devi utilizzare le parole giuste. Tornando per un attimo al rapporto con la musica, devi trovare le note adatte per poter fare in modo che la trama possa esprimere non soltanto un racconto bello, al punto da suscitare il piacere della lettura, ma possa fruttare “dopo”, permettendo al lettore di riflettere su quanto tu scrittore hai detto. La scrittura che non è di qualità inaridisce subito; è una pianta che non ha molte stagioni di vita. Viceversa la scrittura di qualità permette di entrare in uno spazio di classicità. I grandi scrittori hanno lavorato sulla qualità della scrittura affinché le proprie opere durassero nel tempo. Prendiamo a esempio gli elettrodomestici: oggi vengono costruite macchine che devono durare poco affinché se ne comprino diverse nel giro di pochi anni. Il consumismo ha infettato anche il mondo della scrittura, per cui tutto viene digerito velocemente. Mentre la scrittura dovrebbe avere una digestione lunga.

La tua scrittura, frutto di ricerca, ha un lettore individuato?

Come dicevo prima, si legge per imparare qualche cosa; per costruire un sé che si possa ampliare, moltiplicare. I libri scritti soltanto per essere letti e digeriti come se fossero degli alimenti per la sopravvivenza giornaliera non danno la possibilità di formare una coscienza etica, politica, un’intonazione che consenta di potersi esprimere nella continuità. Sono tutti libri preconfezionati: oggi le case editrici corrono dietro al fenomeno momentaneo per sfruttarlo finché fa presa sul lettore. Per poi abbandonarlo, sostituendolo con altro che gli consenta di fare soldi. Ciò a scapito dei classici, sia del passato che del presente come La Capria, Silone, Flaiano, Prisco, Rea, la Ortese. La scrittura non si rivolge a tutti ma a un pubblico selezionato, a monte, dallo scrittore in base ciò che decide di scrivere. La scrittura è una forma di comunicazione parziale, nel senso che non sai a chi ti rivolgi, chi leverà dal mare magnum della comunicazione il messaggio che hai lanciato nella “bottiglia”. C’è sempre un rapporto in contumacia tra lettore e scrittore: quando c’è lo scrittore non c’è il lettore e viceversa.

L’isola delle Voci è il tuo laboratorio di scrittura, il ruolo dei laboratori?

Un laboratorio di scrittura (www.isoladellevoci.it)  prima di tutto è un intrattenimento intelligente. I miei più che laboratori di scrittura, sono laboratori di lettura dove leggiamo brani dei grandi scrittori per carpirne i segreti. Certo, in un laboratorio di scrittura, di tanto in tanto, riesci a scoprire una vena luminosa, a tirare fuori qualche talento positivo. Fondamentalmente in un laboratorio di scrittura è sperimentarsi al fine di trovare la propria “voce interiore”.

Hai fondato e dirigi la rivista letteraria internazionale di narrativa e illustrazione «Achab». E’ un viaggio?

La passione per la scrittura un’ossessione conoscitiva. La conoscenza la puoi catturare solo attraverso l’azzardo, attraverso il viaggio che quasi sempre non è soltanto un viaggio di superficie ma un viaggio verticale: per poter capire che cosa sei e cosa è il mondo, devi scendere nelle “viscere” e devi osservare il buio senza paura che il buio ti possa accecare. Per questo in Moby Dick, alla fine, il capitano verrà trascinato negli abissi insieme alla balena. Vedi, tutti quanti noi siamo destinati al naufragio. Il punto è come naufragare? Tanto puoi farlo conducendo una vita mediocre dove ti accontenti di quel poco che hai. E poi c’è invece chi non accetta questa visione di un mondo ravvicinato e invece osa, cercando di capire chi è l’ultimo conducente che guida il treno sul quale ci ritroviamo. Ogni scrittore che si rispetti ha dei demoni e delle ossessioni che deve inseguire perché solo andando a caccia di quelle “balene” trovi te stesso.

Stai lavorando a un nuovo romanzo?

A febbraio uscirà la raccolta di quelli che considero i miei racconti migliori. Sarà edita da Ad Est Dell’Equatore e si intitolerà Polvere Per Scarafaggi. Unitamente sto lavorando a un romanzo, forse per il 2019, sulla falsa riga di Ferropoli.

Hai realizzato il romanzo della vita?

Credo che uno scrittore, un artista, non è mai soddisfatto della propria opera perché sa che può essere sempre migliorata. L’esempio è Moliere che morì sul palcoscenico recitando.

Morire con la penna in mano, quindi?

Oddio, è macabro. Però, ha anche un che di romantico!

Vincenzo Giarritiello

DRAMMATURGIA PRIVATA, LA POESIA DI ANGELA SCHIAVONE

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(nella foto il professor Andrea Bonajuto membro dell’associazione Quarto Bene Comune, lo scrittore Luca Marano e la poetessa Angela Schiavone)

Ieri sera presso la sede dell’Associazione Quarto Bene Comune ho assistito alla presentazione del volume Drammaturgia Privata, edito da Giuliano Ladolfi Editore, pluripremiata raccolta di poesie, opera prima di Angela Schiavone.

In assoluta sintonia con lo stile elegante, colto e discreto dell’autrice, le poesie che danno vita al volumetto sono un compendio dei tanti versi scritti da Angela nel corso degli anni su quadernetti dove traduceva in poesia i tormenti del proprio Io. Anche in questo caso, come ha più volte sottolineato il relatore, professor/scrittore Luca Marano, la scrittura, in particolare la poesia, conferma il proprio valore terapeutico cui affidarsi per ricucire le ferite dell’anima.

Nella loro semplicità, i versi della Schiavone non sono né banali né algidi, a riprova che la sua poesia non è affatto un costrutto laboratoriale finalizzato a suscitare a tutti i costi emozioni nel lettore e nell’ascoltatore, bensì un frammento istantaneo di sincera emozione, a cui il poeta sente l’impellente necessità di dare eco attraverso il componimento, affrancandolo dai meandri del proprio io per porlo alla luce del sole, ricomponendo con le lettere il puzzle emozionale del dolore esistenziale che ne tormenta l’anima.

Mai come nel caso della Schiavone, la cui poesia Marano non ha avuto dubbi a definire “dotta” per via dei ripetuti richiami ai miti greci, potremmo parlare di poesia al femminile – seppure la stessa autrice ammette che qualunque forma d’arte travalica il genere -, ciò perché Angela nella costruzione dei propri versi è delicata e pudica come solo una donna sa essere anche quando parla dell’amore carnale.

Tra i tanti versi che meriterebbero d’essere citati uno a uno per la potenza metaforica e icastica che caratterizzano la poesia della Schiavone, mi soffermo su quello in cui la poetessa a un certo punto recita  “un orizzonte inerme/e la certezza che terra è piatta”, chiaro riferimento all’appiattimento dei sentimenti umani che, mai come oggi, caratterizzano la società, dove l’apparire ha soppiantato l’essere.

La serata si è conclusa con la lettura di un inedito dedicato al marito Flavio. Mentre leggeva, Angela non ha saputo contenere la commozione, coinvolgendo emotivamente la platea che al termine l’ha a lungo applaudita, ringraziando lei e Marano per la bella serata.

“UN’ORA PER CAMBIARE”, UN LIBRO ESTREMAMENTE ATTUALE

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Di seguito la recensione integrale a UN’ORA PER CAMBIARE pubblicata su comunicare senza frontiere

“Un’ora per cambiare”, scritto a quattro mani da Bruno Esposito e Giuseppe Terminiello, edito da Lettere Italiane Guida, è un piccolo ma prezioso libretto in cui gli autori – ingegnere elettronico, il primo; ingegnere meccanico, il secondo – attraverso una sorta di dialogo platonico tra quattro personaggi – Bruno, Dario, Giuseppe e Matteo – (prendendo spunto dal “Saggio Sulla Libertà” di John Stuart Mill) affrontano l’argomento lavoro, toccando tutti gli aspetti che lo caratterizzano.

Non manca il riferimento al licenziamento in tarda età, come è accaduto realmente a Bruno (per oltre vent’anni dirigente della Olivetti) licenziato a 51 anni e costretto a rimettersi in gioco nel mercato del lavoro a un’età in cui, in una società com’è strutturata quella italiana, se per un giovane è difficilissimo trovare lavoro, per chi ha più di cinquant’anni è quasi impossibile.

Scritto in modo semplice e diretto, il dialogo pone a confronto quattro generazioni: il cinquantenne Bruno, ingegnere elettronico; il quarantenne Giuseppe, ingegnere meccanico impiegato presso un’azienda aerospaziale; il trentenne Matteo, laureato in giurisprudenza; il ventenne Dario, figlio di Bruno, a sua volta ingegnere elettronico.

Le quattro generazioni, parlando delle reciproche esperienze lavorative (conversando anche di politica e mercati; la globalizzazione e la delocalizzazione in Cina) evidenziano come in Italia la crisi del lavoro sia conseguenza di una totale assenza di politiche mirate prima di tutto alla valorizzazione degli individui.

Man mano che il dialogo si svolge viene messo in risalto che un’azienda se vuole davvero crescere ed espandersi, oltre investire in strutture tecnologiche, deve assumere manodopera qualificata che garantisca risorse umane di formazione professionale (non solo tecnica ma anche culturale).

In sintonia con la visione di Adriano Olivetti, “la fabbrica deve essere luogo in cui formare uomini, non operai”, istruire l’individuo per svolgere una professione, unito alla crescita culturale, rappresenta un elemento trainante per la costruzione di una società civile migliore.

Nella storia, il discorso si estende agli USA, società iper-tecnologica, dove i giovani (e non solo) non hanno timore di crescere e confrontarsi con la realtà.

Crescere, tra le altre cose, significa mettere al mondo dei figli: la società americana è giovane, in quanto consapevoli di vivere in un paese che offre loro tutte le opportunità e le garanzie. Quest’ultime, necessarie per emergere e affermarsi, sono alla base per costruire ai propri figli un futuro altrettanto roseo.

Purtroppo, questo “ricambio generazionale” in Italia non avviene così facilmente.  A causa della crisi del lavoro, gli italiani fanno sempre meno figli con conseguente invecchiamento della società, delegando tale funzione di rinnovo agli immigrati che, speranzosi del futuro, non hanno timore di fare figli.

Scritto nel 2006 (due anni prima che scoppiasse la crisi economica che investì l’America per poi estendersi al mondo intero), sarebbe interessante sapere se oggi gli autori riscrivessero il dialogo così come lo impostarono all’epoca o se avessero un approccio diverso, magari più critico nei confronti del mercato americano rispetto a quello italiano. Ad ogni modo, dispiace dirlo, a distanza di dodici anni il nostro Paese non è cambiato affatto…se non in peggio.

Sarebbe interessante una versione aggiornata del dialogo. Non solo per sapere nel frattempo come è cambiato il punto di vista degli autori, ma anche per capire in base alle loro successive esperienze professionali e personali, quali alternative suggeriscono alla società italiana (dove il precariato e l’assistenzialismo tendono sempre più a radicarsi)  per ritrovare smalto e vigore in campo lavorativo e sociale.

Seppure politicamente di chiara impronta progressista (come messo in risalto da Nerio Nesi nella sua Nota al testo), personalmente penso che questo libricino meriti d’essere letto da chiunque.

Al di là dei singoli orientamenti politici, affrontare un argomento trasversale come il tema lavoro, serve a porre diversi spunti di riflessione e costruttivo confronto su una questione che mai come oggi, almeno in Italia, continua a non trovare soluzioni.

Auguro buona lettura a quanti avranno la fortuna di leggerlo, con la convinzione che non si pentiranno di avervi dedicato un’ora della propria vita…soprattutto se dopo averlo letto, percepiranno nell’animo che qualcosa sta effettivamente cambiando, anche solo in termini di pensiero!

CONVEGNO: ALLA RICERCA DELLA CITTA’ PERDUTA

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COMUNICATO STAMPA

L’Associazione G.R.O.N. socialmente impegnata, sin dagli anni ’90, nel trattare temi legati allo sviluppo delle realtà urbane in scala europea e mediterranea, organizza presso la Sala Circolare – Cortile di Palazzo Fondi (Via Medina 24) e Sala Accoglienza-Palazzo Reale-Napoli, il 25 e 26 Ottobre 2018 due appuntamenti dedicati al progetto,“Alla ricerca della città perduta”. Ideato, coordinato e sostenuto da Mario Mangone, presidente dell’Associazione G.R.O.N., il progetto Alla ricerca della città perduta “punta la propria attenzione sugli strumenti organizzativi e disciplinari per rinnovare nuovi sguardi verso la città di Napoli; tenta di redigere nuovi modelli organizzativi ed innovativi per sviluppare contemporaneamente nuove collaborazioni analitiche e progettuali tra le città di Napoli-Milano ed Atene”. L’evento, oltre ad illustrare il progetto, è anche un momento di riflessione per porsi domande su: Cosa sono oggi le nostre città? Siamo in grado di riconoscerle? Qual è il senso delle loro attuali trasformazioni?

PROGRAMMA 25 Ottobre 2018 – ore 11,30 – presso Sala Circolare – Cortile di Palazzo Fondi Nuovi sguardi sulla città, attraverso i volumi di “NAPOLI-Atlante della Città Storica- Verso la costruzione di un Info-Point Urbano. Interviene Italo Ferraro – Focus storico sull’intera area urbana circostante Palazzo Fondi. A conclusione aperitivo enogastronomico musicale a cura di Antonella Iacuaniello, Vitignoitalia e gruppo miusicale “Le Belle Dame” – ore 16,30- presso Sala Accoglienza-Palazzo Reale –Napoli Quali strumenti di conoscenza per le realtà urbane contemporanee? L’esempio di “NAPOLI-Atlante della Città Storica”, come occasione di collaborazione e confronto con altre città europee, da Atene a Milano. Introduce e coordina Pasquale Belfiore Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” Intervengono: Italo Ferraro, ideatore e curatore di “NAPOLI-Atlante della Città Storica”, Ed. Oikos Nikos Ktenàs, Atene-architetto docente al Politecnico di Milano Sezione curata in collaborazione con la Comunità Ellenica di Napoli e Campania. 26 Ottobre 2018 – ore 10,30 – presso Sala Accoglienza-Palazzo Reale –Napoli Quali trasformazioni per le realtà urbane italiane. Il caso Napoli, Milano ed Atene, verso nuove forme di collaborazione. Verso la costruzione di vetrine urbane a scala internazionale tra Salone del Mobile – Milano 2019 e “Tiime Experience Bovio 2019” in parallelo con Universiadi 2019 –Napoli Introduce: Massimo Lo Cicero, Economista Intervengono: Italo Ferraro, curatore di Napoli-Atlante della città storica; Nikos Ktenàs, Atene-architetto docente al Politecnico di Milano; Paolo Casati e Cristian Confalonieri, Fondatori StudioLabo e Creativ Director di Brera Design District – Milano. – ore 16,30 -presso Sala Accoglienza-Palazzo Reale –Napoli “Produzione e consumo dei linguaggi culturali a Napoli” Intervento dell’attrice Cinzia Mirabella in memoria di Salvatore Cantalupo, Antonio Pennarella, Riccardo Zinna, Salvatore Bisogni. Introduce: Sergio Brancato, Sociologo Intervengono: Francesco Pinto, Direttore CPTV – RAI di Napoli Gabriele Frasca, Scrittore Giuseppe Gaeta, Direttore Accademia di Belle Arti di Napoli Lello Savonardo, Docente di Comunicazione e Culture giovanili- Univ. “Federico II” di Napoli

Comunicazione e Media Mario Mangone: mariomangone53@gmail.com

Carla de Ciampis: redazione@comunicaresenzafrontiere.it

SCHIAVONE – DI LINO, QUANDO LA POESIA HA LA VOCE DI DONNA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere inerente l’inaugurazione delle terza edizione di “La poesia al Tempo del Vino e delle Rose”

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Napoli, nella sobria e accogliente atmosfera del caffè e bistrot letterario, Il Tempo del vino e delle Rose, in Piazza Dante, domenica 21 ottobre, si è inaugurata la terza edizione de “La poesia al tempo del vino e delle rose”; una serie di incontri con poeti e scrittori curati da Rosanna Bazzano, proprietaria del caffé.

Ad aprire questa nuova serie di appuntamenti le poetesse Angela Schiavone e Stefania Di Lino, coadiuvate rispettivamente da Cinzia Caputo, psicoterapeuta e poetessa, e Floriana Coppola, docente e scrittrice. In veste di lettrice, Wanda Marasco.

Ad aprire la kermesse la poetessa puteolana Angela Schiavone con la sua raccolta di poesie Drammaturgia Privata edito da Giuliano Ladolfi Editore, presentata da Cinzia Caputo che ha evidenziato come per Angela, attraverso la scrittura, “il quotidiano da foglio buttato via “ assurge ad “affermazione del mito”. Chiaro riferimento al mito di Narciso, apertamente citato da Angela in una delle sue poesie, da cui la Caputo ha preso spunto per evidenziare che, mentre quella femminile si perde nell’altro, la poesia maschile si perde in se stessa. Parlando di sé, la Schiavone non ha lesinato scavare nel proprio animo, dichiarando: “la parola scritta impone il confronto con il mondo, obbligandoci a chiederci io chi sono?… Rispondendo, Non è mai tardi per manifestare ciò che sono!”. Proseguendo nella presentazione della propria visione poetica, Angela ha dichiarato, “la poesia deve emozionare”! Detta così sembrerebbe una banalità ma non lo è affatto in quanto per la poetessa – Angela direbbe, “per la poeta” – emozione è tutto ciò che suscita sentimenti e pensieri positivi in chi legge o ascolta i versi. Riaffidando alla poesia la funzione di estraneazione dell’individuo dalla “triste” quotidianità, dove “molte volte si è costretti a vivere in un ambiente composto da persone che non vogliono vederti vivere”; proiettandolo in un universo di visioni dove il dolore esistenziale è il propellente per trovare se stessi ed essere finalmente felici. Ossimoro per dimostrare che il poeta si nutre di sofferenze per partorire gioie sotto forma di versi. E di sofferenze Angela ne ha patite tante negli ultimi tempi. Come lei stessa ha ammesso con sincerità, ma senza mai sbilanciarsi, a conferma di quanto la propria poetica attinga dalle viscere dell’anima. Meritano un plauso le letture della scrittrice Wanda Marasco che ha declamato i versi della Schiavone, ma sarebbe meglio dire sussurrato, badando al ritmo e al tono di voce perché, come lei stessa ha ammesso, “le poesie non vanno urlate!”.

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Per quanto concerne la poesia della romana Stefania Di Lino, di cui si sono letti brani tratti da LA PAROLA DETTA edito da La Vita Felice, l’alternanza sul palco con la Schiavone si è rivelata il giusto abbinamento per una mattinata all’insegna dei versi al femminile. Così come la Schiavone, la poesia della Di Lino è caratterizzata da una scrittura asciutta, scevra da manierismi, diretta, priva di punteggiatura; dove “le parole sono punti di sutura”, come ha evidenziato Floriana Coppola nel proprio intervento. E poiché le suture servono per richiudere le ferite, anche per la Di Lino la poesia è fondamentale per ricucire le piaghe dell’anima determinate dalle sofferenze della vita. Lesioni conseguenti alla forte sensibilità del poeta, quello vero,che lo spinge “a voler essere, non apparire”; ad anteporre la verità alla falsità dell’immagine truccata imposta dalla società odierna dove tutto, o quasi tutto, è taroccato per apparire bello malgrado sia privo di “vita”. Questa voglia di essere ad ogni costo della Di Lino – di affermare la propria interiorità -, è frutto di una visione etica che l’autrice ha della poesia. E lo specchio in cui si riflette per ritrovare se stessa è la figura materna nella quale ogni donna tende a volersi riconoscere nell’eterno dilemma esistenziale “cosa si è e cosa si vuole essere.” Parlando di questa ricerca interiore, la Di Lino giunge a citarsi : “la mia vita è piena di morti che erano tali anche quando erano vivi”; affermando un concetto già trasparso nell’intervento della Schiavone: “La poesia è uno strumento di scavo interiore senza sconti”.
Entrambe le poetesse hanno incentrato il proprio discorso poetico su come si possa essere morti pur essendo vivi di velata matrice evangelica, a conferma di quanto la poesia, a prescindere se uno ha un credo o no, possa risolversi in un potente martello capace di fare breccia nell’anima degli uomini fino a spingerli a ribellarsi al sistema per essere se stessi. A testimonianza di come le parole possano risolversi più potenti della spada, le storie di vita di molti poeti e scrittori, antichi e moderni, costretti a esiliare o a fuggire dal proprio paese in quanto con i propri scritti alimentavano, e tuttora alimentano, il livore delle masse verso chi governava e governa.

 

 

 

 

 

 

Questa terza edizione di “La poesia al tempo del vino e delle rose” non poteva inaugurarsi in maniera più felice, a conferma di quanto Rossana Bazzano ci tenga ché il proprio caffè letterario si distingua per la qualità degli autori proposti.

Anteponendo la qualità alla quantità, difficilmente si sbaglia!