POZZUOLI: ALL’ART GARAGE “ZEITGEIST”, LA MOSTRA FOTOGRAFICA DI MARCO IANNACCONE/SCARLET LOVEJOY

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Sabato 16 febbraio all’Art Garage – Parco Bognar 21, Pozzuoli -, s’è inaugurata la mostra fotografica “ZEITGEIST” di Marco Iannaccone/ScarletLovejoy. L’esposizione durerà fino al 1 marzo. Abbiamo colto l’occasione per fare qualche domanda al maestro.

Zeitgeist cosa rappresenta?

Zeitgeist significa “spirito del tempo”. Attualmente si parla molto di una possibile eruzione del Vesuvio. Visitando gli scavi di Pompei ho visto i calchi di coloro che morirono durante l’eruzione che la distrusse. A loro modo sono una rappresentazione dello spirito del tempo in quanto possono essere considerati alla stregua di fotografie: la fotografia congela il tempo, i calchi hanno congelato un periodo storico. La stessa cosa voglio fare con zeitgeist rappresentando l’attualità.

In pratica, se non ho frainteso, ti sei immaginato un’attuale eruzione del Vesuvio, rielaborando le foto in modo da farle apparire come una sorta di calchi di coloro che furono uccisi dal terremoto immortalandoli nel loro ultimo gesto esistenziale come è avvenuto a Pompei con i calchi…

Sì, lo spirito del tempo del 2019!

Oltre a zeitgeist quali altri progetti hai realizzato?

Ne ho realizzato tanti di svariate tipologie, perfino quello in cui il soggetto era un condominio raccontandone le infinite storie che vi si articolano nel suo interno in quanto un condominio a modo suo è un universo. In sintesi mi piace ritrarre il sociale ricostruito a modo mio, non mi piace il reportage. Le storie si possono raccontare anche in maniera costruita.

Il fotografo è un testimone del nostro tempo, prediligi soffermarti su un soggetto particolare o spazi ad ampio raggio?

Cerco di rappresentare il sociale in tutte le sue sfumature: ho affrontato il femminicidio, un progetto che tenni in stand by per due/tre anni; mi sono interessato del fenomeno del nuovo fascismo di cui oggi si parla con insistenza, seppure è un argomento che non mi piace.

Quando fotografi ti identifichi nel soggetto che stai ritraendo o te ne distacchi?

In parte non mi distacco, partecipo a ciò che sto rappresentando sia da un punto di vista compositivo sia emotivo perché se ho deciso di ritrarlo significa che mi emoziona: fotografare è eternare un’emozione.

Napoli è una città con tante sfumature sociali per cui a un artista potenzialmente offre miriadi di soggetti: vivere a Napoli artisticamente ti ha favorito?

No. Per un periodo della mia vita ho vissuto a Milano e ho fatto progetti anche lì. Milano e Napoli, essendo delle metropoli, hanno le stesse problematiche. Tuttavia riconosco che a Milano difficilmente avrei potuto ritrarre una donna con il paniere come invece ho fatto a Napoli. Certe immagini giocose le può offrire solo Napoli.

Tra poco assisteremo a una sorta di spettacolo denominato Tarallucci e Vino di cui sei il protagonista, di cosa si tratta?

Durante le inaugurazioni delle mostre si è soliti offrire un buffet. Bene, la mia è una critica al fatto che molto spesso le persone vengono alle inaugurazioni solo per approfittare del buffet, mangiando e bevendo a scrocco; oppure per intessere public relations al fine di crearsi dei contatti da sfruttare in seguito per proprio uso personale, fregandosene dell’artista e delle sue opere. In questo breve spettacolo verrò rappresentato come una statua fatti di palloncini che contengono del vino a cui piedi ci sono piattini con taralli: delle persone verranno verso di me per prendere un tarallo e faranno scoppiare i palloncini per bere il vino contenuto distruggendo la statua di cui sono parte integrante. In questo modo voglio affermare che quando il pubblico va alle mostre solo per mangiare e bere distrugge l’arte: la gente non si rende minimamente conto di quanto lavoro c’è dietro la creazione artistica e all’allestimento di una mostra. Personalmente ho la sensazione che a Napoli, ma mi sento di dire in Italia in generale, molte persone non hanno rispetto per l’arte.

Perché la gente non avrebbe rispetto per l’arte?

E’ un problema di educazione e anche perché oggi l’attenzione delle persone è distolta da molti oggetti di distrazione di massa. Non a caso tra i soggetti che ho ritratto ce ne è uno che si fa un selfie mentre il Vesuvio sta eruttando non avvedendosi del rischio che corre.

Progetti per il futuro?

Dopo Pozzuoli, scelta come luogo d’anteprima, da luglio ad agosto porterò Zeitgeist al PAN a Napoli e sempre al Pan riproporrò un progetto dal titolo Ritrovarsi che ho già esposto a ottobre scorso.

 

Vincenzo Giarritiello

ALDO CHERILLO RACCONTA IL LAGO DI AGNANO

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Pozzuoli.

Forse non tutti sanno che un tempo all’interno della conca d’Agnano esisteva un lago, probabilmente formatosi nel X secolo, sulle cui sponde oltre alla pesca e alla caccia si praticava la coltivazione della canapa tessile: una volta raccolta e caricata sui carri, la fibra veniva trasportato alle fabbriche di Miano lungo una strada impervia che si estendeva da Agnano a via Terracina fino alla Loggetta, risalendo per Via Pigna, scollinando sui Camaldoli e giungendo a destinazione.

La bonifica del lago, ideata per fronteggiare i casi di malaria che d’estate decimavano la popolazione, fu progettata nel 1835 in epoca borbonica ma venne realizzata solo dopo l’avvento dell’unità d’Italia tra il 1865 e 1871. Quando l’invaso fu prosciugato, sul fondale vennero scoperte ben 72 sorgenti d’acqua sorgiva che vanificarono le speranze di chi aveva investito capitali in quel progetto per poter poi lucrare sul terreno bonificato.

Di tutto ciò e altro ancora ha parlato Aldo Cherillo sabato 16 febbraio da Lux In Fabula a Pozzuoli in QUANDO C’ERA IL LAGO DI AGNANO nell’ambito della manifestazione QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE.

Supportato da immagini fotografiche e disegni tratti dal volume IL LAGO DI AGNANO di Libero Campana, storico locale residente sul Pendio di Agnano che del lago conosce vita morte e miracoli, per oltre un’ora Cherillo ha illustrato alla platea con una narrazione semplice e chiara, inframmezzando dotte dissertazioni a simpatici aneddoti, la storia del lago nel corso dei secoli, fino al suo svuotamento mediante la costruzione di un canale sotterraneo lungo un chilometro e mezzo che sbucava a mare, tuttora visibile nei pressi del Dazio a Bagnoli, il cui scavo costò un caro prezzo in termini di vite umane.

Sul lago sorgeva la famosa “grotta del cane” – un ipogeo artificiale, molto probabilmente un sudatorio delle antiche terme greche – oggi interdetta al pubblico, così denominata per via delle esalazioni venefiche di anidride carbonica che vi si diffondevano: essendo l’anidride carbonica più pesante dell’ossigeno, il gas si depositava al suolo per cui qualunque animale vi entrasse e respirasse restava tramortito.

Per fronteggiare la miseria, gli abitanti del luogo accompagnavano i turisti in visita alla grotta recando con sé un cane che facevano entrare nel cunicolo. Non appena l’animale vi accedeva e perdeva i sensi, lo immergevano nel lago perché si riprendesse. Da qui la leggenda che le acque del lago fossero “miracolose”.

Con la passione tipica degli autodidatti, Cherillo ha fatto scoprire ai presenti aspetti dei campi flegrei ignoti che meriterebbero di essere divulgati, magari organizzando visite guidate per non dimenticare che la conca di Agnano è un cratere vulcanico spento da millenni.

La natura vulcanica della zona è testimoniata dalle intense fumarole in località Pisciarelli e dalle gloriose terme di Agnano, un tempo fiore all’occhiello di Napoli, che meriterebbero il giusto rilancio a livello locale e nazionale tornando a fungere da volano turistico per un territorio ricco di risorse ma povero di menti imprenditoriali capaci di sfruttarle al meglio.

 

Vincenzo Giarritiello

VOCE ‘E SIRENA, IL GRIDO DI RABBIA DI SANDRO DIONISIO AL CINEMA SOFIA DI POZZUOLI

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Di seguito l’intervista integrale al regista Sandro Dionisio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

La sera del 4 marzo 2013 un incendio doloso distrusse quattro dei sei capannoni che componevano Città della Scienza uno dei luoghi simbolo della cultura napoletana. Da quel tragico evento il regista Sandro Dionisio trasse spunto per il suo film VOCE ‘E SIRENA che sarà proiettato lunedì 4 marzo al cinema Sofia di Pozzuoli nel sesto anniversario dell’incendio. Per l’occasione lo abbiamo intervistato.

Sandro Voce ‘E Sirena è un grido di rabbia contro la distruzione di un luogo simbolo della cultura napoletana o contro la distruzione dell’intera città?

Entrambe le cose. Chiaramente il film nasce come reazione d’impulso all’atto vandalico: come tanti napoletani, anch’io vedendo in televisione le immagini del rogo mi indignai pensando che gli intellettuali napoletani dovevano reagire alla distruzione di quello che era uno dei luoghi di cultura più importanti di Europa. Di conseguenza scrissi di getto un film che raccontasse la protesta della civiltà civile contro quel gesto criminale non limitandomi a documentarlo né a dar vita a un’inchiesta per individuarne i colpevoli e il movente, ma ho cercato di far sì che l’incendio simboleggiasse la rovina della città. Nei secoli Napoli è stata oltraggiata e saccheggiata dalle dominazioni straniere e dai potenti di turno. Sopportare tutto ciò stoicamente va a onore dei napoletani.

Non pensi che paradossalmente ciò potrebbe essere invece inteso come una sorta di ignavia da parte dei cittadini?

No, decisamente. Piuttosto credo sia una forma di incapacità a strutturare la protesta in termini rivoluzionari

Ci vorrebbe un Masaniello…

Questa è proprio la frase che dice Sofia, una delle due protagoniste del film. Io rispondo di no, perché Masaniello non ha mai risolto i problemi di Napoli così come non li ha risolti la Pimentel de Fonseca e tanti altri eroi cittadini. Napoli è sempre stata salvata dalla coesione sociale, dal popolo unito. Secondo me gli eroi non fanno le fortune di un popolo.

Nel film ci sono due figure femminili, Patrizia interpretata da Cristina Donadio, Sofia da Rosaria De Cicco: una rappresenta la borghesia, l’altra il popolo, perché questa dualità?

Napoli è l’unica città europea in cui questi due aspetti sociali convivono in spazi minimi, che addirittura a volte invadono l’uno il campo dell’altro; e poi perché in questo modo il film si è avvalso di una dinamica particolarmente felice grazie alla straordinaria interpretazione delle due attrici cui si associa Agostino Chiummariello: se in un film i personaggi fossero tutti uguali la narrazione sarebbe monotona. Mentre credo che, avendo messo a confronto due anime diverse, sono riuscito a creare momenti di enfasi derivanti dal rogo. Ovviamente nel film ci sono anche aspetti comici perché spesso allegria e dolore camminano a braccetto a testimonianza dell’eterno dualismo esistenziale.

Perché hai scelto di girare un crossover, ovvero un mix tra film e documentario?

Il crossover somiglia a Napoli nel senso che questa contaminazione attiene al racconto che volevo portare alla luce: Napoli è una città contaminata per eccellenza, forse è la prima città multietnica del mondo. Non a caso in città abbiamo una fitta presenza di minoranze etniche che sono storiche. Napoli non è una metropoli lineare per cui bisognava girare il film con un linguaggio che mettesse in luce queste caratteristiche.

Possiamo dire che sei voluto uscire dagli stereotipi?

Diciamo che più che cercare di essere originale ho voluto essere aderente alla realtà. Quando una storia mi chiama – secondo me sono sempre le storie a offrirsi gli autori, non viceversa – e decido di mettermi al suo servizio, mi nascondo dietro di essa; divento invisibile evitando che si percepisca la mia incisività di regista in quanto non amo le regie muscolari il cui fine quasi sempre è quello di mostrare quanto si è bravi. Tutto questo non mi interessa. Per me la regia deve essere strumentale a quello che il film deve raccontare e in questo seguo le tracce di grandi maestri quali De Sica o Zavattini.

Dunque ti rifai al neorealismo…

Seppure il neorealismo è stato un movimento che è durato un breve arco di tempo,deve ritenersi come la vera rivoluzione del cinema mondiale. Personalmente cerco di pormi dietro la macchina da presa come facevano i maestri citati prima, in maniera sobria ponendo attenzione alla storia.

Nel film compaiono anche personaggi della cultura napoletana quali Aldo Masullo, Marino Niola, Enzo Moscato, ossia un mix culturale: perché questa scelta?

Perché volevo e voglio che gli intellettuali napoletani riflettessero e riflettano sul motivo di questa nuova ferita arrecata alla città; che, così come avvenne ai tempi del mio maestro Franco Rosi con Mani Sulla Città, la città esprimesse un pensiero su quanto è accaduto.

Quindi il film è anche una denuncia contro l’inazione degli intellettuali napoletani…

Assolutamente sì! Secondo me gli intellettuali napoletani, pur essendo spesso la punta di diamante dell’intellighenzia europea, hanno il grande difetto di non fare rete, per cui di non servire adeguatamente la città. Io ho messo il mio film al servizio di quest’azione collettiva a mo’ di trait d’union. Mi piacerebbe che gli intellettuali napoletani fossero più vicini l’uno all’altro in modo dare esito alle esigenze del popolo.

Da uomo di cultura e amante di Napoli come stai vivendo l’azione che la città sta intraprendendo verso gli immigrati dicendosi pronta ad aprire le porte del porto per farli sbarcare?

Su quest’argomento nel 2011 ho girato il film “Un Consiglio a Dio” dove Vinicio Marchioni interpreta un trovacadaveri che recupera da una spiaggia i corpi degli extracomunitari deceduti a mare durante il naufragio dei barconi della speranza. La mia opinione è che i migranti sono una ricchezza: come faremmo senza le ucraine che fungono da badanti ai nostri anziani e ammalati? Come faremmo senza i cingalesi e i cinesi che hanno portato un indotto economico fortissimo? Non dimentichiamo che al momento gran parte del nostro PIL è affidato ai guadagni delle persone di colore. Ormai è sancito che gli immigrati non sono solo disperati in fuga dalle guerre e dalla carestie ma sono addirittura imprenditori che portano risorse al nostro paese.

Dunque Napoli è obbligata ad aprirgli il proprio porto…

A imporglielo è la sua natura di città multietnica e patria di migliaia di emigrati all’estero!

Quali sono come regista le tue aspettative per il futuro?

Razionalmente mi verrebbe da dire nessuna perché, per quanto mi riguarda, ritengo che questo paese non abbia alcun futuro, soprattutto per i giovani: insegno cinematografia all’Accademia delle Belle arti a Napoli e ti dico che da insegnante sono molto preoccupato per il futuro dei miei ragazzi i quali esprimono bellezza e grande intelligenza. Tuttavia l’uomo di cultura che è in me rifugge da questo cinismo e reagisce esprimendo la propria arte perché fino a quando c’è alito nel corpo bisogna resistere e lottare affinché le cose cambino in meglio!

 

Vincenzo Giarritiello

INTERVISTA AL CANTAUTORE NICOLA DRAGOTTO

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A seguire l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Sabato 2 marzo alle ore 21 presso ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE (direttore artistico Vania Fereshetian), a Pozzuoli in via Provinciale Pianura 16, (di fronte la stazione di servizio BA.CO.GAS.), si terrà il concerto del cantautore Nicola Dragotto.

Per l’occasione gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività artistica.

Nicola sono trascorsi quasi due anni dalla pubblicazione del tuo primo disco L’ULTIMA CAUSA. In questo frangente cosa è cambiato in Nicola Dragotto artista?

Più che cambiato è maturato l’approccio verso la musica e un po’ verso il mondo che mi circonda. Penso di aver raggiunto una maggior maturazione e nello stesso tempo serenità nel rapportarmi con le problematiche esistenziali da cui trarre ispirazione e humus per le mie composizioni.

Dopo tanti anni in cui il tuo riferimento artistico è stato Giorgio Gaber – non a caso ti definivi cantattore – ti sei degaberizzato, come ti piace dire, dando spazio a te stesso: un’acquisizione di autostima o una scelta conseguente all’uscita del disco?

Gaber è stato un punto di partenza in quanto, riprendendo la mia strada artistica in età matura, avevo pensato bene di dedicarmi al teatro canzone per riannodare un filo conduttore col mio essere artista. Il degaberizzarmi è legato a un momento di presa di posizione nel volermi sentire cantautore nel senso classico della parola. Però devo dire che anche negli ultimi spettacoli che ho fatto sono riuscito a raggiungere quella che mi sembra la formula vincente: una via di mezzo tra cantautore e teatro canzone. Unisco, infatti, alle mie composizioni musicali anche dei monologhi tratti dai miei precedenti spettacoli e brevi incursioni di poesia con versi di Pasolini perché mai come oggi Pasolini si sta rivelando profetico, quindi mi è sembrato giusto onorare colui che è stato non solo un faro ma sicuramente uno dei maggiori esponenti della cultura italiana di tutti i tempi.

La tua parentesi con il Be Quiet ti ha maturato a livello artistico o dobbiamo considerarla semplicemente una parentesi professionale?

L’esperienza del BE Quiet è stata unica, irripetibile di per sé, perché ritrovarsi in un locale underground, una cantina, partire da là e nel giro di sette anni approdare a un palcoscenico come quello del teatro Bellini, ritengo sia una soddisfazione unica per chi ci ha creduto e per chi ha avuto la forza di andare fino in fondo. Però adesso, pur rimanendo il Be Quiet nel mio cuore, vivo un momento di ricerca artistica personale.

Pubblicamente, anche sui social, non ti fai scrupoli di attaccare in maniera diretta un certo mondo dello spettacolo come ad esempio, hai fatto,all’indomani della serata finale di Sanremo. Sulla tua pagina Facebook hai scritto, cito testuale: “Anche quest’anno è andata. Caro Sanremo, io sono fra quelli che davvero non ti hanno onorato. Lo so, sono un peccatore. Non sono venuto alla messa. Non mi sono confessato sui social, non ho invocato questo o quel vincitore e addirittura non ti giustifico come fenomeno di costume. Non trovo utile criticare i soggetti partecipanti, sia i nuovi che i vecchi colpiti dalla sindrome di Dorian Gray. Quello che sento di criticare è la perdita del coraggio. La bellezza, la forza e la profondità di un testo sono oggetto di ghettizzazione. I mecenati hanno lasciato il posto a miopi ed avidi imprenditori dell’usa e getta. Ci si è dimenticato dei poeti: la voce del popolo, l’incarnazione della identità, dell’appartenenza. Il problema non è emergere, quanto cercare di restare a galla senza diventare uno stronzo. Il vero problema è questo andare avanti tanto per andare mentre tutto si va spegnendo lentamente, un camminare senza senso e chi va controsenso in modo ostinato e contrario, trova la risposta a tutta questa follia imperante, nella sua sola solitudine…”

Io non attacco il sistema di per sé. Per chiarirci, artisticamente credo di essere stato sempre ironico ma moderatamente misurato ed oggetto, finora in positivo, della critica altrui. Quello che non sopporto è l’atteggiamento irriverente di taluni che vivono una subnormalità aculturale definendosi o peggio, venendo definiti da cannibali addetti ai lavori e da spettatori buoi, artisti o addirittura poeti. Per me la poesia è un momento sacro che si fa carne e sangue. Il poeta è un Atlante condannato a portare sulle spalle l’imbarazzante peso della memoria del suo popolo. Credo che oggi ci sia molto edonismo da parte di sedicenti poeti e l’aspetto più triste e preoccupante è che vengono definiti tali anche dalla pletora per lo più incolta di facebucchini, che confonde frasi lanciate troppo spesso ad capocchiam nel mare magnum di internet, con la poesia.

Tu sei consapevole che tenendo questo atteggiamento ti fai nemici nell’ambiente?…

Scusa, di che ambiente parliamo? Se ci riferiamo a quello artistico puro, credo che possano soltanto sposare le mie affermazioni perché non ne faccio una questione di superiorità ma di buongusto, di educazione e di rispetto verso coloro che devono ascoltarti e leggerti e comunque non ho mai pensato di condizionare il mio lavoro e il mio pensiero su ciò che può dire o pensare di me la gente.

Per ora L’ultima causa è stato il tuo unico disco, hai in programma di inciderne un altro?

Se trovassi una produzione volenterosa, disposta ad accogliere le mie divagazioni, ne sarei ben lieto. L’importante da parte mia è riuscire a coltivare sempre le parole giuste anche attraverso l’amore che mi viene contraccambiato per quello che cerco di donare dal mio cuore agli altri.

Nicola quanto incide la presenza della famiglia in questo tuo affrontare a viso aperto il mondo dello spettacolo?

La mia famiglia ha compreso le mie esigenze e mai come in questo momento, quando serve, mi è vicina sostenendomi. Diciamo che è passato il tempo in cui mi si chiedeva, mentre componevo, se i ceci dovessero essere cotti con l’aglio o con la cipolla. Ora la porta la si apre in silenzio e, se sto componendo, la si richiude, rimandando la domanda a data da destinarsi anche rischiando di restare digiuno!

Dallo spettacolo che il prossimo 2 marzo terrai a Pozzuoli, che Dragotto ci dobbiamo aspettare?

Il Dragotto di sempre: spontaneo, naturale, agrodolce. All’occorrenza sono critico, duro, ma anche molto irriverente verso me stesso. Quel che conta è divertirmi divertendo, invitando a riflettere e ridere di noi stessi, inventandomi il giusto registro per non annoiare chi ha deciso di investire su di me un paio di ore della propria vita.

Cosa vorresti che si dicesse di te, artisticamente parlando, quando non ci sarai più?

Ti rispondo alla Bukowski: uno stronzo di meno!

 

Vincenzo Giarritiello

DA LUX IN FABULA ELEONORA PUNTILLO, PROFESSIONE GIORNALISTA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 9 febbraio presso Lux In Fabula, a Pozzuoli, nell’ambito della manifestazione Quattro Chiacchiere Con l’Autore, si è svolto l’incontro con Eleonora Puntillo. Giornalista dal 1961, nel corso di oltre cinquant’anni di attività ha collaborato con L’unità, Paese Sera, La Repubblica, Il Roma, Il Corriere del Mezzogiorno, Il Corriere della Sera e con la rivista Polizia e Democrazia partendo dal ruolo di cronista fino a rivestire quello di capo servizio e inviato.

In poco meno di due ore di chiacchierata, Eleonora ha raccontato svariati episodi della propria carriera giornalistica, iniziando dalla vicenda di Felice Ippolito da lei narrata nel libro FELICE IPPOLITO UNA VITA PER L’ATOMO edito da EDIZIONI SINTESI, in cui racconta dello scienziato Felice Ippolito che, per le sue vedute avveniristiche in campo energetico tese all’utilizzo dell’energia atomica, fu osteggiato e deriso dai poteri, politici e non, dell’epoca.

Stimolata dalle domande e dalle riflessioni del pubblico, commentando la funzione del giornalismo moderno, la Puntillo ha espresso il proprio parere sull’avvento di internet e del digitale; riconoscendo alle nuove tecnologie il merito di aver reso possibile a chiunque l’accesso alle notizie, ma nello stesso tempo stigmatizzandone l’abuso indiscriminato che a suo dire avrebbe svilito una professione “nobile” dando a chiunque la possibilità di fornire informazioni in rete spesso con l’intento di divulgare falsità al fine di confondere le idee al lettore.

Come si conviene a un giornalista di “vecchio stampo”, la Puntillo ha ammesso di essere rimasta indissolubilmente legata alla carta stampata raccontando di quando, inviata a seguire un processo a Salerno, la mattina prima di entrare in aula invitava i colleghi a fare un’abbondante colazione e di come questi invece si limitassero a prendere un caffè per entrare subito in sala, mentre ella si attardava al buffet mangiando di tutto e di più. Ciò comportava che a un certo orario tanti giornalisti, vittime dei morsi della fame, erano costretti a recarsi al bar per mangiare un cornetto “sereticcio”, perdendo l’anima della discussione processuale che proprio in quel momento entrava nel vivo. Viceversa lei, proprio in virtù dell’essersi saziata abbondantemente prima che iniziasse il dibattimento processuale, non essendo afflitta dalla fame, era in grado di raccogliere tutte le informazioni e al momento che dettava il pezzo comunicava dettagliatamente al giornale la notizia, a differenza degli altri colleghi i quali, preso atto di questa sua prerogativa, nei giorni a seguire incominciarono a spulciare alle sue spalle quando scriveva, approfittando della leggibilità della sua scrittura chiara e lineare. Per evitare che continuassero a copiare, essendo laureata in filosofia, iniziò a scrivere gli appunti in greco scalzando tutti.

Parlando dello sgombero del Rione Terra avvenuto il 2 marzo del 1970, e di cui tra due settimane si ricorrerà il 49° anniversario, la giornalista non ha potuto fare a meno di manifestare le proprie perplessità sull’effettiva necessità di quel provvedimento che non solo lei reputa quanto meno avventato.

Ascoltare la Puntillo raccontare della propria esperienza professionale è equivalso a presenziare a una lezione di giornalismo dove il professore ha spalancato senza filtri il proprio animo agli “allievi”.

Grazie Eleonora!

POZZUOLI: TOBIA IODICE PRESENTA IL SUO SAGGIO SU D’ANNUNZIO A NAPOLI

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A seguire la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Piacevole serata venerdì 8 febbraio alla Biblioteca Comunale di Pozzuoli dove si è presentato il volume COME UN SOGNO RAPIDO E VIOLENTO di Tobia Iodice, edito da CARABBA: relatori Grazia Ballicu e Matilde Iaccarino; moderatore Antonio Alosco; in rappresentanza delle istituzioni Maria Teresa Moccia di Fraia Assessore alla cultura del comune di Pozzuoli.

Il libro, un saggio in chiave romanzata, narra il soggiorno di Gabriele D’Annunzio a Napoli tra il 1891 e il 1893: in fuga da Roma dove è pressato dai creditori che, alla sua partenza, gli depredano casa, il 31 agosto del 1891 il vate, uomo sconfitto, giunge in treno a Napoli.

Dopo i continui rifiuti dell’editore Treves a pubblicare L’Innocente ritenendolo un romanzo osceno trattando di un infanticidio, grazie alla pubblicazione in appendice dello stesso sul Corriere di Napoli fondato dai suoi amici Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, la figura di D’annunzio come autore e come uomo si riabilita agli occhi dell’opinione pubblica tanto che non sarebbe errato presumere che da Napoli parta la sua inarrestabile ascesa nell’empireo della poesia.

Amante delle donne e della bella vita che lo portano a essere perennemente a corto di danaro, anche a Napoli il poeta non esita a indebitarsi fino al collo attribuendo le cause della propria “sventura” finanziaria a chi gli suggerì di vivere al civico 9 di viale Elena, oggi viale Gramsci, attribuendogli l’etichetta di iettatore e non alla propria sventatezza nello spendere. Questo suo aspetto superstizioso lo spinge a frequentare gli ambienti occultistici di Napoli dove spicca la figura della medium Eusapia Palladino: D’annunzio partecipa ad alcune sedute spiritiche non tanto per sondare la presunta esistenza del mondo ultraterreno ma per avere un bel terno da giocare al lotto.

Narrando questo particolare peridio dannunziano, il volume di Iodice si avvale di una ricca documentazione storica, arricchita da lunghi spezzoni dell’epistolario tra D’annunzio e la sua amante romana Barbara Leoni a cui il poeta nelle sue quotidiane lettere giura eterno amore e fedeltà quando a Napoli aveva già intessuto la relazione con Maria Gravina, moglie del conte di Anguissola, da cui ebbe Renata la sua unica figlia, e altre liaison che ne rafforzano la fama di irresistibile seduttore.

Mentre nel suo intervento la Iaccarino ha tracciato un quadro pressoché completo dell’opera, soffermandosi su come nel libro si evinca un D’annunzio ottimo imprenditore di se stesso, capace di trovare i fondi necessari per la pubblicazione dei suoi libri, la Ballicu ha messo in risalto gli aspetti tecnici della scrittura di Iodice definendola “analitica e raffinata”, evidenziando il modo in cui l’autore tratteggia in maniera precisa i vari episodi narrati offrendo al lettore tutti i riferimenti affinché si faccia un’idea chiara di quanto avveniva.

Da fine storico qual è il professore Alosco non si è limitato a moderare il tavolo ma ci ha tenuto a precisare che, contrariamente a quanto si presume, D’annunzio non era affatto un nazionalista ma un radical socialista. A sostegno di questa sua considerazione l’illustre storico ha citato la Costituzione del Carnaro, scritta da D’annunzio e promulgata l’8 settembre del 1920 a Fiume, da tanti esperti ritenuta in assoluto la più bella Costituzione finora mai redatta.

Nel suo intervento conclusivo, dopo aver ringraziato il pubblico in sala, l’Assessore Moccia di Fraia ha supposto che durante il suo soggiorno napoletano D’Annunzio avesse visitato anche Pozzuoli, ricevendo assoluta conferma dall’autore a riprova che in passato anche il capoluogo flegreo era meta ambita degli ambienti culturali dell’epoca.

La serata si è conclusa con l’attore Marco Sgamato che ha letto in maniera intensa e coinvolgente alcuni passi del libro, supportato dal commento musicale del maestro Francesco Maggio.

Vincenzo Giarritiello

A POZZUOLI PRESENTATO “ARSENALE DI MEMORIE” DI IDA DI IANNI E MATILDE IACCARINO

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it


Pozzuoli.

Penso che chiunque abbia avuto la fortuna di assistere venerdì 1 febbraio nella sala convegni di De Gemmis a Pozzuoli alla presentazione di Arsenale Di Memorie, il libro scritto a quattro mani da Ida Di Ianni e Matilde Iaccarino per Volturnia Edizioni, sarà stato scosso in maniera positiva da un “arsenale” di emozioni grazie alla sincerità con cui le due autrici hanno raccontato la genesi dei rispettivi racconti che compongono il volume – LA BAMBINA AMERICANA Ida Di Ianni e DI MADRE IN FIGLIA Matilde Iaccarino.

Le storie, entrambe autobiografiche, narrano rispettivamente del complesso rapporto tra la Di Ianni e il padre, e Matilde e sua madre.

Il padre di Ida, figlio di quella società contadina arcaica dove l’uomo era il “padrone” e la donna la “serva”, quando la moglie stava per partorirla, organizzò in casa un buffet per brindare con gli amici alla nascita del maschio; cacciandoli via con rabbia quando gli fu comunicato che era nata “una bellissima bambina”.

Con le lacrime agli occhi, spesso interrompendosi per contenere l’emozione, la Di Ianni non ha esitato a condividere con il folto pubblico in sala momenti drammatici della propria esistenza. In particolare quello di questo padre/padrone che giunse a tinteggiare di scuro i vetri delle finestre di casa per impedire alla moglie di guardare fuori.

Un arsenale di memorie forti quello di Ida, addolcito dal ricordo di questa figura paterna invadente e possessiva che però, quando si presentò al colloquio con i professori di liceo, nonostante lei avesse già diciotto anni, non esitò a rivolgersi loro chiedendo “come va la mia bambina?”; dissolvendo in un attimo con quella frase amorevole tutto quel costrutto di autoritarismo che lo permeava, rivelando un animo estremamente dolce.

Il titolo del racconto della Di Ianni prende spunto dal periodo che lei e la sua famiglia vissero in America. Fase esistenziale anche quella non semplice in quanto nessuna delle donne di casa, a partire dalla giovane nonna, accettò il trasferimento oltre oceano.

Momento particolarmente forte della serata è stato quando Ida ha pubblicamente confessato di aver perdonato il padre solo nel momento in cui si ammalò e lei lo accudì facendogli da badante fino alla fine.

Non meno forte per impatto emotivo è stata Matilde Iaccarino parlando della genesi del proprio racconto, un dialogo scritto alcuni mesi dopo la scomparsa della madre con cui non aveva affatto un rapporto semplice ma alla quale deve la propria passione per i libri e il carattere forte e determinato.

Con malinconia l’autrice ha narrato l’episodio che gli raccontava spesso la mamma di quando, poco dopo la guerra, sua madre la portava a vedere il luogo in cui si rifugiavano per ripararsi dai bombardamenti. Indignata per la sporcizia e la promiscuità che lo caratterizzavano, come “risarcimento” pretese in regalo un libro. Da lì non smise più di leggere e i libri sono poi stati il collante per eccellenza attraverso cui lei e Matilde hanno comunicato durante il loro conflittuale rapporto: “hai letto questo libro? Cosa ne pensi? Dovresti leggerlo…”

Con orgoglio Matilde ha narrato che da ragazza la mamma era talmente ribelle da non farsi scrupoli da entrare da sola in un bar per prendere un caffè, suscitando l’indignazione della gente del posto che lo raccontava al padre. Quando questi si lamentò con la moglie, si sentì rispondere: “la ragazza l’ho fatta con due gambe per cui può andare dove le pare!”. Da quel momento “mio nonno non disse più niente!”

Come per la Di Ianni con il padre, anche per Matilde la scrittura ha funto da arcolaio su cui dipanare la matassa dei ricordi dando un senso alle ombre che offuscavano il rapporto materno; un mezzo per rielaborare non solo il lutto derivante dalla scomparsa della madre, ma per comprendere, mentre i ricordi fluivano sulla carta, che in realtà quei conflitti erano sintomo del rispetto e dell’amore che nutrivano reciprocamente l’una per l’altra; che il loro era un normalissimo rapporto madre/figlia.

Se la Di Ianni ha sofferto per la presenza di un padre tiranno che giunse a ripudiarla perché non nacque maschio, Matilde ha sofferto la presenza di una madre che, rimasta vedova prematuramente, dovendo sopperire anche alla figura paterna, non si può escludere abbia strutturato il proprio ruolo in virtù di tale assenza dandole affettivamente meno di quanto avrebbe voluto donarle.

Oltre alle autrici meritano di essere segnalati gli interventi dei due relatori, la poeta Angela Schiavone e il professor Magliulo: la Schiavone ha tracciato per grandi linee le trame dei racconti, soffermandosi per lo più a parlare delle autrici che ben conosce essendo loro amica, tagliandosi un ruolo più da moderatrice che non da relatore; Magliulo ha esaltato l’indiscusso valore sociale del libro definendolo “non un libro privato ma pubblico perché narra il costume italiano, ossia come fino a pochi anni fa la donna fosse ancora vista da molti uomini come una creatura inferiore” e, oggi che finalmente sembra essere riuscita a conquistarsi una propria autonomia, sempre più spesso è vittima della violenza maschile a riprova che molti uomini, non accettando tale condizione di libertà, non si fanno scrupoli di comportarsi come quegli stessi musulmani contro cui inveiscono perché impongo alle donne il burqa, il silenzio e la violenza fisica se disubbidiscono.

Ha chiuso la serata l’intervento dell’assessore alla cultura del comune di Pozzuoli Maria Teresa Moccia Di Fraia la quale non ha nascosto la propria emozione per quanto aveva ascoltato, dicendosi felice che al tavolo sedessero quattro insegnanti – le due autrici e i relatori – “visto che oggi tale figura è sempre più svilita da una società in cui si è perso il senso delle parole”. Di riflesso l’assessore ha citato Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, invitando alla ristrutturazione del lessico affinché si desse nuovamente peso alle parole visto che oggi molte sembrano aver perso il proprio valore.

Vincenzo Giarritiello

“Cuma”, racconto

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Di seguito l’incipit del racconto pubblicato su “comunicare senza frontiere”, per leggerlo tutto basta cliccare qui 

 

L’ultima volta che Corrado aveva visitato l’acropoli di Cuma fu all’epoca del liceo. Successivamente, nonostante si fosse ripromesso di recarvisi non appena potesse, gli impegni universitari prima e l’attività di cardiologo poi lo avevano costretto a tenere in naftalina quel proposito.

Spesso la sera, rientrando a casa da un’estenuante giornata di lavoro tra ospedale e ambulatorio, dopo aver cenato con la famiglia informandosi sul come fosse trascorsa la giornata di Alberto e Luca, i suoi figli, e di sua moglie Rosaria funzionaria alla regione, mentre i ragazzi si ritiravano in camera per guardare la tv o giocare alla play station e sua moglie si barricava nello studio davanti al PC per continuare il lavoro d’ufficio, lui si sdraiava sulla comoda poltrona nel soggiorno, immergendosi nella lettura di uno dei tanti saggi sui Campi flegrei che riempivano la libreria di casa. Possedeva l’opera omnia del Maiuri, nonché una sfilza di libri di archeologi e studiosi della “terra ardente”. Spesso alternava a quei testi la lettura di Omero e Virgilio che nelle loro opere ponevano l’ingresso all’Ade, la terra dei morti, proprio nei Campi flegrei. Precisamente Virgilio collocava la discesa agli inferi sul Lago d’Averno. Uno dei passi che prediligeva dell’Eneide era il capitolo VI dove si narrava dell’incontro di Enea con la sibilla. A volte meditando su quei luoghi mitici, adagiandosi nella poltrona con un bicchiere di whisky tra le dita, chiudeva gli occhi sussurrando le parole che Enea proferì quando incontrò la pitonessa, <<Vergine, non sorge davanti alla mente inatteso o nuovo l’aspetto del dolore: l’animo esperto lo prevede ed è pronto ad accoglierlo: ma soltanto di una cosa ti prego: se qui vicina è la soglia di Dite e l’opaca palude donde salgono i gorghi nebulosi di Acheronte, io vorrei scendere giù a rivedere l’immagine cara del mio genitore: insegnami la via, aprimi tu quelle porte sacre. In mezzo alle fiamme fuggendo e sotto mille dardi su le mie spalle lo presi e lo strappai al nemico; lui, compagno al cammino, lui invalido, vecchio, sopportava audace con me tempeste di tutti i mari e i nembi oscuri del cielo; e ch’io venissi supplice a te, ai tuoi penetrali, lui stesso m’impose. Tu, santa, abbi pietà, ti prego, di me e di mio padre: tu certo puoi tutto né fosti invano preposta Ecate ai boschi d’Averno. Se Orfeo poté richiamare dai Mani l’amata fidando nel suono della cetra, se Polluce scambia col fratello la morte, e va tante volte e ritorna per questa via – dovrò ricordare il grande Teseo ed Ercole? – anche il mio sangue deriva da Giove>>.

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L’insolito freddo che quei giorni attanagliava il centro sud aveva scoraggiato i pazienti dal recarsi allo studio. Pertanto, come accadeva solo ad agosto, l’anticamera dello studio era vuota. Più volte nel corso del pomeriggio s’era alzato dalla scrivania per affacciarsi nell’atrio a controllare se qualcuno aspettasse il proprio turno. Sempre incrociava lo sguardo sornione di Monica, la sua assistente alla porta che, seduta dietro alla scrivania, era impegnata a risolvere un cruciverba. <<Penso che ormai non verrà nessuno>> disse fissando l’orologio al polso. <<Il freddo e l’influenza mi stanno regalando un inatteso pomeriggio di riposo. Tu va’ pure, io mi intrattengo ancora una mezz’oretta>>. Fece un cenno di saluto col capo e rientrò nello studio. Si avvicinò alla libreria di fianco alla finestra; lanciò un’occhiata attraverso il vetro del pannello scorrevole ai libri e alle riviste mediche addossate sul ripiano; lo fece scorrere per prendere una vecchia edizione dell’Eneide risalente all’epoca del liceo. Non ebbe il tempo di sedersi che il campanello bussò alla porta. Con il libro nella mano andò ad aprire. <<Buonasera>> lo salutò un uomo di media statura togliendosi il cappello. <<Sono in tempo per una visita?>> domandò, lanciando un’occhiata alle sedie vuote nella stanza. <<Certo, si accomodi pure>> rispose Claudio, spostandosi di lato perché lui entrasse.

<<Si direbbe che il gelo di questi giorni abbia potuto più dei medicinali>> sorrise volgendo lo sguardo sulle sedie vuote, precedendo lo sconosciuto nello studio. <<Si accomodi>> disse, indicando con la mano una delle sedie davanti alla scrivania. A sua volta si sedette di fronte all’uomo, poggiando l’Eneide sul bordo del tavolo. <<E’ la prima volta che la vedo, è mio paziente da poco?>>. Prima di rispondere, l’uomo volse interessato lo sguardo sulle stampe seicentesche alle pareti ritraenti diversi luoghi storici dei Campi flegrei. <<Mi tolga una curiosità>> fece tornando a incrociare lo sguardo di Claudio, <<Tutte queste stampe sono un abbellimento casuale oppure frutto di una scelta mediata dalla passione per quei luoghi?>> <<Una scelta mediata>> rispose tormentandosi il mento tra le dita, fissandolo con curiosità. <<Perché me lo chiede?>> domandò poi, raddrizzandosi nella poltrona girevole. <<Perché anch’io li amo, uno in particolare!>> <<Quale?>> <<L’acropoli di Cuma!>> <<Ma guarda>> sorrise Claudio <<Anch’io sono innamorato di quel posto. Tuttavia ci manco da circa vent’anni, non le sembra un paradosso?>> fece divertito. <<Per niente>> rispose seriamente l’uomo. <<L’acropoli di Cuma non è un comune sito archeologico da visitare quando si vuole. E’ l’acropoli, ovvero lo spirito ctono del luogo, a decidere chi dei tanti visitatori dovrà ritornarci e quando… Fino a che lo spirito dell’acropoli non farà udire la propria voce nessuno sentirà il bisogno di ritornarci!>> Ascoltandolo, Claudio fu colto da un leggero tremore. Per un istante temette di trovarsi al cospetto di un pazzo. Fissando la fredda lucidità che traspirava negli occhi dell’uomo, accantonò l’idea considerandolo un appassionato come lui del mito virgiliano. <<Guardi cosa avevo deciso di leggere poco prima che lei arrivasse>> disse, mostrando l’Eneide all’uomo. Questi sorrise. <<Come vede avevo ragione!>> <<In che senso?>> <<Nel senso che la sibilla la sta chiamando!>> Lo studio cadde in un profondo silenzio. Gli uomini sembravano sfidarsi con gli sguardi. Alla fine Claudio sfuggì quello dell’uomo insolitamente intenso e luminoso. <<Lei chi è?>> chiese aprendo un cassetto, cercandovi il nulla. <<Certo non quello che pensa lei!>> <<Ossia?>> <<Né un pazzo, né un paziente! Se domani mattina sarà così gentile da raggiungermi all’acropoli conoscerà la verità!>> concluse accennando un leggero sorriso.<<Ma domani devo andare in ospedale…>> <<Si prenda un giorno di riposo>> lo interruppe, <<perché non accadrà nulla di così grave da richiedere la sua presenza. L’aspetto domattina a Cuma>> disse. Si alzò, aprì la porta dello studio e sparì. […]

Per leggere l’intero racconto cliccare qui

 

INCONTRO CON LA SCRITTRICE MATILDE IACCARINO

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Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Venerdì 1 febbraio alle ore 17,30 a Villa De Gemmis/Villa Avellino – Via Carlo Rosini, 21 – Pozzuoli – si presenterà il libro ARSENALE DI MEMORIE di Ida Di Ianni e Matilde Iaccarino edito da Volturnia Edizioni. Per l’occasione abbiamo posto alcune domande a Matilde Iaccarino, ripromettendoci quanto prima di fare altrettanto con Ida Di Ianni.

Matilde Iaccarino nasce a Pozzuoli (Na), è giornalista, appassionata di letteratura (ha pubblicato alcune raccolte di poesie e racconti) ed è impegnata da molti anni nella ricerca storica. Si occupa principalmente di storia contemporanea, alternando al lavoro d’archivio quello legato alla storia orale e ai giornali d’epoca. È stata borsista presso prestigiosi istituti di ricerca, come l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e l’Istituto Italiano per gli Studi Storici “Benedetto Croce”; attualmente fa parte della redazione del «Bollettino Flegreo» e insegna italiano e latino presso l’Istituto superiore di Bacoli (Na).

Matilde posso definirti scrittrice di genere?

Scrittrice di genere è una bella definizione ma anche complicata in quanto fa riferimento a quell’area femminista, pseudo femminista o femminile. Io mi definirei “scrittrice di genere non puro”. Mi spiego: in quanto donna porto il mio punto di vista di donna in qualsiasi narrazione, ricerca, intervista che faccio. Tuttavia non mi piace parlare esclusivamente di donne o dei soliti topic femminili perché non mi piace l’idea di donne che parlano di donne. Per capirci meglio, rispetto alle vere scrittrici di genere che si occupano esclusivamente di temi inerenti la donna e la sua condizione, io mi guardo intorno e osservo il mondo in toto, non solo quelle delle donne ma anche degli uomini o il sociale in cui sono impegnata e da cui trassi spunto per la mia precedente raccolta di racconti LA TEORIA DELLA BUONA FORMA, per poi dare la mia interpretazione di donna in maniera obliqua e periferica, cogliendo sfumature che invece a un uomo sfuggirebbero in quanto, secondo me, essendo lo sguardo maschile più d’impatto si focalizza su un punto e non lo abbandona più. Ecco perché non mi definirei una scrittrice di genere.

Preferisci essere definita scrittrice, giornalista o professoressa?

La domanda è complicata in quanto attinente al prisma dell’essere donna. Fare l’insegnate è stata una mia scelta ponderata e non un ripiego. Insegno da diciotto anni e non ho mai pensato di aver sbagliato strada: mi appassiona, mi piace, sono una di quelle che quando si sveglia la mattina non ha paura di annoiarsi. Parallelamente quando scrivo, in qualunque momento, percepisco me stessa, la mia autenticità. Il giornalismo è invece l’aspetto che più ho trascurato nel corso degli anni: è stata una grande passione giovanile che come tutti i grandi amori giovanili sono destinati a finire ma ti lasciano un segno che traccerà il prosieguo della tua vita. Io oggi sono un’insegnante e una scrittrice: né l’una cosa prevale sull’altra né l’una smentisce l’altra.

Se non sbaglio sei anche moglie e madre… Come riesci a integrare tra di loro questi ruoli rispetto alla scrittura non rubando spazi alla famiglia?

Ti ringrazio molto per questa domanda che per una donna è fondamentale visto la pluralità di ruoli che è costretta a coprire. Io dedico alla scrittura tutti i momenti morti della mia vita: porto sempre con me un quadernetto nel quale appunto qualsiasi idea mi venga in mente nel corso della giornata per non perderla e nei momenti “morti” scrivo: sia se sono in piscina in attesa che esca mio figlio; sia la sera dopo che si è addormentata la bambina o ho finito di correggere i compiti; o se sono in attesa alla posta. È in quei momenti che la mia creatività si manifesta e do vita alle mie storie. Lasciami inoltre ringraziare mio marito che in questa attività mi ha sempre sostenuta rispettando le mie esigenze da scrittrice, lasciandomi gli spazi necessari perché possa non solo scrivere ma rivedere come si conviene i miei elaborati.

Che letture prediligi?

Da ragazza ho amato molto i grandi classici. Poi c’è stata una fase in cui mi sono aperta all’ultra moderno, andando a caccia di scrittori misconosciuti leggendo la quarta di copertina. Inoltre sono un’appassionata di Simenon, non solo dei Maigret in quanto mi piacciono i gialli, ma soprattutto dei romanzi psicologici in cui a mio parere lo scrittore belga è un maestro.

C’è uno scrittore che ha influito sul tuo stile di scrittura?

Agli inizi molti sostenevano che avessi una scrittura minimalista, accostandomi a Carver. La cosa simpatica è che io Carver non l’avevo mai letto, l’ho letto poi. Mi è sempre piaciuto scrivere storie brevi, essenziali, non a caso finora non ho scritto un romanzo, ma non ho mai avuto un punto di riferimento. Lo stile me lo sono formata da me; oserei dire che è una cosa naturale dovuta alla mia indole artistica.

Venerdì 1 febbraio a Pozzuoli si presenterà Arsenale di Memorie scritto a quattro mani con Ida Di Ianni. Non voglio entrare nel merito perché, mancando l’altra autrice, non mi sembra corretto parlarne, lo faremo in altra sede insieme a Ida. Ti chiedo solo, che libro dobbiamo aspettarci?

Un libro, totalmente diverso da quelli che ho scritto finora. Prima di tutto perché abbandono la tematica sociale e poi perché è un libro molto intimo, molto femminile, molto personale. È il libro che avrei voluto scrivere per mia madre, fondato sulla memoria come farmaco: il ricordo non fa male ma serve a guarire i vuoti e a lenire quelle ferite che ci procuriamo nel corso della vita. È diviso in due sezioni: la prima si chiama LA BAMBINA AMERICANA curata da Ida; la seconda DI MADRE IN FIGLIA è un dialogo tra me e mia madre scritto dopo la sua scomparsa che spazia dalla fine degli anni settanta fino ai giorni nostri in cui ripercorro le parte fondamentali del nostro rapporto che fu molto difficile e conflittuale. Solo dopo che si decise di pubblicarlo, rivedendolo, mi sono accorta che fu semplicemente quello che è il rapporto di ogni madre e figlia.

Progetti per il futuro?

Sto lavorando alla sceneggiatura di PENSIERI DI CARTA un racconto tratto dalla TEORIA DELLA BUONA FORMA e a un libro sul periodo del bradisismo a Pozzuoli nel 1983.

Fatti una domanda, datti la risposta

Che donna avresti voluto essere?… Quella che sono!

 

VINCENZO DI BONITO PRESENTA IL SUO SAGGIO SULLE RELIGIONI

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it 

Chi conosce Vincenzo Di Bonito – ex dirigente del Comune di Pozzuoli, laureato in Lettere e Istituzioni dell’Europa occidentale all’Orientale di Napoli – sapendolo persona schiva e di poche parole, sarà rimasto piacevolmente sorpreso dalla vivacità con cui sabato 19 gennaio da Lux In Fabula, nell’ambito della rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, ha parlato del suo saggio sulle religioni “PROFEZIE MIRACOLI INCANTESIMI”.

Partendo in sordina come si addice a un buon maratoneta – Vincenzo è un runner e insieme a un gruppo di amici storici ha corso e corre maratone per il mondo – man mano che la discussione incalzava, stimolato dalle domande del pubblico, ha spiegato che il volume è una sorta di bignami sulla storia delle religioni e lo spunto per scriverlo lo ha tratto nel corso dei tanti viaggi, altra sua grande passione, che insieme a un altro gruppo di amici storici, tra cui il fotografo Aldo Adinolfi in calendario nella rassegna il 30 marzo con una proiezione di diapositive, lo hanno portato dalle Orcadi all’Alaska, dal Tibet alla Nuova Zelanda, evitando le rotte del turismo di massa in quanto di un paese ama conoscerne gli aspetti veri anziché quelli stereotipati da cartolina offerti dai tour operator.

A riguardo l’autore ha raccontato che spesso in queste sue peregrinazioni planetarie si è dovuto confrontare con situazioni estreme, che però lo hanno messo nelle condizioni di conoscere di ogni popolo aspetti culturali ignoti, specialmente per quanto concerne le credenze religiose spingendolo ad approfondire l’argomento di cui il libro è il compendio.

Il volume è articolato in quattro parti dove in ognuna si affronta un singolo aspetto. Nella terza si parla delle religioni rivelate cui appartengono il giudaismo, il cristianesimo e l’islam. Soffermandosi su quest’ultima Vincenzo ne ha smentito il presunto messaggio di violenza che traspare dalla stortura ideologica omicida fattane dall’estremismo islamico, facendo presente che gli estremismi appartengono a tutte le religioni, cristianesimo incluso il quale in passato, pur di affermarsi e estendersi sul pianeta, in nome di dio ha commesso i peggiori crimini; che quasi sempre è la voglia di potere di un ristretto gruppo di persone a interpretare e tramandare in maniera distorta e opportunistica l’originario messaggio tracciato dal fondatore al fine di sottomettere a sé la massa ignorante per poi farne pecore da pascolo o da macello a seconda dei propri intenti.

Non a caso gli insegnamenti di Buddha che li tramandava in maniera rigorosamente orale comparvero per la prima volta scritti a quattrocento anni dalla sua morte mentre quelli di Gesù a non meno di ottanta anni dalla sua scomparsa dal mondo: è facile travisare il senso di un messaggio quando la fonte originaria, l’unica che potrebbe smentirci, non c’è più, affermando tutto e il contrario di tutto rispetto a quanto si voleva davvero intendere, soprattutto se si è investiti di un’autorità…

Un aspetto del libro che merita d’essere segnalato è la semplicità e la fluidità del linguaggio con cui è redatto che lo rendono alla portata di tutti. Soprattutto di chi avrebbe intenzione di approcciarsi alla storia delle religioni ma, non avendo un’infarinatura accademica, se sfogliasse un saggio classico sull’argomento rischierebbe di non capirlo a causa del discorso articolato e complesso nonché per la mancanza di adeguate conoscenze storiche e politiche che non gli permetterebbero di comprendere l’affermarsi e lo svilupparsi di un credo in una specifica comunità.

A Vincenzo Di Bonito va riconosciuto il merito di aver affrontato il tema coniugando conoscenza e semplicità in maniera calibrata, offrendoci un gustoso abbecedario della storia delle religioni di cui dovrebbe munirsi chiunque fosse intenzionato a conoscerne la loro origine; un punto di partenza fondamentale per spaziare in un campo dove spirito e materia in alcuni casi sembrano essere in conflitto in altri in simbiosi a seconda se stiamo in occidente o in oriente.