ANTONIO MANNO E LE SUE “STORIE” ALL’ART-GARAGE DI POZZUOLI

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Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Pozzuoli: Sabato 13 aprile, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “STORIE”, di Antonio Manno.

L’esposizione durerà fino al 3 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Antonio quando hai scoperto la passione per la fotografia?

All’età di sedici/diciassette anni ho iniziato i primi timidi approcci. Poi a ventidue anni ho avuto l’opportunità di andare a lavorare a La spezia e in quei luoghi di una tale bellezza, come Le Cinque Terre e i tanti borghi marinari, per me sconosciuti, ho iniziato a fotografare per mostrarli ai parenti e agli amici quando tornavo a Napoli. Ovviamente non mi limitavo a fotografare i luoghi ma tra i miei soggetti rientravano anche le persone.

La tua mostra qui all’Art Garage si intitola STORIE, esattamente che tipo di storie?

Le storie della gente! Credo che dietro a ogni ritratto o scena che ritrae l’ambiente di lavoro o di vita di una persona ci sono tante storie. Principalmente la sua storia e quella di chi vive con lei, familiari o amici. Cercare di raccontarle attraverso uno sguardo, uno scatto. Ma anche attraverso il conoscersi prima di scattare la fotografia in quanto credo che prima dell’istantanea debba nascere un rapporto di fiducia tra il soggetto e chi lo ritrae.

Che tipo di approccio utilizzi per fotografare gli sconosciuti?

I miei scatti non sono i cosiddetti “scatti rubati”, non mi piace fotografare di nascosto una persona! Anche perché “rubare” una foto significa che il soggetto non sta guardando in camera e, come dice Ferdinando Scianna, “il ritratto è quando uno ti guarda”. Personalmente chiedo sempre alle persone se posso fotografarle e difficilmente mi rispondono di no. Forse perché ho un bel modo di avvicinarle…

Tu vivi di fotografia o di tutt’altro?

Sono impiegato civile presso il Ministero della Difesa, faccio il tipografo dall’età di dodici anni. Praticamente non ho mai smesso.

Auspichi di poter vivere un giorno di fotografia o preferisci rimanga un hobby?

Premesso che è difficile vivere di fotografia, a meno che non ti dedichi alle foto di cerimonia, mi piacerebbe che la mia fotografia fosse riconosciuta nel tempo. Non mi interessa arricchirmi con la fotografia, per quanto i soldi siano molto importanti, ma vorrei lasciare un’impronta di me come fotografo, anche se ciò accadesse negli anni a venire.

Preferisci fotografare solo in bianco e nero o alterni anche con il colore?

Fotografo anche a colori, ma credo che la vera fotografia sia in bianco e nero. Il colore, come molti sostengono, e io mi associo, distrae tanto: l’occhio di chi guarda si perde nelle sfumature cromatiche. Nel bianco e nero invece è il soggetto che catalizza lo sguardo del pubblico. Ovviamente ci sono poi foto che ad alcuni possono dire molto e ad altri nulla, sia fossero a colori o in bianco e nero, ma è un fatto squisitamente soggettivo che però non va trascurato.

Sei solito trattare le foto con Photoshop o preferisci lasciarle così come sono?

Se la foto mi convince così com’è, non la ritocco. Diversamente utilizzo Photoshop. Va però detto che essendo Photoshop un programma infinito, io ne conosco l’utilizzo solo per il 4-5%. Ossia per quello che mi serve a trattare una fotografia come quando si stampava in camera oscura.

Riguardo i soggetti da fotografare, hai preferenze o spazi senza confini?

Guardando le foto esposte ti accorgi che i soggetti ritratti sono per lo più persone anziane, ossia individui che secondo me hanno molto da raccontare avendo vissuto tanto. E poi, rispetto a un adolescente o a un trentenne per i quali l’apparenza ha un valore primario, una persona anziana non ha nulla da mascherare e dunque si mostra così com’è, senza “veli” fisici e morali.

Nelle tue foto risaltano molto le rughe sui volti dei soggetti, che cosa rappresentano per te le rughe?

Un fatto, una storia. Credo che le rughe siano la scrittura dell’esistenza umana. Verso di loro nutro una sorta di riverenza, ma non mi sognerei mai di ritoccarle per marcarle. Se lo facessi è come se alterassi un bel romanzo.

Da quando il digitale ha spodestato l’analogico, continui a stampare come facevi un tempo o hai abbandonato?

No, non stampo più, i costi di una stampa digitale sono abissali! Seppure pare che lentamente stia ritornando la moda del rullino in bianco e nero e di stampare in camera oscura. Magari nel tempo tornerò a farlo anch’io. Per ora, no. Ma ammetto che il fascino di veder “nascere” una foto in camera oscura non te lo toglie nessuno, è come veder nascere un figlio!

Hai già scattato la “foto della vita”?

Ci sono dieci fotografie che amo più di tutte, che sento più mie. Ma preferisco non averla ancora scattata, questo è per me una grande motivazione per fare sempre meglio.

C’è un momento che avresti voluto immortalare con uno scatto e che invece hai omesso di farlo?

Tantissimi! Uno in particolare: nel 2007 sono stato ad Auscwitz. Uscendo da un blok ad Auswitz 1 vidi in un angolo di marciapiede quattro ragazzi seduti che piangevano. Fui tentato di scattargli una foto, mi trattenni per rispetto del dolore che stavano vivendo in quel momento. Magari, se l’avessi scattata, quella sarebbe potuta essere la foto della vita…

Qual è il sogno di Antonio Manno fotografo?

Una pubblicazione con le mie foto.

Questa è la prima mostra che fai?

La prima dopo più di dieci anni.

Perché la decisione di ricomparire in pubblico dopo tanto tempo? Cosa ti ha spinto a farlo?

Pubblico molto sui social; la mia pagina Facebook è accessibile a chiunque in quanto credo che la fotografia, ma penso che il discorso possa estendersi a qualsiasi forma d’arte, vada condivisa. Per cui le mie foto, seppure virtualmente, sono sempre visibili da tutti. Ma stamparle, toccarle, vederle esposte un metro da me, per giunta in questo formato, mi fa sentire bene. È una bella scarica di adrenalina!

Progetti per il futuro?

Mi godo il momento!

 

Vincenzo Giarritiello

ANTONIO IOVINO SI RACCONTA: “IL GRUCCIONE”, UNA STORIA LUNGA OLTRE 100 ANNI

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A seguire l’intervista integrale all’imprenditore Antonio Iovino, titolare dell’agriturismo IL GRUCCIONE, pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Per quanti amano gli agriturismi segnaliamo IL GRUCCIONE, sito a Pozzuoli in Via San Gennaro 63; tel. 0815206719. Posizionato sulla sommità della collina delimitante la strada che da Napoli si inerpica all’Accademia Aereonautica di Pozzuoli per poi declinare a capofitto verso il capoluogo flegreo, Il Gruccione si affaccia, all’esterno, sul mare, offrendo un panorama da sogno e, all’interno, sul cratere di Agnano.

Oltre a gustare i piatti tipici della tradizione flegrea e Puteolana cucinati con prodotti autoctoni, i clienti hanno l’opportunità di assaggiare l’ottimo vino delle Cantine Antonio Iovino, acquistabile presso il punto vendita aziendale unitamente a tutta una serie di prodotti agricoli di rigorosa produzione locale. Per conoscere il segreto del successo di questa realtà economica flegrea, abbiamo intervistato il proprietario Antonio Iovino.

 

Come nasce IL GRUCCIONE?

Nasce dopo un lungo percorso di lavoro familiare protrattosi per oltre un secolo. La mia famiglia produce vino dal 1892. Prima mio nonno e poi mio padre producevano il cosiddetto “vino del contadino”: producevamo uve di Piedirosso e Falanghina che successivamente imbottigliavamo completando la filiera vinicola. Nel 2003 il sottoscritto ha imbottigliato la prima bottiglia di vino DOC Antonio Iovino. Ho il marchio DOC dei Campi flegrei e rientro nel disciplinare del DOC dei Campi Flegrei, per cui il marchio è registrato. Abbiamo iniziato prima con l’attività vitivinicola, poi si è affiancata quella agricola con la semina di prodotti di stagione. Da qui è nata l’idea di affrontare la sfida legata all’agriturismo, cucinando i nostri prodotti e abbinandoli alle pietanze del nostro menù.

Le vostre ricette sono tipiche dei Campi Flegrei o “toccate” anche altre realtà culinarie?

Per quanto ci riguarda siamo legatissimi al territorio flegreo, quindi ci preoccupiamo di attenerci scrupolosamente alla tradizione flegrea. Nello stesso tempo abbiamo dato vita a una cucina rivisitata, che di base si attiene a quella del territorio, adattandola a modo nostro. Ad esempio, quando è il periodo dei mandarini, ci siamo inventati uno spaghetto con mandarini e alici del golfo di Pozzuoli che è una bontà, glielo assicuro!

Pozzuoli e i campi flegrei richiamano al mare: la vostra cucina tratta solo piatti di terra o anche di mare?

Come lei vede le nostre terrazze si affacciano non solo sul golfo di Pozzuoli ma anche su quello di Napoli. Per cui in ambito culinario siamo fortunati perché possiamo offrire pure piatti di pesce, ma esclusivamente pesce azzurro. Ossia pesce povero e del golfo di Pozzuoli: alici, parametro, cozze flegree abbinandoli ai nostri prodotti agricoli.

Il pesce lo proponete in qualunque stagione o solo in determinati periodi dell’anno?

Solo in periodi particolari e con il pescato consentito del Golfo di Pozzuoli!

Quindi se uno volesse venire da voi per gustare un piatto di pesce deve venire in estate…

Sì perché quello è il periodo delle cozze, delle alici puteolane e del parametro.

Tra i tanti prodotti tipici del territorio flegreo, negli ultimi tempi si sta riscoprendo la cicerchia, voi la trattate?

La cicerchia è un legume tipicamente bacolese. Noi siamo legati alla tradizione puteolana, trattiamo altri tipi di legumi, ad esempio il fagiolo piccolo dei campi flegrei.

Suo figlio Giuseppe è chef: la decisione di estendervi dalla produzione vinicola alla ristorazione è una conseguenza della scelta professionale di suo figlio, oppure Giuseppe ha preso spunto dall’evoluzione dell’azienda di famiglia?

Essendo giovane mio figlio ha tratto spunto e vantaggio dall’iniziativa imprenditoriale che abbiamo intrapreso a livello familiare. Da anni faccio parte di un’associazione nazionale della Coldiretti. Provenendo da una famiglia contadina, anche mio figlio ha nell’animo la passione per la terra ed è stato eletto nella Coldiretti come un agri-chef. Inoltre è vicepresidente regionale degli agriturismi campani.

Sul lago d’Averno avete rilevato uno storico vigneto che apparteneva a un glorioso marchio di vini flegrei che purtroppo non esiste più, cosa producete?

Prima di rispondere, faccio una premessa: i nostri vigneti sono tutti storici e rientrano in un disciplinare speciale della regione Campania. Siamo tre le prime dodici aziende storiche della Campania! Il vigneto del lago d’Averno cui lei si riferisce è un vigneto antico su cui sono piantate viti di 80/100 anni fa. Purtroppo una storica cantina che ha fatto da apripista nel settore dei vini flegrei ha chiuso e io ho voluto rilevare quei vigneti perché non morissero e continuassero a dare l’ottimo vino che tutti conoscono.

Voi producete solo Piedirosso e Falanghina o anche altri tipi di vini?

Esclusivamente Piedirosso e Falanghina DOP dei Campi Flegrei. Se lei prende una bottiglia del nostro vino “Cantine Iovino Antonio”, sull’etichetta leggerà, “prodotto all’origine”. Significa dalla vite alla bottiglia finita. Noi non compriamo uva, né commercializziamo vino e quant’altro. I prodotti che offriamo ai nostri clienti sono tipici del territorio e di nostra esclusiva produzione! I nostri vini hanno partecipato a importanti fiere, distinguendosi sempre per l’alta qualità: siamo stati al Vinitaly, al ProWine di Dusseseldorf, a Radici del sud a Bari. Lo scorso anno, tramite l’ambasciata italiana presso il Parlamento Europeo a Bruxelles, in occasione della festa della Repubblica Italiana, gli europarlamentari italiani, incluso il Presidente Tajani, hanno brindato con il nostro Piedirosso annata 2016! Oltre a questa bella soddisfazione che attesta la qualità dei nostri vini, un ulteriore attestato di qualità lo abbiamo avuto da Gambero Rosso e da Guido Veronelli. Senza contare i tanti articoli su riveste specializzate che testimoniano la bontà e la tipicità dei nostri vini.

Voi qui nell’agriturismo avete anche un punto vendita, qual è il prodotto che va per la maggiore?

Ovviamente il vino e poi tutti i prodotti ortofrutticoli stagionali. Lei quando viene a fare la spesa da noi non troverà mai delle primizie, come spesso accade altrove. Noi seminiamo, raccogliamo e vendiamo in base ai tempi di semina e di maturazione richiesti per natura dai singoli ortaggi. Ad Aprile abbiamo seminato il pomodoro puteolano e quello vesuviano con il pizzo. A marzo abbiamo seminato le zucchine che inizieranno a sbocciare verso giugno.

Quali sono i progetti per il futuro?

Migliorarci sempre come azienda vinicola in quanto anche il vino, come tutte le cose della vita, è in continua evoluzione. Rispetto ad altri marchi standardizzati nella loro produzione, annata per annata i nostri vini cambiano in quanto, essendo come azienda legati moltissimo al territorio e al clima, la nostra produzione vinicola è soggetta a questi fattori. Penso che il rispetto con cui ci rapportiamo alla natura, non forzandola nella maturazione, ma rispettandone i tempi di semina e germogliazione, garantisce la bontà dei nostri prodotti. Noi non sottomettiamo la natura alle nostre esigenze commerciali forzandola, bensì ci affidiamo completamente a lei. I nostri prodotti riflettono gli umori della terra. Devo dire che fino a oggi siamo stati ben ripagati!

Qual è il sogno di Antonio Iovino?

Che questo territorio, uno dei più belli al mondo, si sviluppasse turisticamente anziché limitarsi a essere transito obbligato per chi va alle isole, facendo conoscere finalmente nel mondo la bellezza dei campi flegrei!

Vincenzo Giarritiello

FEDERICO RIGHI E LE SUE FOTO SUI VIAGGIATORI DELLA CUMANA ESPOSTE A POZZUOLI

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Pozzuoli: Sabato 30 marzo, per la rassegna ARTinGARAGE curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “I FLEGREI: a state of mind”, di Federico Righi. L’esposizione si protrarrà fino al 12 aprile e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Federico la tua mostra si intitola, “I FLEGREI: A STATE O THE MIND”, ossia “i flegrei: uno stato mentale”, cosa vuoi esattamente intendere con ciò?

Viaggio moltissimo nei treni della cumana che, soprattutto quelli vecchi, evocano dei pensieri che riportano all’epoca del grand tour. Riallacciandomi al discorso del grand tour ho immaginato i flegrei non come un popolo, ma come una condizione mentale che fosse la stessa di chiunque a quell’epoca venisse nei campi flegrei e restava affascinato respirandone l’aria, ammirandone i colori e i sapori, emozionalmente rapito dai sussulti della terra, come accadde a Goethe durante il suo viaggio in questi luoghi.

Quindi una condizione mentale inconscia…

Sì, ma che si riflette nei volti, negli sguardi delle persone. Secondo me il flegreo è una sorta di dio sceso in terra che, qualunque cosa gli accada, ha la forza di reagire, di combattere, di ricominciare.

I tuoi scatti sono rubati, o coordinati con i soggetti ritratti?

I miei scatti seguono la scia della street photography che, secondo me, è la vera fotografia, ossia immortalare l’istante. Non a caso Cartier Bresson diceva, “la fotografia è il momento decisivo”. Occhio, cuore e mente si devono trovare sulla stessa linea dell’obiettivo e devono scattare quel momento anziché un altro. Io credo di aver abituato il mio occhio a guardare i movimenti degli sguardi delle persone e aver raggiunto una condizione tale da percepire quando è l’istante in cui posso scattare per coglierne l’essenza da imprimere per sempre sulla foto.

Ti è mai capitato che qualcuno si sentisse infastidito dall’essere fotografato?

Una sola volta e, ascoltate le ragioni, ho accettato di cancellare la foto dalla memoria.

La tua passione nasce da ragazzino o è maturata nel tempo?

Il primo scatto l’ho fatto con la macchina di papà a cinque anni. A undici già sviluppavo le mie fotografie. Quindi ho abbandonato per poi riprendere da grande seguendo il mio maestro Augusto De Luca, fino a tagliarmi un mio spazio al punto da essere riconosciuto dalla comunità fotografica.

Vivi di fotografia?

No, sono un funzionario dello stato. La fotografia è un hobby, se così si può dire, che mi ha dato e mi sta dando tante soddisfazioni.

Questa è la tua prima mostra?

Come personale, sì. In passato ho partecipato a diverse collettive. Faccio anche installazioni, come ad esempio quella di Aversa contro la violenza sulle donne che ebbe un buon seguito.

Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Un elemento che porta il ricordo. La fotografia cristallizza l’istante rendendolo eterno! E poi è uno strumento per la documentazione per cui ha tante sfaccettare che spaziano dal reportage, alla narrativa, alla storia.

Prossimi progetti?

Le foto qui esposte mi sono valse il PREMIO AUTORE REGIONE CAMPANIA e hanno determinato che il prossimo congresso FIAF, federazione italiana associazioni fotografiche, si svolgesse al MAN di Napoli. E poi ho in preparazione diversi cose che vedranno la luce nei prossimi anni.

In bocca al lupo

Crepi!

Vincenzo Giarritiello

AMEDEO CARAMANICA PRESENTA IL SUO NUOVO LIBRO “I DINAMICI SFIGATI DI BAGNOLI”

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A margine l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere 


Pozzuoli, Venerdì 29 marzo presso la LIBRERIA MEDEA di Marco Bellavista, si è presentato il romanzo I DINAMICI SFIGATI DI BAGNOLI di Amedeo Caramanica, edito da PAOLO LOFFREDO. Professore d’italiano in pensione, Caramanica è un arzillo ottantatreenne allegro e disponibile, dallo sguardo furbo, con cui è un piacere conversare.

Prima dell’inizio della serata gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività di scrittore.

Professor Caramanica come nasce I DINAMICI SFIGATI DI BAGNOLI che si presenta questa sera?

Scrivo da più di quarant’anni. Fino a quando la casa editrice Loffredo non ha chiuso, ho scritto libri per la scuola. Contemporaneamente scrivevo testi teatrali, per lo più commedie. Poi ho iniziato a scrivere spy story in cui non tralasciavo di inserire una venatura di poliziesco, mia vera grande passione. Un giorno, mentre ero in metropolitana, nel treno salì un gruppo di poliziotti in borghese che iniziarono a prendersi in giro: quelli che dedussi erano di Napoli etichettavano simpaticamente come sfigati i colleghi di Bagnoli. Così nacque l’idea di quest’ossimoro “i dinamici sfigati”.

Professore ci parli un attimo dei testi teatrali che ha scritto.

Ne ho scritti più di una trentina e sono stati letti da Nino Taranto, dai fratelli Giuffrè i quali mi hanno scritto, spingendomi a continuare in questa mia passione. Addirittura, prima che morisse, mi scrisse perfino Eduardo De Filippo. Seppure non sia riuscito a sfondare in questo settore, i miei testi sono stati rappresentati da tante compagnie amatoriali. Io stesso ne dirigo una.

Da ragazzo quali erano i suoi scrittori preferiti?

La mia formazione è di natura classica. Da ragazzo ho letto Verga, Manzoni, Pirandello, i classistici latini e greci da cui ho poi tratto l’indirizzo per la mia scrittura che si fonda sulla frase “miscere utile dulci”, mescolare l’utile al dolce, cui alla fine deve seguire la catarsi, ossia il lettore deve capire che tra il bene e il male chi vince è sempre il bene.

Per il suo romanzo si è rifatto ai Bastardi di Pizzofalcone di Maurizio De Giovanni?

Pur avendo letto tantissimi autori di polizieschi, Andrea Camilleri e Maurizio De Giovanni sono quelli che mi hanno attratto per il loro modo di impostare le storie in maniera diretta, senza fronzoli, tanto da prestarsi a una successiva trasposizione televisiva che non snaturasse l’essenza della trama e dei personaggi. Ovviamente tra i film e i romanzi preferisco questi ultimi perché la lettura è un coinvolgimento diretto mentre la visione di un film, per quanto possa coinvolgerti emotivamente, alla fine è comunque distaccata. La visione di un film ipnotizza lo spettatore, rendendolo schiavo di ciò che vede e ascolta. Invece la lettura obbliga la mente a ragionare tenendola viva!

Prima dei dinamici sfigati, quali altri libri ha scritto?

Ho scritto una decina di testi scolastici. In particolare mi sono dedicato alla storia e ho pubblicato quattro corsi di storia. Ricordo con piacere che quando scrissi I PASSI DELL’UOMO, spronato dai colleghi affinché scrivessi un libro in un linguaggio comprensibile ai ragazzi delle scuole medie visto che fino e allora i libri di testo erano scritti da pressori universitari o delle superiori, il libro fu il terzo in assoluto come vendite in tutta Italia, su trentacinque testi, distinguendosi proprio per il linguaggio semplice comprensibile agli alunni delle medie.

Quando decide di scrivere un poliziesco, la storia, la trama e, soprattutto, il finale ce li ha già in mente o si manifestano man mano che scrive?

Vado passo passo perché il lettore, mentre legge, deve provare le stesse emozioni da me provate mentre scrivevo. Ovviamente una struttura di base in mente già ce l’ho, ma solo quando inizierò a scrivere saprò come si svilupperà l’intreccio. Diciamo che mi affido al momento…

Dobbiamo aspettarci un seguito dei dinamici sfigati?

Probabilmente sì…

Vincenzo Giarritiello

ANN PIZZORUSSO, UNA GEOLOGA SULLE TRACCE DI LEONARDO DA VINCI

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Pubblichiamo l’intervista integrale apparsa su comunicaresenzafrontiere

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A seguito della presentazione del suo saggio TWITTANDO DA VINCI avvenuta sabato 23 marzo da Lux In Fabula, a Pozzuoli, abbiamo intervistato l’autrice, la geologa americana Ann Pizzorusso la quale ci ha accolto nella sua bella casa al Petraio con vista sul golfo di Napoli.

Dopo un caffè e una chiacchierata informale in cui ci siamo piacevolmente confrontati sui rispettivi interessi culturali, scoprendo di averne molti in comune, siamo entrati nel vivo dell’intervista.

“Twittando Da Vinci” può essere definito una sorta di Codice Da Vinci in chiave saggistica, dove si suppone che in alcuni suoi dipinti, nel caso specifico LA VERGINE DELLE ROCCE, Leonardo abbia voluto lanciare un messaggio occulto legato alle influenze che determinati minerali e luoghi specifici avrebbero sugli individui, comprensibile solo a chi possiede la chiave di decrittazione. Quando le è venuta questa intuizione?

È difficile rispondere. Essendo geologa, i miei studi vertevano esclusivamente su quest’argomento. Di storia dell’arte non sapevo assolutamente niente, così come non conoscevo l’italiano. Tuttavia la mia formazione professionale e la mia curiosità mi hanno spinta a studiare tutti i disegni di Leonardo in cui compaiono particolari geologici, sentendo poi la necessità di scrivere sulle rocce che lui ritraeva nei suoi dipinti. Scrissi per circa tre ore senza nemmeno rendermi esattamente conto di cosa stessi annotando. Alla fine mi avvidi di aver messo su carta le mie convinzioni che Leonardo fosse anche un geologo poiché le rocce che disegnava erano caratterizzate da una tale minuzia di particolari che solo un geologo poteva registrare. La cosa straordinaria fu che un giorno, cadendo dalla libreria, un libro si aprì nella pagina dove era ritratta LA VERGINE DELLE ROCcE esposta a Londra. Osservando il quadro pensai che l’autore non potesse essere Leonardo giacché le rocce ritratte non erano reali, diversamente da quelle che fino allora avevo visto in altri suoi quadri. Misi a confronto il quadro esposto a Londra con quello che è a Parigi e scoprì che quest’ultimo è un capolavoro di minuzie geologiche. Mostrai le foto dei due quadri ad alcuni amici geologi i quali convennero con me che c’era un’enorme differenza tra di loro. A quel punto mi misi in contatto con un critico d’arte a Londra e gli esposi la mia teoria. Dopo aver osservato i due quadri in base alle mie indicazioni scientifiche, anche lui convenne che quello di Londra poteva non essere opera di Leonardo. Quindi mi rivolsi a James Beck che all’epoca era uno dei massimi esperti di storia dell’arte il quale mi disse, “sono vent’anni che vado dicendo che il quadro esposto a Londra non è di Leonardo!”. Lui lo diceva in rapporto a tutta una serie di particolari stilistici che differenziano i due dipinti, io lo sostenevo per il modo diverso in cui erano ritratti i particolari geologici. Unendo i due pareri, si amplificava tale convinzione!

Quando ha scoperto che nel quadro esposto a Parigi Leonardo aveva riprodotto in maniera esatta particolari geologici, s’è chiesta perché lo avesse fatto?

Credo fosse per un motivo di propaganda religiosa. Lui stava dipingendo la Vergine delle Rocce per i Francescani i quali erano in conflitto con i domenicani. Leonardo ha scelto di ritrarre la Vergine nella grotta perché simbolicamente questo luogo è un simbolo di fertilità femminile. Lui voleva dipingere il quadro ma senza entrare a far parte del conflitto tra i due ordini. Leonardo sapeva perfettamente che da millenni la grotta era associata al grembo femminile e a tutto ciò che ne deriva. La vergine delle rocce racchiudeva il trionfo del simbolismo, della generosità e della scienza naturale. Lui ha messo tutto insieme!

Lei ha trovato difficoltà che la sua tesi fosse accettata in campo accademico?

No! Diversamente dalla storia dell’arte che poggia sulle opinioni, la mia è una ricerca su basi scientifiche, dunque incontrovertibili. Io mi sono limitata a fare notare un aspetto derivante dalle mie conoscenze di geologa, tutto il resto lo lascio agli studiosi di storia dell’arte. Osservando i due dipinti, quello di Londra e quello di Parigi, ci si accorge che sono completamente diversi l’uno dall’altro. Durante un congresso di geologi a Frasassi cui parteciparono i più grandi geologi del mondo, diversamente dai loro interventi molto schematici e ortodossi, quando toccò a me parlare, li invitati a guardare le grotte con occhi diversi, inserendo nella mia relazione non solo la storia dell’arte ma perfino la metafisica. Loro mi ascoltarono esterrefatti perché gli mostrai un approccio diverso alla scienza che fino a quel momento non avevano affatto considerato. Parlai loro di Dante e della Divina Commedia, dei luoghi dove anticamente si riteneva vi fosse l’accesso agli inferi; del culto dell’acqua e dello stillicidio che era un rituale con cui gli antichi raccoglievano in enormi vasi le gocce d’acqua che cadevano dalle stalattiti perché quell’acqua aveva davvero poteri taumaturgici, come hanno poi dimostrato analisi di laboratorio, in quanto ricca di minerali e di particolari batteri. Nello stesso tempo le donne andavano in questo luogo per passarsi l’acqua sul seno ritenendo che in quel modo aumentavano la formazione di latte materno, questo perché il colore dell’acqua dello stillicidio è bianco come quello del latte. Queste caverne erano chiamate non a caso lattaio. Tutte cose che fino a quel momento i miei colleghi geologi non avevano considerato, ma che sono nate con l’uomo a dimostrazione che gli antichi avevano un bagaglio di conoscenze, seppure istintive, che noi abbiamo completamente perso, che non possono essere trascurate dalla scienza.

Possiamo dire che lei è riuscita a colorare di poesia un argomento algido, privo di emozioni?

Potremmo, certo. Ma ci tengo a precisare che il mio non è assolutamente un lavoro di fantasia, anche se credo che la scienza debba rapportarsi, per quanto sia possibile, allo stato di coscienza degli antichi per comprendere il perché si comportassero come se la terra fosse una creatura vivente, una divinità, una Madre! La metafisica mi piace, ma non mi sono mai azzardata a superare il confine che separa la realtà dalla fantasia proprio perché non voglio correre il rischio di alterare la verità con supposizioni errate. La scienza è matematica!

So che sta scrivendo un libro sugli etruschi: perché quest’amore per un popolo tanto misterioso di cui, ancora oggi, si sa poco o niente?

Quando ho iniziato a studiare per scrivere il mio libro mi sono resa conto che gli etruschi erano molto legati alla natura e alla terra. Qualunque cosa dovessero fare, prima di incominciarla, interpretavano i segni della natura come lampi e tuoni. Prima di edificare un tempio o una città, i sacerdoti benedicevano la terra e tracciavano segni sul terreno per delimitare esattamente dove costruire. Gli etruschi prestavano molta attenzione al volo degli uccelli giacché erano conviti che fossero molto sensibili ai campi magnetici in quanto, come poi la scienza ha dimostrato, hanno al centro della testa un cristallo di magnetite che gli consente di allontanarsi da un luogo per poi ritornarvi con precisione. Quando lessi che la terra ha campi magnetici positivi e negativi in grado di influenzare nel bene o nel male la salute e il comportamento degli uomini, chiesi a un amico di ingrandirmi una mappa geomagnetica dell’Italia, evidenziando i luoghi in cui gli etruschi avevano edificato le loro città. Quando fu fatto, osservando la mappa, rimasi scioccata: tutte le città etrusche furono edificate in zone dove le energie magnetiche erano negative e che, stando a un recente studio scientifico, sono in grado di influire positivamente sugli uomini!

Ascoltandola mi verrebbe da dire, “i veri primitivi non erano loro, i nostri progenitori, ma siamo noi”…

Probabile. Vede, l’era ipertecnologizzata in cui viviamo, paradossalmente, ha fatto sì che molte facoltà mentali dell’uomo si atrofizzassero, rendendolo istintivamente inferiore rispetto all’uomo antico il quale la natura non la sfruttava o la violentava, ma la rispettava sentendosi parte integrante con essa!

Quando sarà pronto il libro sugli etruschi?

Per il prossimo anno.

Allora ci diamo appuntamento al 2020…

Ok, l’aspetto!

GAETANO BONELLI E LA SUA COLLEZIONE SU NAPOLI IGNORATA DAI PIÙ

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Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

 

Molto probabilmente in pochi avranno sentito parlare della “Collezione Gaetano Bonelli – “Pro” Museo di Napoli”, esposta a Napoli nella CASA DELLO SCUGNIZZO in Piazzetta San Gennaro a Materdei, 3. In oltre trent’anni il fondatore e curatore Gaetano Bonelli, girando per i mercatini di antiquariato e per i rigattieri, ha raccolto documenti e oggetti riguardanti la storia di Napoli pre e post unitaria, collezionando oltre diecimila pezzi di cui al momento ne sono visibili solo una minima parte per motivi di spazio. Gaetano è un’enciclopedia vivente. Affidandosi alla sua sapienza si apprende che l’inventore della mongolfiera non furono i fratelli Montgolfier, ma i napoletani Vincenzo Lunardi e Tiberio Cavallo i quali prima migliorano il prototipo dei Montgolfier, quindi inventarono la mongolfiera a idrogeno. Così come si apprende che la forchetta,la posata per intenderci, fu creata da Gennaro Spadaccini, gran ciambellano di Ferdinando II di Borbone, su ordine dello stesso Re Lazzarone il quale voleva si ideasse uno strumento che gli consentisse di mangiare durante i pranzi a corte la pizza e gli spaghetti non con le mani, come invece era solito fare quando si mischiava tra il popolo. In breve quell’oggetto dalle fattezze di un piccolissimo forcone si affermò nelle corti di tutta Europa. Per oltre un’ora Gaetano mi ha illustrato con una dialettica affascinante la storia di ogni singolo pezzo che mi mostrava, dando l’impressione che lui e l’oggetto fossero un’anima sola. A proposito di anime, nella sezione dell’emigrazione, esposta nella teca vi è la foto spezzata di una famiglia di emigranti napoletani. Mostrandomela, Gaetano mi racconta di come ne acquistò prima un pezzo e in seguito, dallo stesso rigattiere, trovò anche l’altra metà, asserendo: “dando vita a questa collezione, ho imparato che anche gli oggetti posseggono l’anima gemella con cui, prima o poi, si ricongiungeranno”. Al termine del “viaggio” in quel mondo delle meraviglie, abbiamo fatto una lunga chiacchierata i cui mi ha raccontato la storia della sua collezione.

Della collezione ne hanno parlato a livello nazionale giornali e telegiornali. Addirittura il TG2 vi dedicò un servizio di oltre tre minuti. Su youtube vi sono diversi video che la riguardano; mentre Artribune di marzo c.m. ne parla in un lungo articolo.

Chi volesse informazioni sulla collezione o fosse interessato a visitarla, più telefonare al 3404844132

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Gaetano dall’età di 12 anni ti sei accollato l’onere, ma oserei dire anche l’onore, di raccogliere materiale sulla storia di Napoli pre e post unitaria, creando la collezione Gaetano Bonelli che, possiamo dirlo senza esagerazioni, è la massima raccolta demo-etno-antropologica sulla città di Napoli esistente al mondo. Come nasce questa tua passione?

Nasce da un desiderio e, al tempo stesso, da un’esigenza: da ragazzino mi innamorai di Napoli e avvertii il dovere di fare qualcosa per la mia città. All’epoca mi iscrissi al Vico, ma lo frequentai poco perché, non appena potevo, marinavo la scuola per visitare i vicoli, le piazze, le strade, le chiese, i musei di Napoli. Come accade in questi casi, inevitabilmente nacque un rapporto di odio-amore perché da un lato imparai a scoprirne le tante meraviglie che la caratterizzano, dall’altro vidi il degrado in cui molte di queste meraviglie versavano. Come un novello Goethe, giravo la città in lungo e in largo per scoprire cose nuove. Con piacevole stupore appresi che Napoli è la città con il maggior numero di chiese e castelli al mondo e ha il centro storico più esteso del mondo. Contestualmente, mi resi conto che bisognava fare qualcosa per salvare tutto ciò dall’abbandono e dal degrado.

In tutti questi anni trascorsi girando tra mercatini e rigattieri, quanti pezzi hai raccolto?

Pur non avendo finora mai fatto un inventario, cosa che mi propongo di fare, ma che poi, per tanti motivi, sono costretto ad accantonare, verosimilmente la raccolta consta di oltre diecimila testimonianze raccolte per aree tematiche. Questa è la peculiarità, ma anche l’unicità della raccolta che è l’unica al mondo del genere caratterizzata da ben venti aree tematiche aventi per oggetto rigorosamente Napoli. Grazie a questa collezione si ha modo di ripercorrere un viaggio nella memoria, un viaggio nella storia fatto di fascino, di emozioni, di continue scoperte.

La tua collezione oggi è esposta presso la sede della Città Dello Scugnizzo che ti ha messo a disposizione uno spazio di ben duecento metri quadri…

Pur avendo a disposizione un simile spazio, al momento la mostra si articola in un salone di cinquanta metri quadri. Le altre stanze necessitano di un allestimento e di una riqualificazione. Cosa che conto di fare quanto prima, ovviamente in relazione alle mie disponibilità. Il tutto mi è stato messo a disposizione dalla Fondazione Casa dello Scugnizzo nella persona del Presidente, il Professor Antonio Lanzaro, il quale, a dispetto di quanti dopo aver visto la raccolta, restando esterrefatti, avevano promesso che si sarebbero impegnati per garantirmi uno spazio espositivo adeguato ma poi hanno puntualmente disatteso le promesse e gli impegni, mi concesse, fidandosi sulla mia parola, senza visionare la collezione, una stanza di dodici metri quadri dove il 12 ottobre del 2017 inaugurammo la “wunderkammer”, la camera delle meraviglie o delle curiosità. Poi dal 12 giugno del 2018 il tutto è stato allargato nel modo in cui lo vedete oggi.

Le istituzioni sono sensibili al tuo lavoro, ti sostengono, ti danno una mano?

Purtroppo con mio grande dolore questo non è avvenuto. Paradossalmente il tutto suona quasi come uno smacco a fronte di riconoscimenti, di encomi, attestazioni di stima, di apprezzamenti verbali. E a fronte di impegni, alcuni solenni di rappresentanti istituzionali. A tutto ciò è seguito un silenzio assordante che mi lascia solo e mi amareggia giacché non posso permettermi di fermarmi. Ho il dovere con me stesso di salvaguardare questa raccolta avendole dedicato oltre trent’anni della mia esistenza e non posso dare ragione a quanti in maniera perversa e cinica gradirebbero che il degrado e le ignominie abbiano la meglio. Io sto portando avanti una battaglia di bellezza e di cultura, di civiltà e civismo, di generosità e impegno verso quello che deve essere l’operazione di propaganda, una battaglia antitetica a ogni forma di nepotismo e di cultura basata su logiche salottiere e quindi questo è un discorso che a certi potentati suona come una stonatura. Questa è la casa di Napoli, dove chiunque può sentirsi autorizzato a essere partecipe a questo progetto di recupero e divulgazione della nostra storia!

Le scuole si mostrano interessate?…

Nonostante abbia più volte sollecitato i docenti amici o conoscenti a organizzarsi per portare gli alunni a visitare la collezione, la risposta è quasi zero. È come nel caso delle istituzioni: una volta vista la collezione, tutti si dicono entusiasti, ripromettendosi di venire, ma poi… In un anno e mezzo, da quando ho aperto, sono venute solo due scuole con due scolaresche: una l’anno scorso e l’altra una settimana fa. Quest’ultima è l’istituto superiore Minzoni di Giugliano che mi ha manifestato particolare interesse. Lasciami dire che questa raccolta è stata creata soprattutto per i giovani: in un anno e mezzo la più grande soddisfazione, la più sincera manifestazione di affetto e di stima l’ho avuta proprio dai ragazzi i quali, quando vennero, mi mostrarono una tale attenzione che stupì gli stessi professori che mi fecero i complimenti per il “miracolo” che avevo compiuto catalizzando su di me l’attenzione degli alunni. Considera, fu tale l’apprezzamento che sortii nei ragazzi che poi fui invitato alla loro cena di fine anno per ripagarmi delle emozioni che gli avevo regalato in quelle due ore e più di visita testimoniata dalla frase che scrissero sul registro delle presenze qui al museo: “Grazie Gaetano per avere arricchito la nostra cultura e per averci ospitato in questa struttura bellissima. Hai un cuore grande quanto Napoli”. Tutto ciò smentisce le dicerie secondo cui i giovani sono insensibili a certe realtà. Sono gli adulti che non sanno, o non vogliono, avvicinarli al mondo della cultura!

Gaetano, sei mai colto dallo sconforto? Sei mai attraversato dal fatidico dubbio, “ma chi me lo fa fare?”

Sono provato perché tutto ciò richiede uno sforzo che oramai sento di non essere più capace di sostenere. Le energie che vado a profondere dovrebbero essere dirottate verso qualcosa di propositivo, mentre sono letteralmente dissipate per dover ottemperare a una serie di richieste e a una serie di situazioni che a questo punto mi dovrebbero per certi aspetti essere dovute, non fosse altro perché io mi sento custode pro tempore di questa raccolta che ho messo a disposizione della città. E la parte civile della città dovrebbe avvertire almeno il desiderio di essere vicina a chi si spende per Napoli. Invece avvengono casi vergognosi come quello di Gerardo Marotta: quando scomparve, si affrettarono ad affiggere un manifesto con scritto GRAZIE GERARDO! Quando si muore non si dà più fastidio, non si è più pericolosi. Gerardo Marotta, scomparso alla soglia dei novant’anni, ci lasciò con il desiderio di veder realizzata la sua biblioteca. Napoli dovrebbe capire che ci sono delle testimonianze e ricchezze, realtà verso cui dovrebbe essere più rispettosa e orgogliosa e che esistono persone che si spendono per la città le quali, anziché essere emarginate, dovrebbero essere messe nella condizione di poter concorrere al riscatto della città, anche in maniera sinergica e cooperativistica. Qui invece esistono i vari individualismi dove ognuno, dando libero sfogo a un egocentrismo sterile, si sente depositario del verbo della realtà e capace di realizzare qualsiasi cosa. Invece solo unendosi, solo facendo un gioco di squadra si possono ottenere grandi risultati.

Le istituzioni e il mondo della cultura napoletana hanno preso atto della tua realtà…

Certo. Molti rappresentati delle istituzioni e delle accademie sono venuti a visitare la collezione, riconoscendole un valore di interesse unico nel suo genere. Promettendo che si sarebbero attivati perché avesse il giusto riconoscimento. Sto ancora aspettando!

CON GIANNI BICCARI PER LE STRADE DI NEW ORLEANS

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Di seguito l’intervista integrale apparsa su comunicaresenzafrontiere.it


Sabato 16 marzo all’Art Garage – Viale Bognar, 21/Pozzuoli, adiacente alla stazione della metropolitana FS– si è inaugurata la mostra fotografica “NEW ORLEANS, 1995” di Gianni Biccari.

Le foto, rigorosamente in bianco e nero, sono un reportage di strada scattato dal maestro durante il suo viaggio di nozze con la moglie Genny nel 1995. L’esposizione, che rientra nella rassegna “ArtinGarage” curata dallo stesso Biccari, durerà fino al 29 marzo: sarà aperta al pubblico dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20.

In via del tutto eccezionale si potrà visitarla anche la domenica, ma solo previo appuntamento telefonando al numero 338805491.

Presenti all’inaugurazione, ne abbiamo approfittato per porre alcune domande all’artista.

Gianni a ottobre hai esposto al PAN con una rassegna di foto di scena che ha avuto un ottimo successo di pubblico e di critica cui sono seguiti altri eventi che ti hanno visto protagonista; oggi siamo qui per questa nuova mostra: possiamo considerare terminato il divorzio tra te e la fotografia?

Assolutamente sì! anche se, più che di un divorzio, si è trattato di una pausa di riflessione. Il rapporto di “coppia” è ripreso con maggiore vigore. Mi fa piacere presentare queste fotografie di New Orleans perché è il mio unico reportage di strada.

Tu sei ufficialmente un fotografo di Teatro di figura, ossia marionette…

Lo sono stato fino a qualche anno fa assiduamente, oggi mi interesso di altro ma quel tipo di spettacoli mi sono rimasti nel cuore: non hai idea del fascino e della bellezza che si cela dietro le quinte

Come mai questa scelta del teatro di figura?

È stato un naturale evolversi: frequentando l’ambiente teatrale mi si è presentata l’opportunità e ho documentato i vari festival in giro per l’Italia. A proposito di ciò, giovedì sono stato invitato a Cividale del Friuli per la giornata mondiale della marionetta, organizzata da UNIMA, dove esporrò una mostra che già ho presentato in altre occasioni dove ritraggo gli animatori all’interno dei teatrini mentre muovono i burattini.

Questo è il secondo anno che curi questa rassegna, cosa ti ha spinto ad assumerti tale onere?

Prima di tutto la passione per la fotografia e, come ti ho già detto prima, il ritorno di fiamma con la macchina fotografica. E poi perché oggi c’è una sovraesposizione fotografica, ma tutta in virtuale sparsa tra social, telefoni e hard disk. Invece secondo me le fotografie devono essere stampate e appese al muro per essere ammirate da tutti!

Questo vale solo per voi fotografi di professione o per chiunque coltivi la passione fotografica?

Per chiunque ami la fotografia. Non a caso in questa edizione espongono anche giovani validi che non necessariamente fanno della fotografia la loro professione. Ad esempio hanno già esposto i ragazzi di “Scrivendo con La Luce” che hanno presentato un lavoro bellissimo sulla metropolitana di Napoli che ritengo dovrebbe rimanere come dono alla città.

Dopo questa mostra cosa hai in programma?

Oltre alla rassegna sul teatro delle marionette a Cividale del Friuli, sto cercando di elaborare un progetto a medio-lungo termine giacché non considero il singolo scatto un’immagine a se stante bensì parte di un racconto, di un vissuto articolato. Non faccio mai una foto fine a se stessa, ma la penso sempre all’interno di un contesto più ampio di cui rappresenta un momento imprescindibile dagli altri. Non a caso le sequenze delle mie mostre sono raggruppate per temi.

Per il prossimo anno cosa ci dobbiamo aspettare?

Ho pronto un reportage su Matera, un altro su Firenze. Ma soprattutto vorrei allestire una mostra su Parigi! Ci sono stato già tre volte, conto di ritornarci per completare gli scatti per poi poterla finalmente esporre a Napoli, magari in un ambiente istituzionale o associativo legato alla Francia. Consentimi di ricordare con una punta di orgoglio che quando nel 2007 ci fu a Napoli la Notte Bianca gemellata con Parigi, l’allora assessore alla cultura, sapendo che avevo una mostra fotografica sulla “ville lumiere” che aveva girato per l’Italia, mi chiamò perché la esponessi. La sorpresa fu che durante il concerto di Pino Daniele, il clou di quella “notte”, cui intervenne Giorgia, le mie foto furono proiettate ai lati del palco con il mio logo. Ecco posso dire che quello è stato in assoluto il momento più bello della mia carriera fotografica.

In futuro possiamo aspettarci qualcosa sui Campi Flegrei?

Sì, non escludo che potrebbe essere questo il progetto a medio-lungo termine cui accennavo prima…

 

Vincenzo Giarritiello

CARLO SANTILLO, IL CARONTE DEI CAMPI FLEGREI

SANTILLO

Nella foto Carlo Santillo il “caronte” della pseudo Grotta della Sibilla sul Lago d’Averno a Pozzuoli

Fino al 2014 la pseudo Grotta della Sibilla sul Lago d’Averno era uno dei principali siti d’attrazione turistica dei Campi Flegrei. Se ne prendeva cura Carlo Santillo la cui famiglia per più generazione ha svolto il ruolo di “caronte” trasportando in spalla da una vasca all’altra della grotta i visitatori che venivano a Pozzuoli per ammirarla. Dal 2015 la Grotta è abbandonata in quanto don Carlo per motivi di salute non è più in grado di svolgere il ruolo di custode e di guida. L’intervista che segue risale al 2003, fu pubblicata sul Bollettino Flegreo nel 2004.

Oggi la Grotta, come tanti altri siti archeologici di Pozzuoli e dei Campi Flegrei, versa in uno stato di assoluto abbandono e desolante degrado. Speriamo che quanto prima qualcuno si “svegli” dal sonno e si adoperi per recuperarli, ridonandogli lo splendore di un tempo.

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Ancora oggi, a distanza di oltre cent’anni, sul lago d’Averno esiste una figura per tanti aspetti mitica che, nonostante la veneranda età, si prodiga con tutte le sue forze per proseguire una tradizione familiare ufficialmente iniziata verso la fine del XIX secolo. Stiamo parlando di Carlo Santillo, ACCOMPAGNATORE DELLA GROTTA DELLA SIBILLA IN LOCALITA’ AVERNOcome è segnato sul biglietto da visita dietro cui don Carlo ha fatto stampare il tracciato da percorrere in auto per raggiungere la grotta da Napoli via tangenziale.

Conobbi don Carlo un pomeriggio di giugno 2004 mentre passeggiavo intorno al lago godendomi la quiete del posto. Giunto all’altezza del viale che conduce alla grotta, la mia attenzione fu attratta da una comitiva di ragazzi che dal sentiero si riversava sulla via. Incuriosito mi incamminai sul viottolo ombrato da una fitta vegetazione. Percorso pochi metri, giunsi davanti alla spelonca. All’interno scorsi un uomo anziano spazzare con cura l’atrio illuminato dai riverberi di luce. Continuando a ramazzare, l’uomo volse su di me il viso magro adorno di occhialini attraverso cui scintillavano gli occhi sottilmente indagatori. Un berretto da caccia gli copriva il capo. Nonostante il caldo indossava un giubbetto di stoffa per proteggersi dall’umidità che ristagnava nella grotta.“Buongiorno”, mi salutò accatastando al suolo un mucchio di sporcizia. “Volete visitare la grotta?” “Sono solo e non voglio disturbarvi”. “Nessun disturbo. Lasciatemi finire e vi accompagno” Zoppicando si avvicinò a una nicchia scavata nella roccia per prendere da una cassa di legno la paletta. “Da poco è andata via una scolaresca, forse l’avete incrociata venendo” disse raccogliendo con fare certosino la spazzatura. “I turisti non hanno alcun rispetto, disseminano mozziconi e cartacce dappertutto. E a me tocca ogni volta ripulire perché la grotta sia presentabile”. “La grotta è vostra?”. “No. Io faccio solo l’accompagnatore. Venite!” Lo seguii verso la parete interna del cunicolo dove era infissa una mensola con su poggiate delle lampade da campeggio. Ne accese una e me la porse. “Tenete, senza queste non si va da nessuna parte. State attento a non bruciarvi.” Ne accese un’altra per sé, prendendo anche quella spenta, aggiungendo: “Per emergenza, non si può mai sapere!” Accompagnati da quell’incoraggiante viatico ci avviammo incontro al mistero. Man mano che avanzavamo nel buio alla luce delle torce, don Carlo mi parlò della grotta“Scoperta durante gli scavi archeologici promossi dai Borbone nel 1750 e successivamente nel 1792, la grotta è lunga duecentocinquanta metri ed è famosa per la sua discesa agli inferi, un budello scavato a gomito nella roccia che conduce a un corso d’acqua. In passato il fiumiciattolo si guadava trasportati sulle spalle di un moderno Caronte per visitare le stanze della Sibilla sull’altro versante oggi raggiungibile a piedi.” “Chi era questo moderno Caronte?” chiedo incuriosito. “Lo stesso accompagnatore! Fino al 1930, epoca in cui mio padre completò l’intero scavo del cunicolo, consentendo l’ingresso alle stanze direttamente a piedi, la grotta era lunga circa la metà, e per giungere lì dove si presume fosse la Sibilla bisognava attraversare il corso d’acqua sul fondo della cavità” dice fermandosi davanti a un cunicolo che si incunea nelle parete.“Vi faccio strada” Scendiamo fino a quando davanti a noi appare uno spettacolo fantastico. Illuminata dalle torce una vena d’acqua filtra nel fondo del cunicolo, svoltando in un’ansa che immette nelle stanze della Sibilla. Osservando il suggestivo scenario non mi stupisco che in passato si pensasse che quello fosse il passaggio agli inferi di cui parlano Omero e Virgilio nelle loro opere. “Una volta condotti fin qui i turisti, l’accompagnatore se li caricava a turno sulle spalle guadando il fiume per mostrare loro le stanze. Accompagnatori furono mio nonno, mio padre e tuttora io.”Ascoltarlo raccontare della sua famiglia accompagnatori da tre generazioni; ammirare l’impegno con cui da solo accudisce la grotta a proprie spese, senza percepire il minimo contributo dalle autorità o da altri, mi induce a proporgli un’intervista per capire cosa lo spinge a fare tutto ciò.Con don Carlo ci risentiamo telefonicamente dopo alcuni giorni e fissiamo l’appuntamento per le nove di sera davanti al sagrato della chiesa del Carmine a Pozzuoli. Nel chiarore dei neon distinguo l’inconfondibile figura di don Carlo venirmi incontro. Sul capo sgombro dal berretto risalta la rada schiera di capelli bianchi perfettamente ordinati. Indossa un elegante gilet porpora dalla trama arabescata. Mi saluta con simpatia. Sorridendo gli stringo la mano chiedendo se ha già cenato. “No, ma non vi preoccupate, alla mia età si mangia poco.” Insisto per offrirgli una pizza, alla fine accetta. In pizzeria mi presento al proprietario chiedendogli se nel locale c’è un posto dove possiamo parlare senza essere disturbati. Lui annuisce e ci guida nella sala interna ingombra di tavoli vuoti. Ci sediamo al desco l’uno di fronte all’altro. Traggo dalla borsa il registratore e lo sistemo sul tavolo. Don Carlo lo fissa spaventato. “Ma che fate, registrate?” si raddrizza sulla sedia. Non è la prima volta che intervisto qualcuno. E ogniqualvolta estraggo il registratore per non perdere nemmeno una parola di ciò che si dirà, tutti si allarmano! “State tranquillo” lo rassicuro. Pigio il tasto di registrazione dando il via alla nostra storia.

“Don Carlo come nasce la figura dell’accompagnatore della Grotta della Sibilla dell’Averno, il cosiddetto moderno Caronte?” “Il capostipite fu Del Giudice Lorenzo impiegato del genio civile di cui mio nonno Carlo sposò una delle sette figlie. Siamo intorno alla fine del milleottocento. Allora la strada che conduce da Lucrino all’Averno era ammantata di brecciolino e non asfaltata come oggi. Per agevolare l’afflusso delle carrozzelle con i turisti, Del Giudice e i suoi aiutanti, tra cui mio nonno, si adoperavano per tenerla sempre in ottimo stato, estirpando l’erba che cresceva ai lati, spianando e bagnando il terreno per evitare che al passaggio delle carrozze si levasse la polvere infastidendo i turisti. All’epoca il maggior afflusso di visitatori all’Averno e alla grotta era in autunno, in inverno e a Pasqua. Per fronteggiare la marea di gente il suocero di mio nonno allestì un gruppo di aiutanti per traghettare in spalla i turisti che volevano scendere negli inferi per visitare la stanza della Sibilla. D’estate invece i turisti diminuivano e da solo Del Giudice riusciva a fronteggiare le esigenze del pubblico per cui mio nonno, che tra l’altro era un valente pescatore, insieme agli amici se ne andava a La Spezia a pescare. Quando Del Giudice andò in pensione, non avendo figli maschi propose mio nonno al genio civile perché ne prendesse il posto. Inoltre gli cedette anche il ruolo di accompagnatore della grotta che di seguito occupò mio padre e quindi io. Approssimativamente sono centotrenta, centoquaranta anni che nella mia famiglia facciamo questo mestiere. Io iniziai nel 1946, dedicandomi a tempo pieno all’attività fino al 1960 quando mi impiegai nelle poste. Ma appena potevo aiutavo mio padre. Ho ripreso da quando sono andato in pensione nel gennaio del 1995.” “Don Carlo cosa la spinge a proseguire quest’attività? La volontà di non infrangere la tradizione di famiglia, la passione, o..?” “L’una e l’altra! Certamente non per interesse. Sono un pensionato e, a dire la verità, quel poco che guadagno accompagnando la gente lo spendo per far fronte a tutte le mascalzonate arrecate dagli sconosciuti alle infrastrutture della grotta. Più volte ho dovuto riparare il cancello d’entrata perché manomettevano la serratura per entrarvi. Addirittura alcuni anni fa realizzai un impiantino elettrico alimentato da accumulatori che rischiarava i cunicoli e le stanze. Durò quindici giorni poi scassarono tutto!” “Don Carlo ma i lavori di manutenzioni li paga lei?” “Si capisce! Li pago io di tasca mia fino all’ultimo soldo. Nessuno mi sostiene… Si rompe il muro? Chiamo il muratore e lo faccio riparare. Manomettono il cancello? Chiamo il fabbro e lo faccio aggiustare. La passerella che c’è nelle stanze marcisce? Chiamo il falegname e faccio sostituire le assi. Tutto a spese mie! Mai nessuno s’è degnato di ringraziarmi per tutto ciò! A parte ovviamente i visitatori i quali, chiedendomi ragguagli sulla grotta, come lei si sorprendono che faccia tutto da solo, finanche da spazzino pur di tenere il luogo in ottimo stato. Consideri che quando pulisco il vialetto d’accesso dal fogliame, durante il periodo invernale sono costretto a spazzare anche in mezzo alla strada per rendere transitabile il tratto che conduce alla grotta.” “Ha mai pensato di cercarsi un aiutante?” suggerisco mentre don Carlo si versa da bere un bicchiere d’acqua minerale. Bevendo il suo sguardo attento e luminoso mi scruta al di sopra del bicchiere. “Al giorno d’oggi non c’è tutta quell’affluenza di gente da giustificare la presenza di un aiutante “ dice posando il bicchiere sul tavolo. “Solo il lunedì dell’Angelo e il primo maggio mi ci vorrebbe effettivamente un po’ d’aiuto. Per il resto faccio da me!” Il velato orgoglio, misto a una punta di ostinazione, che traspare dalle sue parole mi induce a credere che, considerandola un bene di famiglia, l’idea di condividere la grotta con qualcun altro non gli piace affatto. Se così fosse non lo si potrebbe biasimare ripensando alla fatica e al sudore versati dai suoi avi mentre negli anni trasportavano in spalla i turisti per garantire il pane ai propri figli. Fu proprio la paura che questo pane venisse improvvisamente a mancare che il padre di don Carlo, Alessandro Santillo, nel 1932, allorché Amedeo Maiuri scoprì l’attuale antro della Sibilla nell’acropoli di Cuma, si rivolse a Raimondo Annecchino affinché intervenisse perché l’archeologo non sconfessasse con la propria autorità la grotta dell’Averno. “Dopo aver scoperto l’antro di Cuma, Maiuri si recò a visitare la grotta dell’Averno facendosi traghettare in spalla da mio padre” ricorda don Carlo. “A seguito di quella visita dichiarò che per anni la grotta era stata arbitrariamente definita grotta della Sibilla. Viceversa si trattava di uno dei tanti camminamenti militari di epoca romana scavati da Agrippa nel 37 a.c. quando bonificò il lago creandovi il Porto Julius durante la guerra civile tra Ottaviano e Pompeo, ingiungendo a mio padre di interrompere l’attività. Papà non si lasciò intimorire. Rispose che aveva famiglia per cui avrebbe smesso solo se Maiuri gli avesse trovato un lavoro. Quindi si rivolse a Raimondo Annecchino perché trovasse un compromesso. Annecchino, che oltre ad essere un signore era anche amico di Maiuri, si interessò della vicenda, chiedendo all’archeologo di non rimarcare troppo sull’infondatezza dell’originalità della grotta dell’Averno. Alla fine si trovò la soluzione decidendo di chiamare la grotta Bagno della Sibilla, ovvero luogo in cui la Sibilla veniva a bagnarsi. Io non affermo che la Sibilla stesse davvero in questo luogo. Dichiarare la grotta camminamento militare successivamente adibito a bagno termale mi sta bene. Però vorrei che gli organi competenti dessero maggiore importanza alla grotta e a tutta l’aria dell’Averno. Di questi luoghi ne parlano Omero, Virgilio. Uomini di cultura di tutte le epoche giungevano in questi posti per respirare il mito. Ma oggi dove sono i turisti? Qui intorno si vede solo gente che viene per mangiare o per fare all’amore… Perché gli studiosi, oltre ad affermare che la grotta è un camminamento militare, non dicono che tutto il luogo, per il suo valore storico, merita d’essere visitato? Perché non si adoperano affinché i turisti tornino in massa invece di tacere? L’esistenza della grotta è stata addirittura cancellata dalle carte topografiche. Fino a venti anni fa sulle guide c’era scritto Grotta della Sibilla, oggi troviamo segnato Grotta Romana. In tal modo la gente è depistata. Leggendo che l’antro della sibilla sta a Cuma questa non la viene a visitare perché di grotte romane qui ce ne sono tante.” Il tono accorato di don Carlo coinvolge emotivamente. Essendo mia intenzione dare risalto alla sua figura di Carlo di moderno Caronte, gli pongo una domanda che lo imbarazza. “Don Carlo perché suppone che anticamente nella grotta si celebravano riti sacri?” “Per sentito dire sembra che durante alcuni scavi effettuati in passato nei pressi della grotta furono rinvenuti un altare e delle statue di divinità risalenti a epoca preromana che furono subito occultati per evitare l’intervento della soprintendenza. Ma si tratta solo di voci che lasciano il tempo che trovano!” Tralasciando i “per sentito dire”, i graffiti scavati sulle pareti della grotta che riproducono una spiga, simbolo di Demetra dea dei campi, e un fallo, simbolo dionisiaco, lasciano supporre che probabilmente nella grotta si celebrasse un culto ctono legato alla terra, avvalorando la tesi di don Carlo. Uno degli aspetti più affascinanti che in passato resero famosa la figura dell’accompagnatore era il traghettamento a spalla dei turisti. “Prima che installassi la passerella sul canale che collega l’ingresso agli inferi con le stanze, l’attraversamento del corso d’acqua si compiva sulle spalle dell’accompagnatore. All’epoca di mio nonno e mio padre l’auto era un lusso che poche famiglie potevano permettersi. I turisti giungevano nei Campi Flegrei con la cumana, il tram o la metropolitana. All’uscita dalle stazioni trovavano le carrozzelle che li accompagnavano a visitare i luoghi del mito virgiliano. Con i vetturini mio nonno e mio padre avevano stabilito un accordo che prevedeva per ogni turista che visitava la grotta, in base al prezzo stabilito per la visita, una percentuale che andava al vetturino. In questo modo l’andirivieni di turisti alla grotta era garantito così come era assicurato a mio nonno, mio padre e altri di mantenere le proprie famiglie in un epoca in cui non era facile sbarcare il lunario. Allora alla grotta provenivano carrozzelle da Baia, Napoli, Posillipo, dalla Riviera di Chiaia, Marigliano. Taxy da Napoli e da Pozzuoli; guide dalla solfatara con i loro gruppi di turisti. Considerate che a quei tempi alla solfatara c’erano ben quattordici guide mentre oggi ce ne sono solo due! All’epoca spesso fuori alla grotta si creava un’interminabile fila di visitatori. Oggi purtroppo la carrozzella è scomparsa. Ognuno ha la macchina, legge sulle guide della grotta di Cuma e si reca lì tralasciando questa dell’Averno.”
Riguardo alla sua figura di moderno Caronte, gli chiedo 
di raccontarmi qualche aneddoto curioso verificatosi nel corso di tutti questi lunghi anni in cui la sua famiglia ha svolto la funzione di accompagnatore.

“Di aneddoti da raccontare ne avrei diversi ma taccio per rispetto dei turisti. Quello che le posso dire è che mio nonno e mio padre hanno traghettato in spalla persone illustri come lo zar di Russia Nicola II, Re Gustavo di Svezia, donna Rachele Mussolini con il figlio Bruno, la contessa Pallavicini, la regina Elena di Savoia e la Principessa Maria José che mio padre portò in braccio perché era in stato interessante. In passato c’era l’abitudine da parte dei turisti di lasciare appuntato con un chiodo sulla sommità della grotta il proprio biglietto da visita cosicché si veniva facilmente a sapere delle persone importanti che l’avevano visitata. Ovviamente quando sopraggiungeva un’alta personalità lo si capiva subito perché era preceduta dalla staffetta che annunciava, “sta arrivando sua maestà!”. In quei momenti si allestiva tutto un preparativo per accoglierla degnamente. Ma questo succedeva all’epoca di mio nonno e di mio padre. Personalmente non mi risulta di aver accompagnato qualche pezzo grosso, anche perché oggi se qualcuno lasciasse un biglietto da visita presso la grotta per segnalare d’averla visitata, ‘sti mascalzoni non lascerebbero in pace nemmeno quelli!” “Don Carlo possibile che non ha qualche aneddoto particolare da raccontare che riguardi lei o suoi avi?” insisto sperando di fare breccia nella sua dura scorza da galantuomo. Per un attimo leva gli occhi al soffitto segno che sta setacciando nei ricordi. “Oddio, un fatto che mi ha molto colpito riguardò mio nonno” ammette tornando a fissarmi inarcando la fronte, sistemandosi gli occhialini sul naso. “Durante la visita di un gruppo di turisti facoltosi uno di loro perse un gioiello molto prezioso. Quando ritornò alla grotta per vedere se l’avesse perso lì, mio nonno glielo consegnò dicendo, “qui l’avete perso e qui sta!” Personalmente un episodio che non dimenticherò mai fu la visita di un turista che, prima di venire alla grotta, era stato alla solfatara. Appena mi vide la prima cosa che mi chiese fu il costo dell’accompagnamento. Io risposi che era a suo piacere e lui si innervosì, asserendo che era stanco di quest’atteggiamento dei napoletani. Incuriosito chiesi perché ce l’avesse tanto con i napoletani. Mi spiegò che alla Solfatara, dopo aver pagato centocinquanta lire per l’ingresso, aveva dovuto sborsare quattrocento lire per la guida altrimenti non poteva visitare il vulcano in quanto farlo da soli era proibito ritenendolo pericoloso. Quindi aveva dovuto pagare altre duecento lire per delle fiaccole di pino utilizzate dalle guide per accrescere il fumo in alcuni punti del vulcano, più ancora altre duecentocinquanta lire per l’acquisto di alcune pietre che gli aveva venduto un tizio che allestiva una specie di scenografia all’interno di una grotta. In più, a conclusione della visita, la guida gli aveva chiesto di offrirgli un bicchiere di vino per brindare alla sua salute. Insomma la visita alla Solfatara gli era costata più di mille lire. Come non giustificare la sua arrabbiatura? A quel punto dissi, “ a Napoli diciamo che i patti li fanno i cocchieri” e gli chiesi poche centinaia di lire. Bene, alla fine il signore restò talmente soddisfatto che non ricordo se mi diede cinquecento o cinquemila lire. Ma rammento che mentre fissavo il danaro nella mano ero così confuso che gli chiesi se fosse certo di quel che mi aveva dato. “Eccome se sono certo, lei è un galantuomo!”, ribatté lui soddisfatto.” Nei racconti di don Carlo compare un elemento comune rappresentato dall’onestà! Glielo faccio notare e lui rafforza il concetto narrando un episodio emblematico. “Tenga presente che l’accompagnatore deve scortare persone sole nel buio. Ora immaginatevi quando si compiva l’attraversamento a spalla e si traghettava una bella donna… Il moderno Caronte con una mano reggeva la torcia e con l’altra le gambe della turista. Ma ‘sta mano tanto poteva metterla all’altezza delle caviglie e tanto più sopra accarezzando le cosce della signora!” “C’è stato chi l’ha fatto?” “Ci fu chi si lamentò con mio padre, ma non perché compì lui l’audace gesto. Un giorno che c’erano tante persone da accompagnare e traghettare, papà chiese aiuto a un conoscente il quale ne approfittò per palpeggiare le gambe di una signora. All’uscita la visitatrice si lamentò col cocchiere il quale ammonì mio padre di non servirsi più di quella persona perché non si era comportata da galantuomo!” “Don Carlo anche lei ha traghettato gente in spalla” “No!” risponde deciso. “Non l’ho mai fatto e non mi sarebbe piaciuto farlo. Anzi criticavo mio padre perché, facendolo, si rovinò la salute. Oddio, papà è vissuto fino a novantatre anni ma di acciacchi ne aveva tanti tra artrosi e reumatismi. Mio padre faceva l’accompagnatore da che era bambino. Per oltre trenta anni ha traghettato la gente in spalla nell’acqua caricandosi in groppa persone che pesavano fino a centoventi chili. E vi assicuro che non aveva un fisico erculeo, anzi… Vi immaginate che vita ha fatto? Il cardiologo che lo conosceva, quando mi incontrava, mi chiedeva sempre, “ma papà è ancora vivo? Deve essere figlio del padreterno per continuare a campare dopo quella vitaccia!” Da oltre un’ora pendo dalle labbra di quest’uomo così semplice e umile da non rendersi conto d’essere un vivo fotogramma di storia! Di tanto in tanto l’aroma della pizza si spande nella sala stuzzicando il palato. Sarei tentato di chiudere l’intervista per soddisfare la gola ma tengo a bada lo stomaco ancora per un po’ e pongo un’ulteriore domanda a don Carlo. “Da qui a cent’anni, quando lei non ci sarà più scomparirà anche la figura dell’accompagnatore, o c’è qualcuno che prenderà il suo posto?” “Chissà” sorride facendo spallucce. “Al momento non c’è nessuno a cui cedere il timone. Per farlo dovrei trovare una persona che intraprenda il mestiere non per lucro. Glielo ho detto, per fare l’accompagnatore prima di tutto bisogna essere galantuomini!” “Don Carlo un’ultima domanda.” “Dica” fa rilassandosi. “Quali sono le sue speranze per il futuro della grotta?” Prima di rispondere si aggiusta gli occhiali sul naso. “Ho 74 anni e soffro di artrosi all’anca, un ricordo della grotta. Tuttavia se non avessi questo fastidio mi adopererei come un giovanotto perché si desse più considerazione a tutta la località dell’Averno, non solo alla grotta. Ho sempre sognato di vedere l’Averno curato come si conviene; senza un filo d’erba lungo la strada. Magari creare una pista ciclabile; istituire un trenino che colleghi l’Averno con il lago di Lucrino; ripristinare d’estate un servizio di carrozzelle per i turisti. Impiantare lungo il lago dei fari che illuminino in maniera caratteristica e suggestiva la zona; sistemare lungo il percorso delle panchine, delle piante ornamentali e delle fontanelle. Ma si tratta solo di speranze, di sogni!” “Don Carlo a volte i sogni si avverano” “Speriamo!” sorride.

INTERVISTA A LORENZO LEONE – FOTOGRAFO PER PASSIONE, CON IL DILEMMA SE FARNE UNA PROFESSIONE…

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Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiera

Sabato 2 marzo all’ArtGarage – Viale Bognar 21/Pozzuoli, adiacente alla stazione della metropolitana – si è inaugurata la mostra fotografica VIAGGIO A TECLA E MORIANA di Lorenzo Leone. L’esposizione, che rientra nel progetto ArtinGarage curato da Gianni Biccari, durerà fino a venerdì 16 marzo; la si potrà visitare dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22 e il sabato dalle 10 alle 20, la domenica è chiusa.

Invitati all’apertura dell’evento, abbiamo colto l’occasione per rivolgere alcune domande all’artista.

Lorenzo alla fotografia ti sei avvicinato da giovane o in età matura, ma soprattutto per passione o per altri motivi?

Assolutamente per passione. Da ragazzo, quando uscivamo con gli amici, portavo sempre con me una macchinetta con cui mi divertivo a immortalare momenti di goliardia, ma non solo. Successivamente, all’epoca dell’università, da autodidatta ho iniziato a studiare la fotografia.

Che studi hai fatto?

Nulla a che vedere con la fotografia, sono un commercialista. All’epoca dell’università, tramite internet, frequentando siti e forum specifici, ho iniziato ad approfondire l’argomento fotografico cui è seguita una lunga fase di pausa. Alla fotografia mi sono riavvicinato quattro anni fa iscrivendomi a un corso base per imparare i rudimenti, seppure già li conoscessi. In quel caso ho avuto la fortuna di avere come maestro Mario Ferrara grazie al quale ho imparato nuove tecniche, compreso molti aspetti dell’arte fotografica finora allora a me ignoti e ho conosciuto e studiato tanti fotografi dai quali ho cercato di trarre il meglio per crescere. Da allora non mi sono più negato il piacere di fotografare.

La mostra si intitola DA TECLA A MORIANA, chiaro riferimento alle “Città invisibili” di Calvino. Non a caso nelle foto esposte i soggetti ritratti sono case e edifici in ricostruzione o in abbandono. Questa scelta specifica è nata per caso o è voluta?

Prima di tutto questi soggetti mi attirano e poi stavo lavorando a un progetto, “Under Construction” con la foto di Edenlandia in ristrutturazione come foto di copertina, dove immaginavo quale futuro avessero ogni casa o edificio in fase di restauro o in attesa di essere recuperati. A mio parere essi rappresentano un bivio immaginario che induce a fantasticare su come fossero prima del decadimento e come saranno dopo la ristrutturazione. Mi piace leggerla così…

Credi che esiste un’identificazione inconscia tra la tua interiorità e la scelta dei soggetti che ritrai?

Assolutamente sì, in loro riconosco il mio essere in divenire!

Questa è la tua prima mostra o ne hai già fatte altre?

Questa è la mia prima “personale”.

Progetti per il futuro?

Dal punto di vista generale voglio portare avanti questo discorso. Entrando nello specifico, a breve ci sarà il congresso nazionale FIAF “ANIMA CAMPANIA” cui parteciperò con una serie di scatti. Al momento ho in corso di esposizione a Milano una serie di foto relative alla ex S.S.162 che passa sul Centro Direzionale relative al rapporto tra il viadotto e le case sottostanti, progetto che già ho presentato a Trieste.

Come riesci a districarti tra lavoro e passione?

Fare il commercialista mi consente di disporre delle risorse economiche indispensabili per investire in macchinari e quant’altro sia necessario per portare avanti al meglio questa passione.

Speri di riuscire a vivere un giorno solo di fotografia?

Spesso mi faccio questa domanda e non so darmi una risposta.

Perché?

Mi chiedo: se riuscissi a fare della mia passione un lavoro, sarà uguale come ora? La fotografia resterà sempre un piacere? Oppure, trasformando il piacere in dovere, corro poi il rischio di dovermi cercare un nuovo diversivo per ritemprarmi dalla realtà?…

Bella domanda!

 

Vincenzo Giarritiello

SCAFFALE: “LE MIE RAGAZZE-RAGAZZE ROM SCRIVONO”, DI VINCENZO GIARRITIELLO

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(Nella foto in alto l’autore con il dottor Gianluca Guida, Direttore dell’IPM di Nisida)

Di seguito la versione integrale della recensione a LE MIE RAGAZZE – RAGAZZE ROM SCRIVONO pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Sono passati quasi tredici anni da quando lo scrittore Enzo Giarritiello coordinò un laboratorio di scrittura creativa presso la sezione femminile del carcere minorile di Nisida. “La più tosta ma anche la più bella delle esperienze di laboratorio con i ragazzi“,  ci tiene a precisare.  Quest’ultima rientra tra le attività creative che l’autore ha tenuto a Pozzuoli (per anni ha coordinato un laboratorio di scrittura creativa presso la libreria per ragazzi “CionCionBlu” e uno di nove settimane presso il IV Circolo di Pozzuoli con due quinte accorpate).

L’esperienza nel carcere di Nisida, raccolta in un diario che all’epoca aggiornava regolarmente quando rientrava dagli incontri, non si era mai pensato di pubblicarla per non disattendere l’impegno assunto con chi gli aveva concesso quella possibilità. Gli incontri avvenivano ogni sabato tra fine giugno e fine luglio del 2006.

Allora allo scrittore fu suggerito di realizzare un libro sulla sua esperienza con l’intento di fornire un ulteriore strumento di supporto per chi lavora con realtà sociali disagiate.
A distanza di tanto tempo, rileggendo il diario, resosi conto che non violava la privacy delle ragazze né di altri, lo scrittore ha deciso di darlo alle stampe con il self publishing di Amazon.

Il volume è composto di otto capitoli, ognuno con un titolo indicativo sull’argomento, ne segnaliamo tre: “L’AMORE NON VINCE TUTTO”, il terzo capitolo, racconta il punto di vista sull’amore delle ragazze. Nel settimo capitolo, LA RABBIA DI UNA FIGLIA, si argomenta la divertente insistenza delle ragazze quando appresero che era padre di due maschi. A loro dire, “si doveva dare da fare” per mettere al mondo una femmina: “Solo se ti incazzi anche con una figlia puoi dire d’essere un vero padre. Le incazzature con i figli maschi non ti danno nulla di nuovo essendo tu maschio e avendo quindi vissuto le loro stesse problematiche da piccolo. Solo se avrai confronto con una femmina potrai comprendere cosa vuol dire essere veramente padre e sentirti un uomo completo. Finché non lo farai sarai un uomo a metà in quanto conoscerai solo una faccia della medaglia, l’altra ti sarà ignota!“.

Una menzione a parte merita il sesto capitolo, “INCUBO”, dove Giarritiello raccoglie la testimonianza di una delle secondine: la donna riferisce le proprie esperienze precedenti in vari penitenziari femminili, raccontando con le lacrime agli occhi degli orrendi crimini di cui si macchiavano alcune detenute.

Il volume, scritto in modo fluido e scorrevole, si legge velocemente riuscendo a dare uno spaccato femminile su un universo poco affrontato, quello rom. L’etnia, oggetto da sempre di una visione stereotipata in termini negativi, racchiude un retaggio culturale profondo e articolato che meriterebbe d’essere approfondito per capire le tante dinamiche, anche contraddittorie, che la caratterizzano.

Il Libro è disponibile su Amazon

La Redazione