POZZUOLI: ALL’ART GARAGE “ZEITGEIST”, LA MOSTRA FOTOGRAFICA DI MARCO IANNACCONE/SCARLET LOVEJOY

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Sabato 16 febbraio all’Art Garage – Parco Bognar 21, Pozzuoli -, s’è inaugurata la mostra fotografica “ZEITGEIST” di Marco Iannaccone/ScarletLovejoy. L’esposizione durerà fino al 1 marzo. Abbiamo colto l’occasione per fare qualche domanda al maestro.

Zeitgeist cosa rappresenta?

Zeitgeist significa “spirito del tempo”. Attualmente si parla molto di una possibile eruzione del Vesuvio. Visitando gli scavi di Pompei ho visto i calchi di coloro che morirono durante l’eruzione che la distrusse. A loro modo sono una rappresentazione dello spirito del tempo in quanto possono essere considerati alla stregua di fotografie: la fotografia congela il tempo, i calchi hanno congelato un periodo storico. La stessa cosa voglio fare con zeitgeist rappresentando l’attualità.

In pratica, se non ho frainteso, ti sei immaginato un’attuale eruzione del Vesuvio, rielaborando le foto in modo da farle apparire come una sorta di calchi di coloro che furono uccisi dal terremoto immortalandoli nel loro ultimo gesto esistenziale come è avvenuto a Pompei con i calchi…

Sì, lo spirito del tempo del 2019!

Oltre a zeitgeist quali altri progetti hai realizzato?

Ne ho realizzato tanti di svariate tipologie, perfino quello in cui il soggetto era un condominio raccontandone le infinite storie che vi si articolano nel suo interno in quanto un condominio a modo suo è un universo. In sintesi mi piace ritrarre il sociale ricostruito a modo mio, non mi piace il reportage. Le storie si possono raccontare anche in maniera costruita.

Il fotografo è un testimone del nostro tempo, prediligi soffermarti su un soggetto particolare o spazi ad ampio raggio?

Cerco di rappresentare il sociale in tutte le sue sfumature: ho affrontato il femminicidio, un progetto che tenni in stand by per due/tre anni; mi sono interessato del fenomeno del nuovo fascismo di cui oggi si parla con insistenza, seppure è un argomento che non mi piace.

Quando fotografi ti identifichi nel soggetto che stai ritraendo o te ne distacchi?

In parte non mi distacco, partecipo a ciò che sto rappresentando sia da un punto di vista compositivo sia emotivo perché se ho deciso di ritrarlo significa che mi emoziona: fotografare è eternare un’emozione.

Napoli è una città con tante sfumature sociali per cui a un artista potenzialmente offre miriadi di soggetti: vivere a Napoli artisticamente ti ha favorito?

No. Per un periodo della mia vita ho vissuto a Milano e ho fatto progetti anche lì. Milano e Napoli, essendo delle metropoli, hanno le stesse problematiche. Tuttavia riconosco che a Milano difficilmente avrei potuto ritrarre una donna con il paniere come invece ho fatto a Napoli. Certe immagini giocose le può offrire solo Napoli.

Tra poco assisteremo a una sorta di spettacolo denominato Tarallucci e Vino di cui sei il protagonista, di cosa si tratta?

Durante le inaugurazioni delle mostre si è soliti offrire un buffet. Bene, la mia è una critica al fatto che molto spesso le persone vengono alle inaugurazioni solo per approfittare del buffet, mangiando e bevendo a scrocco; oppure per intessere public relations al fine di crearsi dei contatti da sfruttare in seguito per proprio uso personale, fregandosene dell’artista e delle sue opere. In questo breve spettacolo verrò rappresentato come una statua fatti di palloncini che contengono del vino a cui piedi ci sono piattini con taralli: delle persone verranno verso di me per prendere un tarallo e faranno scoppiare i palloncini per bere il vino contenuto distruggendo la statua di cui sono parte integrante. In questo modo voglio affermare che quando il pubblico va alle mostre solo per mangiare e bere distrugge l’arte: la gente non si rende minimamente conto di quanto lavoro c’è dietro la creazione artistica e all’allestimento di una mostra. Personalmente ho la sensazione che a Napoli, ma mi sento di dire in Italia in generale, molte persone non hanno rispetto per l’arte.

Perché la gente non avrebbe rispetto per l’arte?

E’ un problema di educazione e anche perché oggi l’attenzione delle persone è distolta da molti oggetti di distrazione di massa. Non a caso tra i soggetti che ho ritratto ce ne è uno che si fa un selfie mentre il Vesuvio sta eruttando non avvedendosi del rischio che corre.

Progetti per il futuro?

Dopo Pozzuoli, scelta come luogo d’anteprima, da luglio ad agosto porterò Zeitgeist al PAN a Napoli e sempre al Pan riproporrò un progetto dal titolo Ritrovarsi che ho già esposto a ottobre scorso.

 

Vincenzo Giarritiello

VOCE ‘E SIRENA, IL GRIDO DI RABBIA DI SANDRO DIONISIO AL CINEMA SOFIA DI POZZUOLI

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Di seguito l’intervista integrale al regista Sandro Dionisio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

La sera del 4 marzo 2013 un incendio doloso distrusse quattro dei sei capannoni che componevano Città della Scienza uno dei luoghi simbolo della cultura napoletana. Da quel tragico evento il regista Sandro Dionisio trasse spunto per il suo film VOCE ‘E SIRENA che sarà proiettato lunedì 4 marzo al cinema Sofia di Pozzuoli nel sesto anniversario dell’incendio. Per l’occasione lo abbiamo intervistato.

Sandro Voce ‘E Sirena è un grido di rabbia contro la distruzione di un luogo simbolo della cultura napoletana o contro la distruzione dell’intera città?

Entrambe le cose. Chiaramente il film nasce come reazione d’impulso all’atto vandalico: come tanti napoletani, anch’io vedendo in televisione le immagini del rogo mi indignai pensando che gli intellettuali napoletani dovevano reagire alla distruzione di quello che era uno dei luoghi di cultura più importanti di Europa. Di conseguenza scrissi di getto un film che raccontasse la protesta della civiltà civile contro quel gesto criminale non limitandomi a documentarlo né a dar vita a un’inchiesta per individuarne i colpevoli e il movente, ma ho cercato di far sì che l’incendio simboleggiasse la rovina della città. Nei secoli Napoli è stata oltraggiata e saccheggiata dalle dominazioni straniere e dai potenti di turno. Sopportare tutto ciò stoicamente va a onore dei napoletani.

Non pensi che paradossalmente ciò potrebbe essere invece inteso come una sorta di ignavia da parte dei cittadini?

No, decisamente. Piuttosto credo sia una forma di incapacità a strutturare la protesta in termini rivoluzionari

Ci vorrebbe un Masaniello…

Questa è proprio la frase che dice Sofia, una delle due protagoniste del film. Io rispondo di no, perché Masaniello non ha mai risolto i problemi di Napoli così come non li ha risolti la Pimentel de Fonseca e tanti altri eroi cittadini. Napoli è sempre stata salvata dalla coesione sociale, dal popolo unito. Secondo me gli eroi non fanno le fortune di un popolo.

Nel film ci sono due figure femminili, Patrizia interpretata da Cristina Donadio, Sofia da Rosaria De Cicco: una rappresenta la borghesia, l’altra il popolo, perché questa dualità?

Napoli è l’unica città europea in cui questi due aspetti sociali convivono in spazi minimi, che addirittura a volte invadono l’uno il campo dell’altro; e poi perché in questo modo il film si è avvalso di una dinamica particolarmente felice grazie alla straordinaria interpretazione delle due attrici cui si associa Agostino Chiummariello: se in un film i personaggi fossero tutti uguali la narrazione sarebbe monotona. Mentre credo che, avendo messo a confronto due anime diverse, sono riuscito a creare momenti di enfasi derivanti dal rogo. Ovviamente nel film ci sono anche aspetti comici perché spesso allegria e dolore camminano a braccetto a testimonianza dell’eterno dualismo esistenziale.

Perché hai scelto di girare un crossover, ovvero un mix tra film e documentario?

Il crossover somiglia a Napoli nel senso che questa contaminazione attiene al racconto che volevo portare alla luce: Napoli è una città contaminata per eccellenza, forse è la prima città multietnica del mondo. Non a caso in città abbiamo una fitta presenza di minoranze etniche che sono storiche. Napoli non è una metropoli lineare per cui bisognava girare il film con un linguaggio che mettesse in luce queste caratteristiche.

Possiamo dire che sei voluto uscire dagli stereotipi?

Diciamo che più che cercare di essere originale ho voluto essere aderente alla realtà. Quando una storia mi chiama – secondo me sono sempre le storie a offrirsi gli autori, non viceversa – e decido di mettermi al suo servizio, mi nascondo dietro di essa; divento invisibile evitando che si percepisca la mia incisività di regista in quanto non amo le regie muscolari il cui fine quasi sempre è quello di mostrare quanto si è bravi. Tutto questo non mi interessa. Per me la regia deve essere strumentale a quello che il film deve raccontare e in questo seguo le tracce di grandi maestri quali De Sica o Zavattini.

Dunque ti rifai al neorealismo…

Seppure il neorealismo è stato un movimento che è durato un breve arco di tempo,deve ritenersi come la vera rivoluzione del cinema mondiale. Personalmente cerco di pormi dietro la macchina da presa come facevano i maestri citati prima, in maniera sobria ponendo attenzione alla storia.

Nel film compaiono anche personaggi della cultura napoletana quali Aldo Masullo, Marino Niola, Enzo Moscato, ossia un mix culturale: perché questa scelta?

Perché volevo e voglio che gli intellettuali napoletani riflettessero e riflettano sul motivo di questa nuova ferita arrecata alla città; che, così come avvenne ai tempi del mio maestro Franco Rosi con Mani Sulla Città, la città esprimesse un pensiero su quanto è accaduto.

Quindi il film è anche una denuncia contro l’inazione degli intellettuali napoletani…

Assolutamente sì! Secondo me gli intellettuali napoletani, pur essendo spesso la punta di diamante dell’intellighenzia europea, hanno il grande difetto di non fare rete, per cui di non servire adeguatamente la città. Io ho messo il mio film al servizio di quest’azione collettiva a mo’ di trait d’union. Mi piacerebbe che gli intellettuali napoletani fossero più vicini l’uno all’altro in modo dare esito alle esigenze del popolo.

Da uomo di cultura e amante di Napoli come stai vivendo l’azione che la città sta intraprendendo verso gli immigrati dicendosi pronta ad aprire le porte del porto per farli sbarcare?

Su quest’argomento nel 2011 ho girato il film “Un Consiglio a Dio” dove Vinicio Marchioni interpreta un trovacadaveri che recupera da una spiaggia i corpi degli extracomunitari deceduti a mare durante il naufragio dei barconi della speranza. La mia opinione è che i migranti sono una ricchezza: come faremmo senza le ucraine che fungono da badanti ai nostri anziani e ammalati? Come faremmo senza i cingalesi e i cinesi che hanno portato un indotto economico fortissimo? Non dimentichiamo che al momento gran parte del nostro PIL è affidato ai guadagni delle persone di colore. Ormai è sancito che gli immigrati non sono solo disperati in fuga dalle guerre e dalla carestie ma sono addirittura imprenditori che portano risorse al nostro paese.

Dunque Napoli è obbligata ad aprirgli il proprio porto…

A imporglielo è la sua natura di città multietnica e patria di migliaia di emigrati all’estero!

Quali sono come regista le tue aspettative per il futuro?

Razionalmente mi verrebbe da dire nessuna perché, per quanto mi riguarda, ritengo che questo paese non abbia alcun futuro, soprattutto per i giovani: insegno cinematografia all’Accademia delle Belle arti a Napoli e ti dico che da insegnante sono molto preoccupato per il futuro dei miei ragazzi i quali esprimono bellezza e grande intelligenza. Tuttavia l’uomo di cultura che è in me rifugge da questo cinismo e reagisce esprimendo la propria arte perché fino a quando c’è alito nel corpo bisogna resistere e lottare affinché le cose cambino in meglio!

 

Vincenzo Giarritiello

INTERVISTA AL CANTAUTORE NICOLA DRAGOTTO

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A seguire l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Sabato 2 marzo alle ore 21 presso ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE (direttore artistico Vania Fereshetian), a Pozzuoli in via Provinciale Pianura 16, (di fronte la stazione di servizio BA.CO.GAS.), si terrà il concerto del cantautore Nicola Dragotto.

Per l’occasione gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività artistica.

Nicola sono trascorsi quasi due anni dalla pubblicazione del tuo primo disco L’ULTIMA CAUSA. In questo frangente cosa è cambiato in Nicola Dragotto artista?

Più che cambiato è maturato l’approccio verso la musica e un po’ verso il mondo che mi circonda. Penso di aver raggiunto una maggior maturazione e nello stesso tempo serenità nel rapportarmi con le problematiche esistenziali da cui trarre ispirazione e humus per le mie composizioni.

Dopo tanti anni in cui il tuo riferimento artistico è stato Giorgio Gaber – non a caso ti definivi cantattore – ti sei degaberizzato, come ti piace dire, dando spazio a te stesso: un’acquisizione di autostima o una scelta conseguente all’uscita del disco?

Gaber è stato un punto di partenza in quanto, riprendendo la mia strada artistica in età matura, avevo pensato bene di dedicarmi al teatro canzone per riannodare un filo conduttore col mio essere artista. Il degaberizzarmi è legato a un momento di presa di posizione nel volermi sentire cantautore nel senso classico della parola. Però devo dire che anche negli ultimi spettacoli che ho fatto sono riuscito a raggiungere quella che mi sembra la formula vincente: una via di mezzo tra cantautore e teatro canzone. Unisco, infatti, alle mie composizioni musicali anche dei monologhi tratti dai miei precedenti spettacoli e brevi incursioni di poesia con versi di Pasolini perché mai come oggi Pasolini si sta rivelando profetico, quindi mi è sembrato giusto onorare colui che è stato non solo un faro ma sicuramente uno dei maggiori esponenti della cultura italiana di tutti i tempi.

La tua parentesi con il Be Quiet ti ha maturato a livello artistico o dobbiamo considerarla semplicemente una parentesi professionale?

L’esperienza del BE Quiet è stata unica, irripetibile di per sé, perché ritrovarsi in un locale underground, una cantina, partire da là e nel giro di sette anni approdare a un palcoscenico come quello del teatro Bellini, ritengo sia una soddisfazione unica per chi ci ha creduto e per chi ha avuto la forza di andare fino in fondo. Però adesso, pur rimanendo il Be Quiet nel mio cuore, vivo un momento di ricerca artistica personale.

Pubblicamente, anche sui social, non ti fai scrupoli di attaccare in maniera diretta un certo mondo dello spettacolo come ad esempio, hai fatto,all’indomani della serata finale di Sanremo. Sulla tua pagina Facebook hai scritto, cito testuale: “Anche quest’anno è andata. Caro Sanremo, io sono fra quelli che davvero non ti hanno onorato. Lo so, sono un peccatore. Non sono venuto alla messa. Non mi sono confessato sui social, non ho invocato questo o quel vincitore e addirittura non ti giustifico come fenomeno di costume. Non trovo utile criticare i soggetti partecipanti, sia i nuovi che i vecchi colpiti dalla sindrome di Dorian Gray. Quello che sento di criticare è la perdita del coraggio. La bellezza, la forza e la profondità di un testo sono oggetto di ghettizzazione. I mecenati hanno lasciato il posto a miopi ed avidi imprenditori dell’usa e getta. Ci si è dimenticato dei poeti: la voce del popolo, l’incarnazione della identità, dell’appartenenza. Il problema non è emergere, quanto cercare di restare a galla senza diventare uno stronzo. Il vero problema è questo andare avanti tanto per andare mentre tutto si va spegnendo lentamente, un camminare senza senso e chi va controsenso in modo ostinato e contrario, trova la risposta a tutta questa follia imperante, nella sua sola solitudine…”

Io non attacco il sistema di per sé. Per chiarirci, artisticamente credo di essere stato sempre ironico ma moderatamente misurato ed oggetto, finora in positivo, della critica altrui. Quello che non sopporto è l’atteggiamento irriverente di taluni che vivono una subnormalità aculturale definendosi o peggio, venendo definiti da cannibali addetti ai lavori e da spettatori buoi, artisti o addirittura poeti. Per me la poesia è un momento sacro che si fa carne e sangue. Il poeta è un Atlante condannato a portare sulle spalle l’imbarazzante peso della memoria del suo popolo. Credo che oggi ci sia molto edonismo da parte di sedicenti poeti e l’aspetto più triste e preoccupante è che vengono definiti tali anche dalla pletora per lo più incolta di facebucchini, che confonde frasi lanciate troppo spesso ad capocchiam nel mare magnum di internet, con la poesia.

Tu sei consapevole che tenendo questo atteggiamento ti fai nemici nell’ambiente?…

Scusa, di che ambiente parliamo? Se ci riferiamo a quello artistico puro, credo che possano soltanto sposare le mie affermazioni perché non ne faccio una questione di superiorità ma di buongusto, di educazione e di rispetto verso coloro che devono ascoltarti e leggerti e comunque non ho mai pensato di condizionare il mio lavoro e il mio pensiero su ciò che può dire o pensare di me la gente.

Per ora L’ultima causa è stato il tuo unico disco, hai in programma di inciderne un altro?

Se trovassi una produzione volenterosa, disposta ad accogliere le mie divagazioni, ne sarei ben lieto. L’importante da parte mia è riuscire a coltivare sempre le parole giuste anche attraverso l’amore che mi viene contraccambiato per quello che cerco di donare dal mio cuore agli altri.

Nicola quanto incide la presenza della famiglia in questo tuo affrontare a viso aperto il mondo dello spettacolo?

La mia famiglia ha compreso le mie esigenze e mai come in questo momento, quando serve, mi è vicina sostenendomi. Diciamo che è passato il tempo in cui mi si chiedeva, mentre componevo, se i ceci dovessero essere cotti con l’aglio o con la cipolla. Ora la porta la si apre in silenzio e, se sto componendo, la si richiude, rimandando la domanda a data da destinarsi anche rischiando di restare digiuno!

Dallo spettacolo che il prossimo 2 marzo terrai a Pozzuoli, che Dragotto ci dobbiamo aspettare?

Il Dragotto di sempre: spontaneo, naturale, agrodolce. All’occorrenza sono critico, duro, ma anche molto irriverente verso me stesso. Quel che conta è divertirmi divertendo, invitando a riflettere e ridere di noi stessi, inventandomi il giusto registro per non annoiare chi ha deciso di investire su di me un paio di ore della propria vita.

Cosa vorresti che si dicesse di te, artisticamente parlando, quando non ci sarai più?

Ti rispondo alla Bukowski: uno stronzo di meno!

 

Vincenzo Giarritiello

INCONTRO CON LA SCRITTRICE MATILDE IACCARINO

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Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Venerdì 1 febbraio alle ore 17,30 a Villa De Gemmis/Villa Avellino – Via Carlo Rosini, 21 – Pozzuoli – si presenterà il libro ARSENALE DI MEMORIE di Ida Di Ianni e Matilde Iaccarino edito da Volturnia Edizioni. Per l’occasione abbiamo posto alcune domande a Matilde Iaccarino, ripromettendoci quanto prima di fare altrettanto con Ida Di Ianni.

Matilde Iaccarino nasce a Pozzuoli (Na), è giornalista, appassionata di letteratura (ha pubblicato alcune raccolte di poesie e racconti) ed è impegnata da molti anni nella ricerca storica. Si occupa principalmente di storia contemporanea, alternando al lavoro d’archivio quello legato alla storia orale e ai giornali d’epoca. È stata borsista presso prestigiosi istituti di ricerca, come l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e l’Istituto Italiano per gli Studi Storici “Benedetto Croce”; attualmente fa parte della redazione del «Bollettino Flegreo» e insegna italiano e latino presso l’Istituto superiore di Bacoli (Na).

Matilde posso definirti scrittrice di genere?

Scrittrice di genere è una bella definizione ma anche complicata in quanto fa riferimento a quell’area femminista, pseudo femminista o femminile. Io mi definirei “scrittrice di genere non puro”. Mi spiego: in quanto donna porto il mio punto di vista di donna in qualsiasi narrazione, ricerca, intervista che faccio. Tuttavia non mi piace parlare esclusivamente di donne o dei soliti topic femminili perché non mi piace l’idea di donne che parlano di donne. Per capirci meglio, rispetto alle vere scrittrici di genere che si occupano esclusivamente di temi inerenti la donna e la sua condizione, io mi guardo intorno e osservo il mondo in toto, non solo quelle delle donne ma anche degli uomini o il sociale in cui sono impegnata e da cui trassi spunto per la mia precedente raccolta di racconti LA TEORIA DELLA BUONA FORMA, per poi dare la mia interpretazione di donna in maniera obliqua e periferica, cogliendo sfumature che invece a un uomo sfuggirebbero in quanto, secondo me, essendo lo sguardo maschile più d’impatto si focalizza su un punto e non lo abbandona più. Ecco perché non mi definirei una scrittrice di genere.

Preferisci essere definita scrittrice, giornalista o professoressa?

La domanda è complicata in quanto attinente al prisma dell’essere donna. Fare l’insegnate è stata una mia scelta ponderata e non un ripiego. Insegno da diciotto anni e non ho mai pensato di aver sbagliato strada: mi appassiona, mi piace, sono una di quelle che quando si sveglia la mattina non ha paura di annoiarsi. Parallelamente quando scrivo, in qualunque momento, percepisco me stessa, la mia autenticità. Il giornalismo è invece l’aspetto che più ho trascurato nel corso degli anni: è stata una grande passione giovanile che come tutti i grandi amori giovanili sono destinati a finire ma ti lasciano un segno che traccerà il prosieguo della tua vita. Io oggi sono un’insegnante e una scrittrice: né l’una cosa prevale sull’altra né l’una smentisce l’altra.

Se non sbaglio sei anche moglie e madre… Come riesci a integrare tra di loro questi ruoli rispetto alla scrittura non rubando spazi alla famiglia?

Ti ringrazio molto per questa domanda che per una donna è fondamentale visto la pluralità di ruoli che è costretta a coprire. Io dedico alla scrittura tutti i momenti morti della mia vita: porto sempre con me un quadernetto nel quale appunto qualsiasi idea mi venga in mente nel corso della giornata per non perderla e nei momenti “morti” scrivo: sia se sono in piscina in attesa che esca mio figlio; sia la sera dopo che si è addormentata la bambina o ho finito di correggere i compiti; o se sono in attesa alla posta. È in quei momenti che la mia creatività si manifesta e do vita alle mie storie. Lasciami inoltre ringraziare mio marito che in questa attività mi ha sempre sostenuta rispettando le mie esigenze da scrittrice, lasciandomi gli spazi necessari perché possa non solo scrivere ma rivedere come si conviene i miei elaborati.

Che letture prediligi?

Da ragazza ho amato molto i grandi classici. Poi c’è stata una fase in cui mi sono aperta all’ultra moderno, andando a caccia di scrittori misconosciuti leggendo la quarta di copertina. Inoltre sono un’appassionata di Simenon, non solo dei Maigret in quanto mi piacciono i gialli, ma soprattutto dei romanzi psicologici in cui a mio parere lo scrittore belga è un maestro.

C’è uno scrittore che ha influito sul tuo stile di scrittura?

Agli inizi molti sostenevano che avessi una scrittura minimalista, accostandomi a Carver. La cosa simpatica è che io Carver non l’avevo mai letto, l’ho letto poi. Mi è sempre piaciuto scrivere storie brevi, essenziali, non a caso finora non ho scritto un romanzo, ma non ho mai avuto un punto di riferimento. Lo stile me lo sono formata da me; oserei dire che è una cosa naturale dovuta alla mia indole artistica.

Venerdì 1 febbraio a Pozzuoli si presenterà Arsenale di Memorie scritto a quattro mani con Ida Di Ianni. Non voglio entrare nel merito perché, mancando l’altra autrice, non mi sembra corretto parlarne, lo faremo in altra sede insieme a Ida. Ti chiedo solo, che libro dobbiamo aspettarci?

Un libro, totalmente diverso da quelli che ho scritto finora. Prima di tutto perché abbandono la tematica sociale e poi perché è un libro molto intimo, molto femminile, molto personale. È il libro che avrei voluto scrivere per mia madre, fondato sulla memoria come farmaco: il ricordo non fa male ma serve a guarire i vuoti e a lenire quelle ferite che ci procuriamo nel corso della vita. È diviso in due sezioni: la prima si chiama LA BAMBINA AMERICANA curata da Ida; la seconda DI MADRE IN FIGLIA è un dialogo tra me e mia madre scritto dopo la sua scomparsa che spazia dalla fine degli anni settanta fino ai giorni nostri in cui ripercorro le parte fondamentali del nostro rapporto che fu molto difficile e conflittuale. Solo dopo che si decise di pubblicarlo, rivedendolo, mi sono accorta che fu semplicemente quello che è il rapporto di ogni madre e figlia.

Progetti per il futuro?

Sto lavorando alla sceneggiatura di PENSIERI DI CARTA un racconto tratto dalla TEORIA DELLA BUONA FORMA e a un libro sul periodo del bradisismo a Pozzuoli nel 1983.

Fatti una domanda, datti la risposta

Che donna avresti voluto essere?… Quella che sono!

 

VANIA FERESHETIAN, ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE

Da venticinque anni impegnata nel campo dell’associazionismo, Vania Fereshetian è la fondatrice e responsabile dell’associazione culturale ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE con sede a Pozzuoli in Località San Martino.

Vania da quanto tempo esiste “’a puteca ‘e ll’arte”?

Da tre anni anche se sono ben venticinque che mi interesso di associazionismo: con mia sorella fondammo l’associazione Il Filo della Fortuna. Poi lei si ammalò e per diverso tempo sono rimasta ferma, ma alla fine l’amore per l’arte ha prevalso e ho ripreso le mie attività. Nello specifico ‘a pu­teca fa parte di un progetto molto più vasto qual è l’Associazione San Martino che si occupa di tante altre cose. Ci siamo divisi un poco i compiti, io mi interesso di arte, spettacolo e cultura.

Qual è realmente la tua professione?

Sono insegnante elementare, al momento insegno psicomotricità. In campo artistico sono sceneggiatrice e regista.

Come regista cosa hai fatto?

Diverse cose di teatro. Non a caso ho sempre avuto un’associazione con una compagnia teatrale. Oggi abbiamo la possibilità di avere questa bella struttura e il nostro intento è di essere presenti attivamente sul territorio flegreo.

Perché questo “intento” ambizioso, se posso permettermi?

Io credo che la nuova generazione debba crescere nel rispetto della cultura. Attraverso la nostra associazione ci proponiamo di curare specifici aspetti culturali come la tradizione napoletana.

In tre anni di attività cosa avete fatto?

Tanto! Ci siamo molto mossi sul territorio: siamo stati negli ospedali, abbiamo fatto spettacoli per raccolte di beneficenza, siamo stati nei canili. In generale cerchiamo di essere molto attenti e propositivi rispetto alle problematiche che ci circondano. Abbiamo realizzato anche eventi riguardanti appunto la cultura napoletana.

Per essere più precisi, voi vi occupate solo di teatro o spaziate nei vari campi artistici?

Per noi tutto è arte, non solo la scrittura, che io amo, o la pittura ma può esserlo anche il ritaglio del giornale fatto in un certo modo. Secondo me arte è tutto ciò che viene dal cuore e dalla manipolazione mettendosi in gioco con se stessi e con gli altri.

Voi fate anche laboratori?

Sì! Cerchiamo di incentivare i laboratori teatrali e musicali; facciamo propedeutica musicale per i più piccoli per avvicinarli all’arte intesa come crescita dell’anima e quindi crescita interiore. Considera che abbiamo a che fare con bambini “speciali” ai quali questo tipo di attività serve per renderli fantastici più di quanto già non sono.

Sul territorio esattamente che cosa avete fatto?

Per lo più eventi musicali anche se devo ammettere con rammarico che abbiamo qualche difficoltà a “muoverci” nell’area flegrea…

In che senso?

Ho la sensazione che in generale le persone siano restie ad avvicinarsi e ad avvicinare i propri figli a questo tipo di attività, forse perché ne minimizzano il valore rispetto all’andare in palestre o al frequentare una scuola calcio. Ecco noi vorremmo che la gente capisse l’importanza di questo tipo di attività finalizzate allo sviluppo interiore dell’essere.

Avete anche collaborato con le scuole?

Sì, ma purtroppo anche in quel caso non abbiamo avuto dei riscontri entusiasmanti ma non saprei dirti il perché!

Avete una programmazione?

La programmazione la facciamo di volta in volta dato che a me non piace stringermi e operare su una specifica cosa perché programmata a monte su carta. Mi piace invece tener conto delle esigenze del momento e muovermi rispetto a quelle per cercare di soddisfare i bisogni attuali delle persone. Oddio, una programmazione in linea generale l’abbiamo nel senso che già so cosa faremo – laboratori, eventi -, ma spaziando senza restrizioni. I nostri laboratori sono “aperti”, ossia i partecipanti non sono assoggettati a una singola idea su cui lavorare bensì sono liberi di dare spazio alla propria creatività senza vincoli tematici e di altro genere.

La vostra sala può ospitare fino a cento posti a sedere, come spettacoli teatrali cosa avete realizzato?

Per lo più spettacoli legati alla tradizione napoletana: l’ultimo riguardava la “posteggia” a cui hanno aderito tanti artisti napoletani famosi che ebbero la sensibilità di capire quanto fosse importante dare un contributo all’associazione e soprattutto alla causa per cui ci battevamo.

La risposta del pubblico come fu?

Certamente non negativa, anche se non mi sarebbe dispiaciuta qualche presenza in più.

Per l’anno in corso che progetti avete?

Cercare di far sì che i ragazzi si avvicinino alle nostre attività, essendo loro la fonte del domani. Dico questo perché avendo già lavorato in passato con i giovani, soprattutto con gli adolescenti, ho avuto modo di appurare che la vicinanza all’arte li rende migliori; acquisiscono una buona capacità di reazione con il mondo esterno dove purtroppo l’etica e la morale assurgono sempre più a utopie! Rischiando di sembrare immodesta, lasciami dire che molti di quelli che in passato hanno lavorato con noi ancora oggi mi chiamano per ringraziarmi. Alcuni attualmente sono all’accademia a Roma o sono diventati importanti a livello musicale, ma non chiedermi di fare nomi perché per rispetto non li farò mai. Attraverso questa attività ho avuto più di una testimonianza di come l’arte possa risolversi in maniera positiva per il futuro dei giovani. Ovviamente con l’ausilio delle famiglie, senza quello sarebbe difficile se non addirittura impossibile!

 

INTERVISTA AL MAESTRO ZEN VINCENZO CROSIO

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Di seguito la versione integrale dell’intervista a Vincenzo Crosio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it; a margine la successiva puntualizzazione di Vincenzo in un commento su Facebook

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Pozzuoli. Sabato 12 gennaio, per la rassegna “Quattro Chiacchiere Con L’Autore”, presso Lux In Fabula si è svolto l’incontro con il maestro zen Vincenzo Crosio che, presentando il  suo libro IL KOAN DEL RAMO SPEZZATO edito da Aletti Editore dove si affronta il tema dell’ikebana, l’arte giapponese di disporre in un vaso i fiori spezzati, ha discusso in maniera diffusa della filosofia zen e del concetto secondo cui nell’universo nulla è perfetto ma perfettibile, ossia migliorabile.

Per essere più chiaro Vincenzo ha mostrato ai presenti prima una composizione di fiori e foglie colti e disposti da lui stesso nel vaso in modo da formare con le loro estremità una spirale tendente verso l’alto, simbolo della vita in eterna evoluzione; quindi una tazza  di ceramica  giapponese: mostrandone il fondo grezzo, ha spiegato che non si trattava di un errore dell’artigiano bensì di una caratteristica voluta apposta per testimoniare che nell’universo nulla di perfetto; che si parte dal grezzo per ottenere, dopo un lungo processo di raffinazione mediante il lavoro, la tazza e le sue delicate decorazioni.

Poiché tale procedimento di purificazione, secondo lo zen, sarebbe infinito, ecco il motivo della presenza di un piccolo errore in qualsiasi opera si rifaccia a tale filosofia. Ciò ricalca il concetto, sempre cinese, dello yin e dello yang, il nero e il bianco, dove nel nero vi è una goccia di bianco e viceversa a testimonianza che gli opposti non sono mai separati l’uno dall’altro.

A fine serata abbiamo posto alcune domanda al maestro Crosio.

E’ un’anomalia che un occidentale rivesta il ruolo di maestro zen o rientra nella norma?

Rientra nella norma perché l’incontro tra Oriente e Occidente è destinato a verificarsi. In fondo si tratta di capirsi: due più due fa quattro sia in Oriente che in Occidente, come diceva Newton.

Enzo come ti sei avvicinato a questa realtà?

Da giovane ho avuto un’esperienza molto dura, la mia generazione negli anni settanta si è impattata con gli anni di piombo. Mi trovai a Parma e fui letteralmente ospitato, curato ed educato dal monastero zen di Fudenji in quanto ero un samurai sconfitto.

In che senso eri un samurai sconfitto?…

Sono stato un guerriero del movimento del settantasette. Alla fine tutto questo cozzava contro le imperizie, una non conoscenza che lo Zen invece ha formato.

Oggi che attività svolgi?

Sono pensionato. La mia attività era quella di insegnante e sono stato anche rettore e direttore del seminario teologico avendo l’attitudine a quella che definisco la teologia della grazia: io sono un teologo della grazia, spero che gli uomini siano felici!

Quindi il tuo ruolo di maestro zen ti sarà stato di aiuto nel rapporto con gli studenti…

Moltissimo! Non lo dico per vanteria ma capire tutte le dinamiche di una ragazzo, soprattutto quelle di chi viveva nei rioni a rischio, ha significato letteralmente salvare dalla criminalità, dalla droga e dall’alcol tanti giovani. A scuola avevamo una “scuola del samurai” che era molto disciplinata ma nello stesso tempo molto aperta alle affettività. Tutto ciò l’ho sempre considerato come un compito affidatomi da Dio di cui non ne ero consapevole: di fronte al dolore estremo di alcune persone è come se mi fossi gettato nel fuoco insieme a loro per salvarle.

Suggeriresti a chiunque di avvicinarsi all’ikebana?

Si! Ordinare i fiori nel vaso, che sembrerebbe una sciocchezza, introduce a un fatto pratico, ossia le mani devono comporre un vaso di fiori seguendo dei criteri personali ma che ubbidiscono a un gusto che alla fine fa sì che questo gesto semplice produca la bellezza in un salotto, in una cucina, perfino in un bagno. Attraverso l’ikebana possiamo rendere vivibili anche gli spazi più imbarazzanti, a conferma che gli opposti, in questo caso bello e brutto, si compenetrano l’uno nell’altro. Proprio come indicano i simboli dello yin e dello yang!

Secondo alcuni, noi occidentali in virtù del nostro vivere caotico non saremmo portati per le dottrine meditative di tipo orientale. Tu che da occidentale sei assurto al grado di maestro zen ovviamente sconfessi questa teoria…

Assolutamente sì! Ogni popolo ha dentro di sé un cuore zen, ossia generoso, e una delle città occidentali dove si attua in maniera inconsapevole la filosofia zen è Napoli, essendo per natura disposta all’accoglienza e alla generosità verso il prossimo. In qualche modo l’incontro tra Oriente e Occidente è esattamente l’incontro che descrive il mio maestro il quale chiese a un monaco tibetano “scusi ma l’occidente non le ha insegnato niente?”.

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Commento all’articolo di Vincenzo Crosio apparso su Facebook: “Grazie a Vincenzo Giarritiello, una persona colta e molto disponibile…anche se chiamarmi maestro e poi maestro zen è un po’ eccessivo. Ho raggiunto nella ordinazione laica – ripeto laica- il grado di Maestro assistente I, che non è poi così oneroso, anzi. L’unico maestro per me è uno solo, il principio creatore, l’infinita misteriosa genesi ed evoluzione del tutto. Sono solo un praticante e nemmeno così bravo! Come spiego nell’intervista la ‘regola morale’ ,la ‘paramita’ , mi ha forgiato all’attenzione degli altri, questo sì e lo devo ai miei maestri del Monastero Zen di Salsomaggiore che ho avuto l’onore di servire per oltre 20 anni con dedizione. In cambio ne ho ricevuto educazione, nutrimento e sapienza. Mi ha forgiato come uomo, consapevole che esistono delle pratiche e dei doveri, in cui tutti siamo chiamati ad agire. Agire oggi significa aver cura di sé e degli altri, dell’uno e dei molti, con una felice espressione di un famosissimo Sutra , il ‘Sandokai’, la via dell’uno e dei molti. Ecco la via di mezzo è esattamente la via dell’uno e di molti.”

INTERVISTA AL PITTORE CIRO D’ALESSIO

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Di seguito l’intervista integrale al pittore Ciro D’Alessio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it 

Ciro sei napoletano o puteolano?

Napoletano.

Come mai hai lo studio a Pozzuoli?

Pozzuoli è una città tranquilla, vivibile, piena di storia e, per quanto mi riguarda, molto interes­sata alle manifestazioni artistiche per cui quando trovai questo gruppo di amici che esponeva sulle Rampe Causa decisi di unirmi a loro e successivamente aprii questo mio spazio proprio accanto alla sede di Terra di Pozzuoli. (Via Marconi, 3A – nei pressi del Rione Terra)

Esporre sulle Rampe Causa cosa rappresenta per un pittore di professione come te?

Rispetto ad altre esposizioni di questo genere che si fanno a Napoli e in tante altre città, questo è un luogo in cui si sta tra amici. Per cui questa familiarità rende l’esposizione un momento non solo professionale ma di simpatica aggregazione. Oltre ovviamente alla visibilità che ne deriva per chi espone in quanto le rampe, congiungendo la zona alta di Pozzuoli con quella del porto, sono frequentatissime soprattutto nei fine settimana.

Osservando i tuoi dipinti mi sembra di capire che tu ami dipingere con la spatola…

Sì, sono oli applicati a spatola.

Hai dei riferimenti artistici?

No, seguo il mio percorso cercando di ricavarmi un mio spazio nel mondo dell’arte contemporanea. Certo, faccio riferimento sia alla lezione ottocentesca prestando attenzione alla natura, sia a quella novecentesca dove l’arte viene intesa come una forma autonoma, ovvero espressione di un pensiero tramite colori e gesti.

I tuoi quadri sono pieni di luce. Poiché si dice che l’espressione artistica riflette lo stato interiore di chi la manifesta, ciò indicherebbe che sei una persona solare!

Non saprei: la nostra interiorità è complicata per cui a volte le manifestazioni artistiche sono solari ma l’intimità di chi le realizza vive una condizione totalmente diversa che non esterna quel che si è ma ciò che si vorrebbe essere. Se non addirittura qualcosa di molto più profondo che va al di là della personalità descrittiva dell’individuo.

Ogni artista ha qualcosa da comunicare, il tuo messaggio qual è?

Non credo di avere un messaggio specifico da comunicare, diversamente non sarebbe arte ma opera messianica. Personalmente ritengo che l’arte sia la sintesi tra l’universale e il particolare che si esprime in un’immagine; l’incontro tra relativo e assoluto da cui ha origine la vita stessa, in questo caso rappresentata dall’espressione artistica!

Tu dipingi in quanto senti il bisogno naturale di dipingere…

Certo, ma penso che questo valga per tutti essendo l’arte una necessità espressiva.

Quindi il significato delle tue opere lo deleghi all’interpretazione di chi le ammira?

Anche! Per me dipingere è un giocare, un dialogare con l’osservatore: io propongo l’immagine, lui la completa con la sua immaginazione interpretativa.

Volendo accostarti a un grande pittore, alcuni tuoi quadri mi ricordano Van Gogh, Renoir, Mo­net…

Grazie per l’accostamento che mi lusinga molto. Per quanto mi riguarda cerco di fare il mio per­corso individuale, anche se ci sono dei grandi maestri che sono punti di riferimento imprescindibili per chiunque dipinga, ma ognuno deve rilucere di luce propria attraverso un lavoro di ricerca perso­nale, altrimenti non “fai” ma “rifai”, il che è diverso! Sicuramente ciò che accomuna me e tanti altri artisti ai grandi pittori da lei citati è il gusto per la materia intesa come materia pittorica che non si riduce a immagine ma che fuoriesce dalla superficie e sembra avere una vita propria.

Tu dipingi da che eri ragazzo?

Sì! Ho fatto il mio primo quadro a olio a diciassette anni e da allora non ho più smesso.

Hai fatto studi specifici?

No! Presi la licenza classica e successivamente iniziai a studiare filosofia. Inizialmente la pittura rappresen­tava un momento di svago dalla fatica degli studi. Poi quel momento diventò più importan­te dello studio e decisi di farne il mio lavoro.

Auspici per il 2019?

Da poco ho allestito questo studio e spero diventi un punto d’incontro e di riferimento per chi ha interesse per la pittura. Fare parte di Terra di Pozzuoli mi consente di confrontarmi con altri pittori ricevendo sempre nuovi stimoli e idee e, spero, dando a mia volta suggerimenti utili agli altri. Del resto ritengo sia questo il senso dell’associazionismo: crescere insieme!

 

INTERVISTA A SALVATORE VOLPE, COORDINATORE DI “TERRA DI POZZUOLI”

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Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzarontiere.it

Come nasce l’idea di fondare Terra di Pozzuoli?

A Pozzuoli e in generale sul territorio flegreo abbiamo sempre avuto la necessità di esprimere arte in quanto riteniamo fosse necessario dare spazio ai tanti artisti, non solo pittori, che abitano in loco.

Anche perché da sempre Pozzuoli porta la nomea di avere una sua scuola e un suo stato di artisti. Per cui il nostro scopo iniziale, a partire da Nino D’Amore fondatore e Presidente dell’associazione, era quello di raccogliere principalmente artisti di origine flegrea. Seppure in parte, ci siamo riusciti e per il secondo anno consecutivo ci proporremo sul territorio. A riguardo abbiamo già presentato la richiesta al Comune per poter nuovamente usufruire di quelle che ormai riteniamo le “nostre” scale, le Rampe Raffaello Causa, su cui esponiamo in maniera da dare visibilità ai nostri associati.

Dell’associazione fanno parte solo artisti flegrei?

Purtroppo pochi e questo è un nostro grande rammarico! A Pozzuoli vivono tantissimi artisti di valore ma, non so perché, sono restii a partecipare. Alla nostra associazione sono iscritti artisti provenienti da ogni parte di Napoli, dal giuglianese, perfino dalla provincia di Avellino. Non capisco perché invece quelli puteolani e flegrei latitino.

Ha cercato di dare una spiegazione a questa latitanza?

Personalmente in alcuni casi ho riscontrato una sorta di ritrosia ad esporre o perché timidi o perché non si reputassero all’altezza per un confronto pubblico: diciamo mancanza di autostima.

Voi raccogliete solo pittori o anche artisti di altro genere?

Siamo aperti a tutte le forme d’arte. A esempio quella presepiale, la ceramica, la scultura. In particolare l’arte presepiale è legatissima alla cultura napoletana ed è molto bella sia da praticarsi che da vedersi.

Chi ebbe l’idea di “occupare” artisticamente le rampe Causa?

In passato esisteva già un’associazione di artisti flegrei, Arte/Artisti di cui anch’io facevo parte, presieduta da Lino Chiaromonte con cui siamo rimasti amici, che usufruiva di questo spazio per esporre. Entrambi frequentavamo il bar Il Grottino che sta sulle scale. Originariamente Lino aveva un’associazione a Napoli, ma nel momento in cui si trasferì a vivere a Pozzuoli e ci conoscemmo, a entrambi venne l’idea di “adottare” le scale come luogo di esposizione. Successivamente, quando con Nino D’Amore abbiamo fondato Terra di Pozzuoli, ritenemmo giusto proseguire su questa linea in quanto, essendo le Rampe Causa frequentatissime, si prestavano a dare visibilità a coloro che vi avrebbero esposto. Inizialmente all’associazione eravamo cinque o sei iscritti, fino ad arrivare a un massimo di cinquanta. Poiché in seguito il Comune ci ridusse lo spazio espositivo per timore che sulle scale si potessero creare degli assembramenti e qualcuno si potesse fare male, per conseguenza logica si è anche ridotto il numero di iscritti. A tutt’oggi siamo una ventina.

Presumo che la riduzione di spazio avrà ridotto anche i vostri progetti futuri…

Certamente! Le nostre ambizioni organizzative contemplavano tra l’altro delle estemporanee e delle manifestazioni allargate sul territorio, oltre a laboratori di pittura che teniamo in sede. Purtroppo tale limitazione ci ha costretti a rivedere i piani originari, lasciandone molti nel cassetto con il proposito di riprenderli in futuro.

Quali sono i vostri propositi per il 2019?

Fermo restando la possibilità di continuare a usufruire delle Rampe Causa – cosa che sapremo non prima di febbraio perché solo allora il Comune dovrebbe rispondere alla nostra richiesta di riutilizzo delle stesse – le quali per noi hanno un significato affettivo in quanto la gente ha imparato a conoscerci in virtù della nostra presenza sulle Rampe, gli obiettivi per il 2019 contemplano la crescita sia in termini di associati che di organizzazione di eventi; sperando che quest’anno collaborino con noi anche altri artisti flegrei in modo da sfatare l’antipatica voce secondo cui a Pozzuoli è impossibile fare comunità. Se ci riuscissimo, potremmo dire di avere ottenuto un grosso risultato!

Auguri!

WALTER MOLINO E LA SUA WEBAPP PER I CAMPI FLEGREI

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Di seguito in versione inegrale l’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it  a Rosario Walter Molino ideatore della webapp www.totemgo.com


Pozzuoli presso l’ Associazione, Lux In Fabula, nell’ambito della manifestazione “QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE”, si è svolto l’incontro con l’informatico  Rosario Walter Molino ideatore della web-app www.totemgo.com.

TOTEMGO  è un’applicazione multimediale e interattiva finalizzata a far conoscere il territorio flegreo. Al termine dell’ incontro abbiamo intervistato Molino.

Qual è lo scopo di TotemGo?

Poter divulgare le peculiarità della mia città, Pozzuoli, al mondo intero, creando un maggiore senso di consapevolezza di cosa sono i campi flegrei nel complessivo.

Perché l’hai battezzata TotemGo?

Il nome TotemGo deriva dall’unione delle parole “totem” e “go”. Totem perché la App utilizza il paradigma dei totem per descrivere un luogo. Quindi non più in maniera monolitica ma frammentata su più punti grazie all’utilizzo del gps: se voglio descrivere un luogo, non lo descrivo su un’unica pagina bensì frammentato su più punti e geolocalizzato con il gps. L’altra parola, go, che in inglese significa andare , indica la possibilità che la app ti concede di spostarti da un luogo all’altro virtualmente.

Perché creare una web-app anziché la classica app?

La web-app ti garantisce l’universalità, con qualsiasi dispositivo riusciamo a connetterci a TotemGo, per cui c’è la libertà di accesso a qualunque informazione senza dover installare alcune applicazione sul proprio dispositivo.

TotemGo nasce nel 2015, da allora a oggi come si è sviluppato?

Il 31 marzo 2015 sono state create le caratteristiche basilari della app: la creazione dei totem con il gps, le guide, la possibilità di leggere ciò che gli utenti hanno scritto, di fare il download in pdf delle guide e dei totem creati, e la possibilità di creare una sorta di caccia al tesoro con il gps. Il 2016 è stato l’anno della connettività, consentendo agli utenti la possibilità di creare degli eventi legati a una città e con il sistema rss feed far sì che sulla app arrivino i titoli dei quotidiani presenti su internet legati alla città in questione. A esempio per Pozzuoli la connettività permette di consultare i giornali locali online, ovviamente previo consenso da parte loro. Il 2017 è stato l’anno dei geobooks e della realtà aumentata la quale permette che foto e dipinti dell’epoca possono essere sovrapposti a ciò che si sta guardando al momento con lo smartphone, consentendo di appurare le differenze del sito tra ieri e oggi. I geobook è un sistema innovativo che consente di collegare il luogo che si sta guardando ai libri che ne parlano. Se dovessi trovarmi in prossimità del Tempio di Serapide, mi arriveranno i link riguardanti i libri che ne parlano, mediante la connessione con librerie online tipo Città Vulcano messa a punto da Lux In Fabula in cui sono archiviati in forma digitale tutta una serie di volumi che parlano di Pozzuoli e dei Campi Flegrei. Il 2018 è stato l’anno della realtà virtuale, della ricerca e della scrittura vocale. La realtà virtuale permette di inserire foto a 360 gradi, permettendo all’utente di compiere un viaggio virtuale inserendo il proprio smartphone negli occhialini di realtà virtuale. In tal senso la caratteristica di TotemGo è quella di creare in automatico un percorso virtuale servendosi del meccanismo dei totem e del gps.

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Poiché TotemGo consente agli utenti che si registrano di interagire attivamente con la app inserendo foto, creando percorsi, giochi e quant’altro, possiamo paragonarlo a Wikipedia?

Tipo wikipedia in quanto nel nostro caso è il solo utente il gestore delle proprie informazioni, gli altri non possono modificarle; ma possono segnalare se sul portale viene inserito qualcosa di offensivo o inopportuno, permettendo agli amministratori di intervenire per levarlo e bloccare per sempre chi li aveva inseriti.

Progetti per il futuro?

Al momento sono talmente immerso nello sviluppo e propaganda di questo progetto che non ho tempo di pensare ad altro.

A noi non resta che utilizzare l’ app e augurare un forte in bocca al lupo all’ intraprendente informatico/geniale puteolano!

ROSARIA ANTONACCI, IL CORAGGIO DI UNA DONNA

 

Di seguito la versione integrale dell’articolo apparso su comunicaresenzafrontiere in cui si racconta la drammatica vicenda di Rosaria Antonacci.


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La storia di Rosaria Antonacci è quella di una donna che alcuni anni fa, a causa dell’occlusione dell’arteria femorale, ha subito l’amputazione di entrambe le gambe a distanza di due anni l’una dall’altra.

All’età di trentadue anni Rosaria iniziò ad accusare lancinanti dolori al piede sinistro che la costrinsero a continui ricoveri ospedalieri senza che le fosse diagnosticato alcun problema circolatorio. Addirittura ci fu chi attribuì i dolori come conseguenza dei piedi piatti, di cui non era affetta, obbligandola a portare dei plantari costosissimi. Poiché, nonostante i plantari, i dolori non cessavano, Rosaria si rivolse al Professor Bianchi di Pozzuoli il quale escluse l’origine ortopedica del fastidio, suggerendole di fare un ecodoppler:

<<A quella richiesta, feci presente al professore che di ecodoppler ne avevo già fatti tanti, tutti con esito negativo. Lui insistette, dicendo che mi mandava da un collega per approfondire. Fu così che appresi di avere l’arteria femorale completamente occlusa. Ricordo ancora le parole di quel dottore, “Mi spiace signora, ma da oggi la sua vita cambierà”. Piansi per tutto il tragitto dall’ospedale a casa. Io sono fatta così, piango per qualche ora, poi dopo asciugo le lacrime ed inizio a pensare a come risolvere il problema. E così iniziò il mio calvario, il cui esito è purtroppo noto!>>.

A distanza di anni, dopo aver fatto visionare a un medico legale le varie cartelle cliniche di cui è in possesso, s’è sentita rispondere che c’erano gli estremi per avviare un’azione legale contro l’ospedale che tracciò inesorabilmente il suo destino, ma purtroppo i tempo tecnici per farlo sono scaduti:

<<A quel primo intervento ne sono seguiti tanti, circa quaranta, ho smesso di contarli! Ho percorso tutte le strade per salvare la mia gamba, poi mi sono arresa. La cancrena divorava il mio piede e il mio cervello. Pensavo che dopo l’amputazione non sarei più entrata nella stanza fredda, ma non è stato così!>>.

Secondo il medico legale dalle carte si evincerebbero anche delle superficialità negli ultimi interventi chirurgici subiti ai monconi, per cui si potrebbe aprire una controversia legale su questo fronte, ma Rosaria è stanca e diffidente:

<<Aprire un contenzioso? Sono stanca!>>

Ciò che Rosaria non tollera è la discriminazione che ha riscontrato esistere tra il trattamento che ricevono gli amputati ASL rispetto a quelli INAIL , una diversità burocratica

<<A quelli INAIL è concesso di tutto e di più. Lo so perché essendo iscritta in più gruppi social di amputati, quando ci confrontiamo in chat, noto che gli amputati INAIL hanno diversi privilegi che noi amputati ASL invece non abbiamo. Sulla mia pelle sto scoprendo che esistono amputati di serie A e di serie B. Una cosa che non dovrebbe esistere! Io appartengo alla serie B, ci riconosci, siamo quelli seduti in carrozzella che aspettano la maturazione dei tempi burocratici, anche per una modifica di invaso. A tale proposito lasciami ringraziare il Centro Ortopedico Corpora, che fornisce gli ausili per disabili che verso noi invalidi si comporta in maniera più che umana, facendoci spesso anche da autista prelevandoci a casa con i propri mezzi per accompagnarci al laboratorio a misurare la protesi e poi riaccompagnarci nuovamente a casa, in maniera del tutto gratuita. >>

A dispetto degli infiniti problemi derivanti dalla propria disabilità, Rosaria non si è persa d’animo e si è rifatta una vita. Approfittando del tempo libero di cui dispone, ha rispolverato la passione giovanile per la pittura e si è avvicinata alla ceramica, creando un’infinità di oggetti che regala agli amici o tiene per sé in casa. Ha anche creato un b&b, Pozzuoli 100%, a Via Napoli, nell’appartamento dove ha vissuto per 51 anni situato al secondo piano di un palazzo senza ascensore adiacente a quello dove da un anno si è trasferita a vivere dopo l’infarto, sempre a Via Napoli, perché situato al piano terra e dunque molto più comodo per muoversi.

Rosaria la scorsa estate è stata a mare e si è fatta i bagni coprendosi le protesi con delle calze nere autoreggenti di latex:

<<L’estetico per le protesi non è convenzionato e costa troppo per le mie tasche. Per quanto è possibile, la mia disabilità cerco di viverla nel migliore dei modi. Di vita ce ne è una sola. La perdita di entrambe le gambe mi limita, ma non mi impedisce di vivere. Spesso alla domanda, “Cosa fai di bello?”, rispondo “Sono in ricostruzione, mi sto inventando la vita giorno per giorno!”. Gli impedimenti veri nascono qui!>>, dice toccandosi la testa.

Come darle torto?

Nel salutarci, Rosaria mi fa dono di un piccolo corno di ceramica fatto da lei. Guardandola sorridere mentre me lo porge, mi sembra impossibile che quel sorriso luminoso e sincero appartenga a una persona che avrebbe mille ragioni per essere arrabbiata con la vita e invece!?…