UNA FOTO PER JASON

Deserto dell’Arizona, circa 10 miglia a nord della città di Phoenix: è in questo remoto angolo di mondo che, da un paio d’anni, si erano trasferiti, o meglio isolati, Frank Evans e suo figlio Jason.

Frank non amava la gente: voleva, anzi doveva vivere il più possibile in solitudine, lontano dai centri abitati. La ragione (ma anche il suo alibi) per alimentare questa sua antropofobia risiedeva in suo figlio Jason, e nella sua particolare “capacità”.

Quella sera, al tramonto, l’uomo era seduto nel portico della loro rabberciata fattoria a fumare la pipa, mentre il ragazzo scorrazzava felice fra i cactus e le erbacce che infestavano il terreno intorno a casa. Per Jason, però, quel panorama desolato appariva come il più lussureggiante e divertente dei giardini: aveva ormai quasi vent’anni ma, nato con la sindrome di Down, aveva il livello mentale di un ragazzino delle elementari.

“Jason, vieni in casa, è ora di cena” – urlò il padre al figlio, alzandosi in piedi e avviandosi all’interno dell’abitazione. “Si, papà, subito!” – rispose di rimando Jason, mentre con un bastoncino finiva di stuzzicare un formicaio.

Un’ora dopo, Jason e Frank stavano finendo la cena. “Dolce! Dolce! …” – iniziò a scalpitare il giovane, con ancora l’ultimo boccone di carne in bocca. L’uomo lo guardò con indulgenza: si alzò dal tavolo, apri la credenza e si accorse di aver finito le ciambelle che tanto piacevano al ragazzo.

Frank si accigliò per un attimo: “Jason, vuoi una foto?”. Il ragazzo sgranò gli occhi: “Foto! Foto! Foto!” – iniziò a scandire, per tutta risposta, con grande entusiasmo, sobbalzando sulla sedia. Frank aprì un cassetto e ne estrasse il ritaglio di una rivista: illustrava una grossa ciambella perfetta, ricoperta di glassa e cacao caramellato.

Con molta cautela, avvicinò l’immagine a Jason, che adesso appariva molto eccitato, al punto da avere gli occhi spalancati e il fiato corto. “Prendila, Jason…” – sussurrò l’uomo, con un sorriso. Il ragazzo strizzo gli occhi e parve concentrarsi per qualche secondo: improvvisamente, una ciambella, in tutto e per tutto identica a quella dell’illustrazione, comparve sul tavolo da pranzo. Jason aprì gli occhi e, con un fischio di gioia, si avventò sul dolce comparso dal nulla, divorandolo in pochi bocconi concitati, mentre suo padre si affrettava a riporre l’immagine.

Più tardi, mentre Frank e suo figlio già dormivano, sulla vicina interstatale 89, stavano transitando in direzione di Phoenix i coniugi Mary e Donald Stuft, sul loro sferragliante pickup Ford color amaranto. Mary era alla guida (già da alcune ore, in verità) e suo marito dormiva saporitamente con la testa riversata all’indietro sul sedile del passeggero. Di tanto in tanto, il russare dell’uomo sovrastava anche il gorgoglio meccanico del motore Ford, e Mary lo guardava di sottecchi con aria di disapprovazione; erano sposati da quasi quarant’anni e, come ogni buona coppia matura che si rispetti, avevano un egual numero di motivi per amarsi e per detestarsi.

“Don, svegliati… tra meno di mezz’ora saremo arrivat…” – la donna non concluse la frase. Il pickup si arrestò bruscamente con gran stridore di gomme, e Donald si ritrovò appeso alla cintura di sicurezza, che, in trazione per l’improvvisa frenata del mezzo, lo tratteneva dallo spiaccicarsi come un insetto contro il parabrezza.

“MARY!” – gridò, ancora assonnato – “Che diavolo…” – ma anche Donald non terminò la frase. Seguendo lo sguardo di sua moglie si soffermò anch’egli sullo strano oggetto, sospeso a mezz’aria a circa 200 metri avanti, proprio sopra la strada statale. “E quello che diavolo è?” – fu lei a formulare per entrambi la domanda d’obbligo, con entrambe le mani aggrappate al volante. Donald, come ipnotizzato, continuava ad osservare il librarsi sull’asfalto di quel… ma si… sembrava una specie di enorme ferro di cavallo rigonfio, dai riflessi verdognoli!

D’un tratto, quasi come se li avesse percepiti, il “ferro di cavallo volante” (così, in seguito, i coniugi Stuft l’avrebbero descritto ai giornalisti e alle autorità) ruotò agilmente su se stesso e li illuminò con un fortissimo fascio di luce azzurra. I due istintivamente si schermarono gli occhi alzando mani e braccia, e fu un bene, perché un istante dopo il parabrezza implose all’interno del veicolo con una secca detonazione, proiettando milioni di piccoli frammenti sui due occupanti. Donald e Mary gridarono e, contemporaneamente, quell’accecante faro azzurro si spense.

Il deserto attorno a loro ripiombò nella consueta oscurità: i due, ansanti e frastornati, abbassarono lentamente le mani e, mentre i loro occhi si abituavano di nuovo alla tenue luce dei fari,  lo strano veicolo ruotò di nuovo sul proprio asse, questa volta più lentamente e, con eccezionale fluidità e senza il benché minimo rumore, iniziò ad allontanarsi prendendo quota, con una velocità via via crescente, che divenne incredibile: pochi secondi ed era già all’orizzonte, un puntino verde luminoso nel cielo stellato.

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“Ehilà, di casa? C’è nessuno?” – un tale si aggirava ora nel portico della fattoria Evans.

“Chi è lei? Cosa vuole?” – chiese il padrone di casa, facendo capolino dalla porta d’ingresso, restando dietro alla consunta zanzariera. “Sono un giornalista. Mi chiamo Stratton… Robert Stratton, posso farle qualche domanda, signor… ?” – il tale, chiaramente un tipo da città, lo guardava con aria interrogativa.  “Evans, mi chiamo Frank Evans… una domanda riguardo a che?” – chiese l’uomo, con una malcelata punta di irritazione nella voce.

Stratton si tolse il cappello e si ascuigò la fronte – “Accidenti, che caldo fa…”.

“Avrà sentito dell’U.F.O. comparso qui in zona, due settimane fa…” – appoggiò il cappello su una sdraio e dalla tasca posteriore dei calzoni estrasse un quotidiano, lo dispiegò rapidamente a favore di Frank, che poté leggere un titolo a caratteri cubitali “UN UFO CI HA SPARATO ! ”.

“No… non ne so nulla…” – rispose l’uomo. “Ma come? Ne hanno parlato tutti i giornali… quei due sono in TV su tutti i canali; casa loro, a Phoenix, è presa d’assalto da orde di cronisti…”. “Non compro giornali e non abbiamo la TV” – tagliò corto Frank, stizzito – “Se ne vada, per favore. Non posso esserle d’aiuto! Addio, signor Stratton”.

“Mr Evans, la prego… lei deve aver visto o sentito qualcosa… è successo ad un paio di km da qui…”, ma Stratton parlava ad una porta chiusa.

Il giorno dopo, di buon ora, il giornalista si presentò di nuovo alla fattoria degli Evans: Frank era nell’orto, su retro, mentre Jason correva allegramente avanti e indietro, spingendo una carriola vuota.

“Sig. Evans, buongiorno!” – il giornalista si avvicinò cautamente con fare sornione – “Ieri siamo partiti con il piede sbagliato, ma posso rimediare…”. Evans si appoggiò svogliatamente alla vanga mentre Stratton gli porgeva una copia del “National Geographic” dalla quale spuntavano inequivocabilmente alcuni biglietti da 100 dollari. Anche Jason si avvicinò, incuriosito dal nuovo venuto e da ciò che aveva in mano.

“Posso pagare bene… andiamo… mi servono solo informazioni di prima mano su quell’UFO…” – il giornalista assunse un tono di voce mellifluo e un atteggiamento suadente.

“Foto! Foto!” – il ragazzo arrivò di corsa e strappò di mano la rivista al giornalista, che non ebbe il tempo di reagire..

“Jason, nooo!” – urlò Frank, mentre Stratton osservava i suoi dollari volare nella brezza del mattino: chiaramente non erano quelli ad interessare Jason.

Il ragazzo aveva rapidamente aperto a caso la rivista e faceva saettare avidamente gli occhi su quelle fotografie di straordinaria bellezza, il tutto mentre correva zigzagando per sfuggire al padre, che lo inseguiva affannandosi sul filo dell’infarto. La scena aveva un che di grottesco e il giornalista la guardava ammutolito e attonito.

Finalmente Frank riuscì a placcare Jason. Troppo tardi, però: uno splendido esemplare di elefante indiano, con tanto di finimenti color porpora, si era materializzato davanti a loro, facendo strabuzzare gli occhi a Stratton!

“Jason… maledizione!” – l’uomo trascinò il ragazzo verso il giornalista e la casa, prima che l’animale, spaventato e imbizzarrito, li travolgesse. Il grosso pachiderma si mosse verso di loro, ma poi si arrestò, stupito e confuso. Dopo qualche istante di indecisione, girò su stesso e prese a correre in direzione del deserto, barrendo e sollevando nuvole di polvere. I tre esseri umani erano ora vicini, con tre diverse espressioni dipinte sul volto: Frank era rosso di collera, Jason era colmo di gioia e Robert era terreo, e la sua bocca disegnava un cerchio perfetto di incredulità. Il primo a muoversi fu Frank: mentre intimava al figlio di rientrare in casa (che, mestamente, eseguiva), si chinava per raccogliere la rivista, recuperando strada facendo i biglietti da 100 dollari seminati durante la fuga dal suo ragazzo.

“Forse adesso sarò io a doverla pagare, sig. Stratton, affinché lei mantenga il segreto su quanto ha visto qui oggi!” – Frank aveva recuperato la calma, e parlava al giornalista con una punta di rassegnazione nella voce; in una mano i dollari, nell’altra il “National Geographic” aperto sulla pagina che titolava “INDIA: TERRA DI MISTERI”; l’articolo era corredato dalla splendida illustrazione di un elefante elegantemente bardato, identico a quello che, ormai in lontananza, correva verso l’orizzonte infuocato.

Verso sera, il giornalista si presentò di nuovo a casa Evans: solo dopo una lunga doccia calda e diversi whiskey al bar dell’hotel aveva riacquistato la sua abituale lucidità di pensiero, decisamente compromessa da quell’incredibile esperienza. Il padrone della scalcinata fattoria lo stava aspettando: lo accolse con aria stanca e lo fece accomodare su un divano sdrucito, lasciandosi poi cadere su una vicina poltrona che aveva visto tempi migliori. Jason era bocconi sul tappeto al centro della stanza, e stava inscenando una battaglia di soldatini d’ottone.

I due uomini rimasero in silenzio per un paio di minuti, fissando entrambi il giovane che giocava. “Mi spieghi come funziona!” – esordì il giornalista, sempre tenendo gli occhi fissi su Jason.

“Il mio ragazzo…” – Frank aveva le lacrime agli occhi – “se solo fosse sano di mente sarebbe un dio!”. “Sig. Evans… Frank… cos’è successo oggi? Da dove è arrivato quell’elefante? E’ stato Jason a materializzarlo? Come è possibile?” – Robert Stratton esigeva delle risposte.

Frank ruotò lentamente la testa verso di lui: “Non so come funziona… Jason è nato così, con questo potere, e da allora siamo in fuga…”. “In fuga? Perché? E da chi? Il ragazzo ha un dono straordinario e il mondo deve saperlo!”, il giornalista parlava rapidamente, spostando di continuo lo sguardo da Frank a Jason.

“Un dono, dice lei?” – Frank pronunciò quella frase con tono sarcastico e si alzò nel contempo dalla sua poltrona. Si avvicinò con passo stanco ad una credenza, aprì un cassetto e ne trasse un vecchio dizionario illustrato. Lo aprì a caso davanti al giornalista: quest’ultimo avvicinò la testa alla pagina ingiallita, che raffigurava un gladio, un’antica spada romana da combattimento. Frank annui con fare cospiratorio e quindi si voltò verso il ragazzo, sdraiato ai suoi piedi e immerso nel duello fra i suoi soldatini: “Jason, vuoi una spada per i tuoi guerrieri?”.

Sulle prime, il ragazzo sembrò non capire, continuando a giocare. Poi alzò la testa e vide il volume nelle mani del padre: “Foto! Foto!”, scandì ritmicamente mentre scattava in piedi. Frank avvicinò l’immagine a Jason, che la divorò con gli occhi. “Prendila, Jason!” – suggerì Frank.

Una strizzatina d’occhi, ed eccola la: un’affilata spada romana in perfetto stato, come fosse stata appena forgiata da un fabbro d’altri tempi, giaceva sul tappeto!

“Oh, Cristo!” – Stratton scattò in piedi. “Ma com’è possibile?” – si chiese incredulo.

“Questo è il suo potere…” – osservò Frank, che sembrava un vecchio di cento anni – “…il ragazzo riesce a materializzare qualsiasi cosa veda in fotografia, tele-trasportandola chissà da dove, senza limiti di spazio e di tempo… per quel che ne so”.

Jason nel frattempo aveva impugnato il gladio e lo faceva roteare nell’aria: “Bellissima, Jason! Falla vedere da vicino a Robert…”, disse Frank senza entusiasmo, richiudendo il libro e ritornando alla sua poltrona.

“Guarda! Una spada VERA!” – gli occhi di Jason comunicavano gioia allo stato pure. Stratton invece era una maschera di terrore, misto a stupore: il ragazzo aveva bloccato la punta della lama ad un centimetro dalla faccia del giornalista!  “Un dono?” – aggiunse Frank di rimando, guardando il soffitto e sospirando – “diciamo che è una dannazione… non trova Robert?”.

Era mezzanotte inoltrata quando Robert Stratton raggiunse l’hotel dove era alloggiato. Portava un fagotto: all’interno, un gladio originale, dono di Frank Evans. Armeggiò con la serratura della stanza, entrò e si lasciò cadere sul letto. Quel ragazzo aveva un potere straordinario, inconcepibile. E lui, Robert Stratton, sentiva già odore di premio Pulitzer.

Dopo una notte calda e insonne, all’alba il giornalista era ancora diretto dagli Evans. Mentre guidava, l’occhio gli cadde sul sedile del passeggero, sul quale si trovava ancora il giornale che parlava dell’UFO. L’uomo sorrise, pensando che quasi si era dimenticato di quella faccenda, preso com’era dalla nuova storia su cui aveva involontariamente messo le mani.

D’improvviso un’idea si fece strada nella sua mente. Un’idea folle, come il potere di Jason, ma… poteva funzionare! Bloccò l’auto di colpo e rimase per un istante a fissare le prime luci dell’alba, mettendo a punto mentalmente quel progetto pazzesco. Un minuto dopo stava tornando all’hotel: di sicuro avevano un computer collegato ad Internet e ad una stampante, che faceva al caso suo.

Anche gli Evans si erano alzati di buon ora quella mattina. Con l’efficienza del militare che era stato in gioventù, Frank aveva preparato i bagagli, ed ora stava caricando il minivan. L’uomo sapeva che il segreto di suo figlio non era più al sicuro, nonostante tutte le rassicurazioni del giornalista: di Robert Stratton non ci si poteva fidare, ribadì mentalmente a se stesso.

“Dove andiamo papà?” – il ragazzo lo guardava stropicciandosi gli occhi assonnati. “A fare una gita. Ti piacciono quelle montagne laggiù, Jason? E’ lì che siamo diretti.” – disse l’uomo al figlio, in tono gioviale, continuando a caricare i bagagli sulla monovolume.

“Guarda, papà, sta arrivando Robert!” – il giovane indicava il polveroso sterrato che collegava la loro fattoria alla statale, sul quale avanzava sobbalzando un’auto, in una nuvola di polvere. L’auto di Robert Stratton.

“Dannazione!” – imprecò a denti stretti Frank. Chiuse stizzito il portellone del minivan e attese l’arrivo di Stratton sprofondando le mani nelle tasche nei jeans. Non poteva scappare, dato che la via di fuga era la stessa che ora stava rapidamente percorrendo il giornalista. Stratton bloccò l’auto a pochi metri da Frank: “Ciao Jason!”, salutò per primo il ragazzo, con un sorriso cordiale e autentico, prima di gettare un’occhiata a suo padre. Un’occhiata e un breve cenno della testa: significavano “seguimi, che devo parlarti”.

I due uomini si congedarono dal ragazzo ed entrarono in casa.

“Frank, ho avuto un’idea pazzesca” – il giornalista aveva gli occhi arrossati e la barba incolta di chi ha passato la notte a rimurginare; il suo ospite non aveva un aspetto migliore.

“Guardi qua!” – Stratton allungò a Frank un foglio stampato al computer: riportava un articolo relativo ad un avvistamento UFO in Arizona, corredato dalla foto del presunto oggetto volante: una specie di sigaro di metallo dai riflessi verdastri campeggiava all’orizzonte, sulle montagne.

“Questo oggetto volante è stato fotografato proprio qui, a nord di Phoenix, l’anno scorso, da un turista diretto al Gran Canyon. Scommetto che è parente di quello visto due settimane fa dagli Stuft. Voglio che Jason lo materializzi per me… per noi…!” – Stratton parlava accavallando le parole, mentre Frank osservava il foglio meditabondo.

“E’ vero: è un’idea folle. Lasci perdere, noi ce ne andiamo adesso!” – Frank si mosse, restituendo lo stampato al giornalista, avviandosi verso l’uscita. Stratton rimase interdetto: possibile che quell’uomo fosse così ottuso?

“Frank, ma non capisce?” – Stratton lo stava inseguendo. Lo afferrò per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di lui. Adesso Frank lo guardava negli occhi, ma con il suo abituale sguardo spento. “Abbiamo la possibilità di svelare uno dei più grandi misteri dei nostri tempi: gli UFO esistono o sono una colossale montatura del governo?” – il giornalista parlava a pochi centimetri da quel viso inespressivo. Frank si divincolò e si diresse a passo spedito verso la monovolume: “Jason, si va! Saluta Robert!”, fu la sua risposta alla domanda del giornalista.

Stratton, fermo sul portico, proruppe in una risata sardonica. “Frank, tu non hai capito! Questa cosa me la devi, cazzo! E’ il prezzo del mio silenzio, su di te e tuo figlio!”. Frank si bloccò: aveva aperto lo sportello del minivan, e lo richiuse con rabbia. Si voltò verso Stratton, che continuava a squadrarlo con un sorrisetto sghembo. “Tu sei pazzo, Stratton. Ma non capisci? Questa cosa finirà per ucciderci tutti!” – Frank stava urlando sottovoce: non voleva spaventare il figlio, che, a pochi passi, lo guardava con un’espressione curiosa sul viso.

“Fammi questo favore… siamo nel deserto: dirò di aver trovato l’UFO per caso. Io diventerò ricco e famoso, mentre tu e tuo figlio sparirete e ripiomberete nel vostro anonimato”. Frank continuava a ripetersi che Robert Stratton non era affidabile: la stessa vocina nella sua mente, però, gli stava anche sussurrando che non aveva scelta. Sospirò rassegnato.

“Jason!” – chiamò, perentorio – “ho una bella foto per te!”.

Un minuto più tardi, il ragazzo stava strizzando gli occhi: fra le mani, lo stampato di Stratton.

Lo sforzo, questa volta, sembrava evidente: se quello nella foto fosse stato veramente un UFO e se in quel momento si trovasse, diciamo pure, in un’altra galassia, Jason avrebbe avuto la forza di tele-trasportarlo sulla Terra? Stratton cominciava seriamente a dubitarne.

Jason aveva la fronte imperlata di sudore, ma era scosso da brividi di freddo: continuava a tenere gli occhi strizzati e ormai aveva del tutto appallottolato il foglio stampato al computer.

“Adesso basta!” – intimò Frank – “Jason, smettila subito!”.

Il giornalista si guardò deluso la punta dei piedi ed espirò rumorosamente gonfiando le gote: ovvio che il compito non era alla portata delle capacità del ragazzo!

All’improvviso, un tuono sembrò squarciare il cielo: dal nulla si alzò una tremenda folata di vento, come se un Boing 747 stesse atterrando sulla vicina interstatale. Jason si accasciò al suolo, ma suo padre non poté soccorrerlo tempestivamente, perché fu costretto, come anche Robert, a proteggersi gli occhi dalla forza del turbine di polvere e sabbia sollevato dal quel vento fortissimo.

“Jason!” – il gridò di Frank si perse nella tempesta di sabbia, e si precipitò sul figlio sdraiato a terra: Stratton invece cercava di guardare avanti… cosa diavolo stava succedendo?

Altrettanto rapidamente di come era arrivato, il vento cessò, e la polvere tornò lentamente a depositarsi. Nel giro di due minuti, la visione fu di nuovo nitida e Stratton cadde in ginocchio, esterrefatto. Davanti ai suoi occhi c’era l’incredibile: un’enorme astronave, a forma di ferro di cavallo, costruita con una strana lega metallica dai riflessi verde-azzurro, riempiva il campo suo visivo!

“Jason, non so come ma… ce l’hai fatta!” – sussurrò il giornalista, con un filo di voce.

Nel frattempo, Frank aveva rianimato il ragazzo, che, ancora tremante, adesso sorrideva tra le braccia del padre, entrambi ancora accucciati a terra, ed entrambi con gli occhi sull’astronave che torreggiava su di loro a pochi passi. “Mio dio!” – la voce di Frank, impastata dalla sabbia che gli era volata tra i denti, uscì roca e strana anche alle sue stesse orecchie. “Allontanati, Jason!” – e spinse il figlio dietro all’auto di Stratton, intimorito dalla mole di quel veicolo alieno.

Stratton avanzava verso la gigantesca nave spaziale, quasi in trance. “Che fai, Robert? Non ti vorrai avvicinare a quell’affare…” – quello di Frank era quasi un sussurro. “Ti rendi conto Frank?” – ormai la formalità fra i due era stata definitivamente subissata dagli eventi straordinari – “Esiste vita su altri pianeti,… questo è il primo, vero, contatto con una forma di vita aliena, intelligente per giunta… le implicazioni sono impensabili, a tutti i livelli…” – il giornalista parlava soprattutto a se stesso, avanzando a passi incerti, lentamente, con gli occhi sbarrati.

L’attenzione di entrambi fu catturata da un specie di rigonfiamento pulsante, dritto davanti a loro, in un punto al centro dell’incredibile veicolo: emetteva una tenue luce rossa, che aumentava e diminuiva ritmicamente di intensità. Sotto al faro (se era un faro…), alcuni caratteri giallastri sembravano proprio formare una scritta, forse in rilievo. “Cosa c’è scritto la sotto?” – Frank indicava la luce pulsante. Robert lo guardò e poi puntò lo sguardo nella direzione indicata dal dito di Evans, sulla scritta, o quello che era, sotto la luce rossa. “Accidenti… un’incisione o una scritta…” – poi Stratton sorrise malizioso – “Che delusione se ci fosse scritto ‘Made in China’!” – i due uomini risero nervosamente, e tornarono ad aguzzare la vista su quel dettaglio dell’astronave.

Nel frattempo, nessuno badava più a Jason.

Il ragazzo, nascosto dietro l’auto del giornalista osservava attraverso i due finestrini laterali suo padre e il giornalista avanzare a passi lenti verso quell’astronave. Il suo sguardo si abbassò meccanicamente sul sedile del passeggero: c’era il quotidiano dimenticato da Stratton. “Foto…”, sospirò Jason, e, cercando di non fare troppo rumore, aprì lo sportello della berlina. Si intrufolò nell’abitacolo e afferrò il giornale. Lo dispiegò con avidità: dov’erano le sue amate foto? Scartò le prime pagine, che riportavano immagini in bianco e nero di persone che non conosceva e che non gli interessavano. A pagina quattro, una foto a tutta pagina pubblicizzava un villaggio vacanze in Messico: su una spiaggia deserta e bianchissima si stagliava al centro un sole accecante. Jason fu subito rapito da quell’immagine: “Sole…”, sussurrò in estasi, come ipnotizzato.

Frank si voltò verso l’auto del giornalista, in preda ad un sesto senso.  “Jason… che fai per dioooo?” – ma il suo urlo non arrivò mai alle orecchie del ragazzo, che stava già strizzando gli occhi…

Sopra di loro, a 36.000 km di altezza dalla superficie terrestre, un satellite geostazionario meteorologico documentò l’evento, che sarebbe stato catalogato negli anni a venire come il più devastante, quanto inspiegabile, di tutti i tempi. Una gigantesca palla di fuoco si materializzò sopra lo stato dell’Arizona, raggiungendo in una manciata di secondi gli strati più alti dell’atmosfera: si estese in pochi attimi allo Utah, al Colorado, al New Mexico, inghiottendoli con un rigurgito infernale; una protuberanza infuocata, lunga e alta centinaia di km, si dispiegò a ovest e vaporizzò in pochi attimi tutte le cittadine fino alla costa, facendo terra bruciata da Los Angeles a San Diego, per poi, pietosamente, spegnersi nell’oceano.

Ci furono milioni di morti e centinaia di migliaia di dispersi. Tra essi, Frank Evans e suo figlio.

Jason aveva guardato la sua ultima foto.

UNA FOTO PER JASONultima modifica: 2021-02-27T11:18:49+01:00da pharix