Agosto 2017: Jeff Buckley – GRACE (1994)

Grace

 

Data di pubblicazione: 23 agosto 1994
Registrato a: Bearsville Recording Studios (Woodstock)
Produttore: Andy Wallace
Formazione: Jeff Buckley (voce, chitarre, armonium, organo, dulcimer, tabla), Mick Grondahl (basso), Matt Johnson (batteria, percussioni, vibrafono), Michael Tighe (chitarra), Gary Lucas (chitarre), Loris Holland (organo), Misha Masud (tabla), Karl Berger (arrangiamenti archi)

 

Tracklist

 

                        Mojo pin
                        Grace
                        Last goodbye
                        Lilac wine
                        So real
                        Hallelujah
                        Lover, you should’ve come over
                        Corpus Christi carol
                        Eternal life
                        Dream brother

 

 

Una goccia pura in un oceano di rumore
(Bono)

 

29 giugno 1975: un’overdose di eroina e alcool si porterà via Tim Buckley, una delle anime più belle e tormentate del rock americano. Giunse all’Elektra di Jac Holzman come promettente stella, predestinato ad una fama immortale, come quella che travolgerà la vita di Jim Morrison e dei suoi Doors, Iggy Pop e i suoi Stooges, Arthur Lee e i suoi Love… Tim Buckley aveva tutte le carte in regola per poter diventare una grandissima rockstar, tra le più grandi e popolari di sempre: bello, sensibile, tormentato e soprattutto dotato di enorme talento. Purtroppo la fortuna commerciale volterà ben presto le spalle al Nostro, ma non si può dire altrettanto del suo talento, dacché Tim Buckley, tramite l’arte visionaria e cupa dei suoi dischi, è entrato nell’Olimpo dei più grandi di sempre, innovatore e decisamente in anticipo sui tempi. Alcuni suoi dischi sono vere e proprie pietre miliari della storia del rock, del acid folk e della psichedelia. Ma il mal di vivere, unito ad una indefessa e integerrima costanza nel preservare la propria arte dai compromessi, non poteranno Tim Buckley a svettare nelle charts, e i suoi concerti non avevano certo arene stracolme di fans scatenati e groupies pronte a tutto, semmai erano spettacoli molti intimi e densi di dolorosa passione.
Ma Tim aveva un figlio. Un figlio inizialmente non voluto, arrivato quasi per “sbaglio”. Tim aveva sposato Mary Guibert, suo vecchio amore liceale, ma proprio mentre lei aspettava il loro bambino, lui l’abbandona, trasferendosi a New York, cercando di far decollare la sua carriera di musicista. Mary torna dai suoi genitori, e per diverso tempo è combattuta dal pensiero se abortire o meno… Prevarrà la “grazia”, e fu così che Jeff Buckley nascerà il 17 novembre del 1966.
Di padre in figlio, molti penseranno… Ma nei primi anni della sua vita, Jeff Buckley soffrirà particolarmente l’assenza di suo padre, vissuto più come una specie di figura che aleggia nella sua esistenza, più che una presenza costante e punto di riferimento importante. Quindi Jeff cresce con i nonni e il patrigno, e nonostante quest’ultimo non farà mancare le sue attenzioni, il ragazzo non disconoscerà mai le sue vere origini, mantenendo il cognome del suo vero padre.
Si narra che per le feste di Pasqua del 1975, quando Jeff non aveva compiuto ancora nove anni, lui chiese espressamente a sua madre di poter assistere ad un concerto del padre. Contattato telefonicamente, Tim accetta, e permetterà pure che Jeff trascorra con lui le feste. Quando Jeff torna a casa, stringe tra le mani una scatola di fiammiferi sulla quale suo padre a scritto il suo numero di telefono e un invito: “torna a trovarmi questa estate”…
Nella sua adolescenza Jeff invece comincia a nutrire forte passione per la musica, manifestando interesse per il rock dei Led Zeppelin, degli Who, di Jimi Hendrix, dei Pink Floyd, dei Queen. Questo lo portò ad approcciare sempre di più passione per la musica, volendola vivere in primissima persona. Ed è così che, avendo collezionato tutta una serie di esperienze, nel 1990 torna a vivere a New York, si stabilisce con l’amico Gary Lucas, cercando di dar vita ad un gruppo rock. Ma i tentativi falliscono miseramente, e pertanto forse è bene esporsi in prima persona, e non come leader di un gruppo. Una delle primissime, e guarda caso importantissime esperienze formative in tal senso è un concerto tributo per suo padre. Janine Nichols, in una telefonata a Herb Cohen, ecce a dire, riferendosi a Tim: “Lo sai che aveva un figlio? E che ha persino più talento di suo padre?”. E l’interpretazione di Once I was lo pone sulla stessa lunghezza d’onda del suo defunto genitore. Quasi come una sorta di terribile presagio…
Ma la grandezza che cova sotto le ceneri di un mito sfortunato e baciato da un’ispirazione straordinaria, non poteva restare nascosta nell’oblio, ma passata geneticamente nel sangue vivo di un ragazzo dolce e tormentato. E tutta una serie di esibizioni al Sin-é (poi raccolte dapprima in un ep, e poi in seguito allargato in un doppio cd deluxe) dimostrano quanto questo ragazzo fosse dotato di straordinaria passione.
Non c’è bisogno di fare tanto rumore per entrare nella storia. E Jeff nella storia ci è entrato giusto il tempo della pubblicazione di un album, un solo album. Ma che album!
Grace è un disco di straordinaria bellezza, di incantevole bellezza, di pura e semplice bellezza! Basterebbe la rivisitazione tutta personale di Hallelujah di Leonard Cohen, intensa e commovente, forse addirittura più bella dell’originale, tanto da far fatica a pensarla al di fuori di questo nuova versione, ad eternare un album come questo. In Hallelujah emerge il Jeff angelico e misterioso, dolce come un serafino e sfuggente come un’anima in pena. Hallelujah è il canto tormentato e crudo di un giovane pieno di grandi speranze, e legato al destino di un padre poeta e randagio. Un vero e proprio capolavoro di intensità e di magistrale interpretazione. Difficile resistere alla commozione!
Ma Grace è un disco che gronda misticismo discorde e dissacrazione, oscillando “fra metallo e angeli”, innalzando tanto granitici muri di chitarre, quanto poi deliziare con armonie tenui e rarefatte, di una delicatezza unica. Grace è un album tanto rassicurante quanto minaccioso. Grace è un piccolo grande capolavoro del rock d’autore degli anni ’90. Ed è così che i miagolii e gli arpeggi celestiali di Mojo pin finiscono inevitabilmente per deflagrare in un vortice rumoroso e urlato con insana disperazione. È così che la title-track si destreggia armoniosa tra nostalgia e misticismo, sensualità e tormento, alzando il tiro in modo del tutto inaspettato e scontroso. Last goodbye, aperta da un estatico effetto chitarristico, si rivela invece come uno dei brani più immediati di tutto il disco, inondato di archi e visioni, amori perduti e perdute speranze. Inizia poi il turno delle cover, e tocca ad una estatica ed emozionante Lilac wine di Nina Simone, resa vibrante da un’interpretazione di particolare intensità. Segue una So real, echeggiante il sound sporco e claustrofobico dei Sonic Youth, ma denso di melodie cupe e sinuose.
Subito dopo Hallelujah, il disco concede un altro spazio di intenso romanticismo in una bellissima Lover, you should’ve come over, aperta da un organo chiesastico, incrociando sulla sua strada tanto Tim Buckley quanto Edith Piaf. Abbiamo ancora uno struggente momento di misticismo religioso attraverso le atmosfere medievali e monastiche dell’inno religioso Corpus Christi carol, rivisto nel 1933 Benjamin Britten. Eternel life invece colpisce a suoni di feedback impazziti e rumorosi, densi delle lezioni impartite dal grunge che all’epoca dettava legge. Ci si chiede dov’è l’amore, la felicità, la vita, la pace, la liberazione, innalzando muri di rumore e lo spettro della morte e della vita eterna. Chiudono il disco le rifrazioni psichedeliche di Dream brother, dotata di un crescendo vocale impressionante, in una dimensione spirituale, mistica, angelica.
Le soluzioni del disco sono complesse, eppure le canzoni sono tutte immediate; brillano di luce propria, splendendo di puro talento, svettando in una collocazione temporale decisamente oltre il tempo, oltre qualsiasi dimensione, oltre tutto. E forse è proprio per questo che è rimasto come l’unico vero testamento di Jeff Buckley, nonostante avesse già iniziato a lavorare al suo successore niente meno che con Tom Verlaine (My sweetheart the drunk, mai finito, e pubblicato postumo nelle sue forme ancora indefinite e ancora grezze). E non si sa ancora se quella sera del 29 maggio 1997, quando si stava dirigendo, assieme a Keith Foti allo studio di registrazione, fu la Grazia a rapirlo, o un avverso destino. Sta di fatto che lui voleva fare un bagno nel Mississippi, che si calò in acqua vestito, che canticchiò Whole lotta love dei Led Zeppelin, e che un battello che passava da lì creò una specie di onda anomala e un vortice che lo risucchiò giù. Non saranno ritrovate sul suo cadavere, ripescato il 4 giugno, tracce di alcool e droghe. Lui era uno pulito, uno a posto. Lui era l’eco di un angelo cui è bastata una sola opera per poter diffondere la voce della bellezza. Lui era, per dirla con le parole di Bono degli U2 “una goccia pura in un oceano di rumore”. Lui era Jeff Buckley! Lui era il figlio di suo padre!

 

Il cantante era Jeff Buckley, e l’album Grace, e il suono aperta antitesi con i Nirvana. Anche se aveva momenti di aggressione vera, i suoi temi erano la spiritualità, la bellezza e la vulnerabilità. Caplavoro romantico che deve debiti a Bob Dylan e Joni Mitchell, Grace è compiuto e coraggioso, dal falsetto angelico di Jeff alla sua chitarra immacolata
(Sacha Molitorisz)

Agosto 2017: Jeff Buckley – GRACE (1994)ultima modifica: 2017-08-24T07:37:00+02:00da pierrovox

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