Data di pubblicazione: 12 marzo 1967
Registrato a: Specter Studios, Mayfair Studios (New York), T.T.G. Studios (Hollywood)
Produttore: Andy Warhol & Tony Wilson
Formazione: Lou Reed (voce, chitarre), John Cale (viola elettrica, pianoforte, basso, celesta), Sterling Morrison (chitarra, basso, voce), Maureen Tucker (percussioni), Nico (voce)
Lato A
Sunday morning
I'm waiting for the man
Femme fatale
Venus in furs
Run run run
All tomorrow's parties
Lato B
Heroin
There she goes again
I'll be your mirror
The black angel's death song
European son
“I loro temi erano perversione, disperazione e morte”
(da un comunicato stampa della RCA per Rock'n'roll diary di Lou Reed)
Proviamo a fare per un attimo il gioco del “what if”, e pensiamo a cosa sarebbe oggi la storia del rock se non ci fossero stati i Velvet Underground, band importante e tra le più influenti di sempre. E' grazie a loro se prese piede il rock psichedelico di stampo oscuro e pessimista, il decadentismo rock, da cui poi in futuro prenderà i natali la new wave, il raga rock e i prodromi di ciò che poi verrà chiamato punk. Si provi a pensare a quante band e artisti abbiano potuto beneficiare della grande vena artistica suggerita dai ragazzi figli di Andy Warhol. Per certi aspetti, estremizzando il concetto, si può arrivare a dire che i Velvet Underground forse sono stati più grandi e più importanti degli stessi Beatles, che comunque i loro meriti scolpiti nella pietra ce li hanno!
Allora proviamo a fare il gioco: cosa sarebbe il rock senza quel lirismo sfibrante figlio della poesia decadente e della filosofia nichilista? Cosa sarebbe il rock senza quel suono graffiante delle corde di John Cale e la delicata armonia delle sei corde di Reed? Cosa sarebbe il rock senza quella innocenza pericolosa che giaceva tra le nenie narcotiche delle loro visioni e i sogni perversi della loro fisicità estrema? Cosa sarebbe il rock senza queste influenze che ancora continuano imperterrite a bagnare di sacra ispirazione generazioni di musicisti? Avrebbero lo stesso senso parole come avanguardia o tradizione? Avrebbe lo stesso senso parlare di sperimentazione? E possiamo continuare all'infinito! Una cosa è certa: i Velvet Underground hanno contribuito in maniera sostanziale alla formazione della cultura del rock. Citando Lou Reed: “I dischi dei Velvet Underground sono la storia di persone che vi hanno suonato, il documento di una crescita di vita e non solo di musica: fra l'inizio e la fine, ci sono decine di storie e di esperienze”.
Lo scenario della loro formazione è la New York degli anni '60, dove si incrociano un giovane studente ebreo, Lou Reed, stralunato ed egocentrico, con un forte senso di disadattamento e frustrazione, proveniente addirittura da un'esperienza terribile vissuta da ragazzo: quella dell'elettroshock (ne parlerà apertamente in White light/White heat), che segnerà profondamente la sua vita, e il suo compagno di studi Sterling Morrison, con un autentico genio maledetto proveniente dal Galles di nome John Cale, studente di composizione. Questi insieme danno vita ad un gruppo che prenderà diversi nomi, tra i quali Primitives, Warlocks e infine The Velvet Underground, nome ispirato da un libro che parlava di pornografia sadomasochista che casualmente John Cale trovò su un marciapiede della Bowery.
Inizia un percorso di formazione attraverso varie esperienze nei diversi club e di provini registrati, ripercorrendo la tradizione madrigale e la perversione testuale. Testimonianza ne abbiamo nel primo cd del box Peel slowly and see del 1995. Ma fu l'incontro con Andy Warhol, dopo il “disastroso” show al Café Bizzarre nel Greenwich Village, che diede alla band la possibilità di entrare nell'empireo artistico della Grande Mela, attraverso il suo seguito di drag queen, tossicomani, prostitute, attori e attrici, estratti dalle viscere sotterranee di New York. Andy vorrà i Velvet Underground in suo show multimediale intitolato Andy Warhol Up-Tight. Ed è in questo preciso momento che si unirà alla band la percussionista Maureen Tucker, che sostituirà Angus McLise, e soprattutto, su consiglio di Warhol, la cantante e attrice tedesca Nico, che nel suo curriculum poteva vantare un'apparizione nel capolavoro visionario e surreale La dolce vita di Federico Fellini. Tutto questo fu il preludio per il loro esordio vero e proprio.
The Velvet Underground & Nico si rivelerà da subito come qualcosa destinato a rimanere in eterno: una vera opera d'arte a partire dalla celeberrima banana disegnata da Andy Warhol che figurava sulla sua copertina, accompagnata da una “oscena” e ambigua frasetta: “peel slowly and see” (sbuccia dolcemente e vedi), ammiccante di spudorati doppi sensi a sfondo sessuale. E infatti alcune edizioni avevano il particolare dell'adesivo della banana, che poteva quindi essere tranquillamente rimosso per mostrarla al suo interno. Un autentico colpo di genio che andava ad aprire una serie di canzoni destinate a lasciare profonde tracce nella storia del rock, che dal punto di vista squisitamente sonoro si presentavano come un incubo metropolitano, un malsano rituale e depravato che si consuma in un clima raggelante. Chitarre distorte, viola elettrica, ritmica quasi tribale distanziavano il gruppo dal buonismo hippy e lo calavano nella pece del decadentismo più oscuro.
Apre il carillon drogato di Sunday morning, cantato da un femmineo Lou Reed (si dice che il pezzo avrebbe dovuto essere cantato da Nico) in maniera quasi spettrale, a indicare il risveglio la domenica mattina dopo una notte di eccessi e bagordi. Pacificazione e inquietudine camminano di pari passo, saltellando su una ritmica fatta da tamburello e xilofono. Il tema della droga prosegue con la martellante I waiting for the man, dove si sperimenta la tecnica della pura percussività di tutti gli strumenti su un poema da strada dove il problema è come procurarsi dell'eroina ad Harlem. Segue la dolcissima Femme fatale, cantata da Nico, angelo tenebroso e monella perversa, con una profonda eleganza teutonica, fatale ed elusiva. Una carezza sensuale e drammatica di profonda e peccaminosa tenerezza. Il disco prosegue con un altro capolavoro: la Venus in furs ispirata a Lou Reed dal romanzo di Leopold Sacher-Masoch. Una canzone d'amore di uno splendore perverso, che ondeggia spaventoso tra la vita e la morte. Il pezzo è sorretto dalla distorsione della viola elettrica di John Cale e dal suono acido delle chitarre, oltre che da una percussione martellante, quasi a far “scintillare nell'oscurità” quella pelle nera che rende eccitanti gli stivali della Venere in pelliccia. Una visione di gotica e perversa passione, peraltro ripresa su pellicola da Roman Polanski nel suo omonimo film, che non dimentica di citare Lou Reed. Segue la melodia apparentemente più leggera di Run run run, che comunque parla di Union Square, parco di Manhattan, noto per lo spaccio di droga. Chiude il primo lato l'austera atmosfera di All tomorrow's parties, cantata da Nico in una dimensione che anticiperà la sue incursioni da solista nelle tenebre della musica dark.
Il secondo lato si apre con la tossica confessione di Lou Reed di Heroin (“it's my wife, it's my life”), per un mal di vivere messo dichiaratamente a nudo e sviscerato nelle distorsioni sonore del pezzo. Si toccano vertici di depressione e autodistruzione forse mai come ora così messi a nudo! Dopo questa è come se per forza di cose si dovesse cercare un raggio di sole, ed è qui che fa il suo dovere la briosa There she goes again, forse l'unico vero sprazzo di luce in un mare di pece! Si prosegue con la bellissima e delicata I'll be your mirror, cantata da Nico, e si scende nella spettrale The black angel's death song, prima di chiudere nella European son dedicata a Delmore Schwartz a mo' di sberleffo, visto il suo particolare odio verso i testi rock.
Tutto questo suggella un disco immenso e importantissimo per tutte le epoche e culture del rock, anche se all'epoca non fu particolarmente baciato dalla fortuna commerciale. Qui i Velvet Underground gettarono i semi maledetti per una fioritura decadente e mortale che è l'anima spastica di tutta la storia del rock. Proseguiranno la loro esplorazione sonora col successivo White light/White heat senza Nico, mandata via proprio da Lou Reed che in più di un'occasione non mancherà di manifestere il suo egocentrismo spudorato e offuscante, e dopo l'abbandono di John Cale, con l'omonimo e tradizionale Velvet Underground e Loaded, fino a quando Lou Reed non abbandona la nave per dedicarsi alla sua carriera da solista, salvo poi una breve e non molto fortunata reunion nei primi anni '90, durante la quale spesso fecero da spalla agli U2 dello Zoo Tv (i maestri che aprono i concerti dei discepoli!). Se ci si pensa bene la loro parabola è durata relativamente poco, ma i suoi effetti sono talmente duraturi che non si fatica a considerarli eterni! “Penso che sia importante che la gente non si senta sola”, diceva Lou Reed. Ed in qualche modo la loro musica ha riempito quegli spazi di solitudine e di oscurità per un'eredità incredibilmente sempre fiorente!
“Soltanto cento persone acquistarono il primo disco dei Velvet Underground, ma ciascuno di quei cento oggi o è un critico musicale o è un musicista rock”
(Brian Eno)