Novembre 2017: T Bone Burnett – THE CRIMINAL UNDER MY OWN HAT (1992)

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Data di pubblicazione: 1992

Registrato a: Kiva West (Los Angeles), Ocean Way, Sunset Sound Factory (Hollywood), Sound Emporium (Nashville)

Produttore: Bob Neuwirth & T Bone Burnett

Formazione: T Bone Burnett (voce, chitarre), Jerry Douglas (dobro), Edgar Meyer (basso), Van Dyke Parks (organo), Marc Ribot (chitarra), Jim Keltner (batteria), David Jackson (basso), Mark O’Connor (violino, mandolino), Dean Parks (chitarra slide), Jerry Scheff (basso), Herry Stinson (basso), Andrea Zonn (viola), Roy Huskey Jr (basso), Billy Swan (cori)

Tracklist

Over you

Tear this building down

It’s not too late

Humans from earth

Primitives

Criminals

Every little thing

I can explain everything

Any time at all

I can explain everything (Reprise)

The long time now

Kill switch

La musica è stata la via d’accesso alla creatività

(Wim Wenders)

Ci sono musiche che sono fatte per accompagnare immagini in movimento, in un certo senso “cinematiche”, atmosferiche. E ci sono artisti in grado di ambientare con la musica scenari del tutto surreali, e che riescono bene a ricreare intense emozioni associando all’immagine il suono, la melodia, la musica…

Uno di questi è senza dubbio il celebre musicista e cantautore T Bone Burnett, che tra le altre cose si è particolarmente distinto per la sua attività di produttore e supervisore, lavorando con gente del calibro di Elvis Costello, k.d. lang, Robert Plant, Bono, e altri ancora.

La sua musica, talmente evocativa e affascinante, è ricolma delle passioni tipiche del cantautorato americano, ma nello stesso tempo capace di suggerire suggestioni fortissime, applicate da un’intelligenza introspettiva acuta e da un lavoro certosino sui suoni. Ed è così che in questa sede non poteva certo sfuggire l’occasione di segnalare uno dei suoi lavori più importanti, e più maturi: The criminal under my own hat, suo quinto album in studio. L’album si presenta come una sorta di via comunicante tra le luminosità pop del predecessore The talking animals e il suo animo più solitario, che si scandisce attraverso un folk scarno e notturno, cercando un connubio intelligente e funzionale alla ricerca di un sound nello stesso tempo ricco di sfumature e che lasci evocare uno spirito esiziale. La filosofia che quindi lo guida è quella di lasciare che le canzoni splendano di luce propria, senza il bisogno di truccarle eccessivamente, esattamente come lo splendore di una donna acqua e sapone.

In queste canzoni Burnett canta delle sue ossessioni e delle debolezze umane, come la tentazione dell’orgoglio, il tremore della paura, l’avidità che tutto calpesta. Ed è così che si parte con una dylaniana Over you, scarna e bellissima, tutta chitarra e voce, avvalendosi di una piccola base ritmica, per poi immergersi in una dimensione country rock, alzando l’asticella del tiro in Tear this building down, che in qualche modo richiama alla mente certe cose di Johnny Cash. It’s not too late invece dal canto suo si appropria di alcune dolenti melodie beatlesiane, mantenendo un profilo acustico elegante e surreale suggerito dalla slide guitar e dal mandolino. Diverso lo scenario che si prospetta nella spettale Humans from earth (già presente, in una versione più scarna nella colonna sonora di Until the end of the world di Wim Wenders), con ampie sciabolate elettriche date dalla chitarra, e una ritmica quasi tribale. Primitives invece si orienta verso scenari bucolici, con delle struggenti linee di violino ed eleganti tocchi di slide guitar, ed in un certo senso pare aprire inediti scenari che poi seguirà da lì a poco Johnny Cash nelle sue American recordings. Criminals invece estende il suo campo d’azione verso un pop rock di più ampio respiro, ed Every little thing torna a calcare lande desolate degne della più struggente poetica ed espressività dylaniana. Le due schegge di I can explain everything (la prima scarna ed acustica, la seconda elettrica e devastante) invece riscoprono consigli giustizialisti tipici dell’epoca del terrore giacobino verso i politici corrotti, attraverso un pianoforte lennoniano e una melodia che scandisce e afferma. Any time at all invece pare uscire direttamente da Nashville skyline, riprendendo quelle trame sonore che furono di Girl from north country di Bob Dylan con Johnny Cash, per poi mostrare tutta la riflessione cristiana nella sua The long time now, densa e struggente, e chiudere il disco con una Kill switch, che potrebbe tranquillamente rientrare nel repertorio di Neil Young.

In ciascuna di queste note emergono scenari ed immagini in movimento struggenti, ed ognuna di queste canzoni sarebbe un perfetto corredo sonoro per film, anche immaginari, dove la mente apre le porte alla creatività, il sogno fluttua dentro la realtà.

Riflessivo, spesso spiritoso, e che vanta un cast stellare di musicisti raffinati, The criminal under my own hat di T Bone Burnett è quel genere di album da prova notturna, e un piacere raro per ogni appassionato di musica

(Mark Deming)

Novembre 2017: T Bone Burnett – THE CRIMINAL UNDER MY OWN HAT (1992)ultima modifica: 2017-11-30T11:58:00+01:00da pierrovox

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