Data di pubblicazione: 19 maggio 2006
Registrato a: San Francisco
Produttore: Andy Cabic & Thom Monaham
Formazione: Devendra Banhart (voce, chitarra), Nathan Shineywater (voce, chitarra), Kevin Baker (chitarra, ukulele), Andy Cabic (voce, chitarra, basso), Jessica Ivry (violoncello), Shain Carrasco (violoncello), Alissa Anderson (violoncello, flauto), Otto Hauser (batteria, percussioni), Brad Laner (chitarra), Noah Georgeson (chitarra), Gary Held (harmonium), Christof W. Certik (mandolino), Guy Blakeslee (percussioni), Maximilla Lukacs (percussioni), Thom Monaham (percussioni), Farmer Dave Scher (steel guitar, chitarra, tastiere), Alisa Rose (violino), Irene Sazer (violino), Shaw Pong Liu (violino), Dina Maccabee (violino, viola), Rachel Hughes (voce, tastiere)
Tracklist
Been so long
You may me blue
No one word
Idle ties
I know no pardon
Maureen
The porter
Double
Red lantern girls
Won't be me
Down at El Rio
"La nostra musica è un pop
non tanto popolare"
(Devendra Banhart)
Agli inizi degli anni 2000 Andy Cabic diventò una figura di importante riferimento nel panorama del rock indipendente. In particolare aveva dato lustro e sostanza a quello che molti chiamavano "new acoustic movement", solo che le sue armonie non inseguivano la coralità eterea di Simon & Garfunkel come fu per i Kings of Convenience, né tantomeno volevano riproporsi come una minestra riscaldata che attinge a Nick Drake o Tim Buckley, ma in sostanza non ha nulla di nuovo da dire. La sua formula andava su un folk rock arricchito e abbellito di incroci vari, attingendo a tutta una serie di stili e generi che in questo avevano dato linfa al rock indipendente del nuovo millennio.
Ed è per questo che vennero fuori i Vetiver, nati un po' come alter ego di Cabic, ma soprattutto come progetto panteistico e naturalistico di una musica che guardava ad un orizzonte carico di delicatezze e nostalgie. Per questo furono reclutati il talentuoso cantautore Devendra Banhart, la violoncellista Alissa Anderson, il percussionista Otto Hauser, e altri musicisti dotati di grandissime abilità. Il gruppo esordì nel 2004 con un omonimo album, salutato dalla critica con grande favore, ma nello stesso tempo anche un po' schiacciato dalla popolarità di Rejoicing in the hands di Devendra Banhart, che cavalcava lo stesso genere.
Il secondo disco, To find me gone, vedrà la luce due anni più tardi, e si rivelerà come qualcosa di veramente speciale. Rispetto alle asprezze del disco d'esordio, To find me gone ha dalla sua una propensione al coinvolgimento dell'ascoltatore, grazie ad atmosfere languide e notturne, a melodie avvolgenti e soprattutto canzoni bellissime.
L'album si apre con la trasognante Been son long, caratterizzata da un tappeto sonoro imbastito con l'harmonium e tocchi percussivi. L'atmosfera è sognante e a tratti celestiale. You may me blue prosegue con un ritmo incalzante, sul quale la chitarra disegna alcune note fantasiose. La melodia è sommessa, quasi a voler far spazio ai ricami della chitarra acustica, che sostituisce il ritornello con una straordinaria serie di note arpeggiate. No one word invece cambia del tutto l'atmosfera, rivestendosi di un arrangiamento acustico, con tanto di note pizzicate alla chitarra acustica e tenui linee di violino che lo rendono ancora più struggente. Idle ties porta un pizzico di spensieratezza country, facendoci pensare in più punti ai Wilco. Anche I know no pardon è figlia diretta dell'ispirazione del miglior Jeff Tweedy, anche se qui si procede con un country più sognante e meno sbarazzino.
Maureen è un'altra perla di scintillante bellezza, stupenda nella sua acustica nudità, e addolcita da piccoli tocchi di steel guitar. The porter invece ci fa pensare al Devendra Banhart solista e alle sue ballate minimali, pizzicate e appena sussurrate. Double invece ci porta in una dimensione più estatica, eterea, dove le note della chitarra vengono sospese e avvolte da un'atmosfera celestiale, raggiungendo un climax più avvolgente sul finale. Red lantern girls invece, pur non spezzando l'atmosfera sognante del brano precedente, presenta un abito sonoro più legato a certe fascinazioni esotiche, notturne, salvo cambiare radicalmente pelle sul finale, alzando il tiro in una centrifuga di suoni impazziti della chitarra, che rompe ogni equilibrio, per poi scivolare nel silenzio. Won't be mine invece cerca ispirazione dal country rock di scuola Neil Young e si chiude con languido crepuscolo sonoro di Down at El Rio.
A questo disco i Vetiver ne faranno seguire altri tre, ma nessuno di questi riuscirà a ritrovare la migliore ispirazione che ha accompagnato i solchi di To find me gone, che resta un piccolo diamante nel mondo del folk rock indipendente. Un diamante che ha brillato di luce propria!