Giugno 2018: Patti Smith – HORSES (1975)

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Data di pubblicazione: 13 dicembre 1975
Registrato a: Electric Lady Studios (New York)
Produttore: John Cale
Formazione: Patti Smith (voce), Lenny Kaye (chitarre, basso, cori), Ivan Kral (basso, chitarre, cori), Richard Sohl (tastiere), Jay Dee Daugherty (batteria)

 

 

Lato A

 

                            Gloria
                            Redondo beach
                            Birdland
                            Free money

 

Lato B

 

                            Kimberly
                            Break it up
                            Land
                            Elegie

 

 

Jesus died for somebody’s sins but not mine
(Incipit di Gloria)

 

 

È con un verso irriverente e sciagurato (Gesù è morto per i peccati di qualcun’altro, non certo per i miei) e una fotografia emblematica posta in copertina (Patti Smith colta con sguardo fisso nella camera da presa, in abiti maschili, rievocando una celebre fotografia di Frank Sinatra) che si battezza Horses come l’epocale e immortale capolavoro di innovazione che verrà celebrato nei secoli dei secoli…
Sono quei versi iconoclasti e brucianti  e quell’immagine androgina che proietteranno per sempre Patti Smith nell’empireo degli artisti maledetti e benedetti da grande ispirazione, devota passione e innato senso della provocazione pura. Del resto il suo animo “maudit”, pervaso dallo spirito di Jim Morrison, Lou Reed, Arthur Rimbaud, le hanno confezionato il titolo di “sacerdotessa del rock”.
Nativa di Chicago, figlia di una cameriera con ambizioni canterine e un operaio, dopo aver conosciuto la potenza sessuale del rock dei Rolling Stones, si trasferirà a New York a metà anni ’60. Affascinata dalla poesia tanto da scriverne lei stessa, giovane madre, e barcamenandosi nel tentativo di portare avanti una vita dignitosa (lavorerà per diverso tempo come commessa in un negozio di libri, come critica musicale e come drammaturga), sarà proprio nella Grande Mela che Patti Smith scoprirà il suo habitus maledetto, dormendo spesso in metropolitana, per strada, nei parchi, sentendosi come facente parte di una grande comunità. Ma New York le dà comunque la possibilità di venire a contatto con personaggi del calibro di Andy Warhol, Sam Shepard, Lou Reed, Bob Dylan, Tom Verlaine (con cui avrà una relazione). La città era viva, vibrante, eccitante.
Lì ebbe l’occasione di conoscere e stringere amicizia con un giovane chitarrista e commesso di un negozio di dischi, Lanny Kaye (compilatore, tra le altre cose, del celeberrimo box di perle psichedeliche Nuggets), con cui scriverà dapprima una performance intitolata “Rock’n’Rimbaud”, che farà poi praticamente una sorta di trampolino di lancio per ciò che arriverà a breve…
Su suggerimento di Lou Reed, Patti Smith e i suoi sodali si mettono in contatto con Clive Davis, presidente dell’Arista, e iniziano i lavori per quello che diventerà una vera e propria pietra miliare.
L’importanza di Horses sta appunto nell’aver coniugato un nuovo linguaggio nel mondo del rock. Un linguaggio irriverente, un’attitudine convulsa, energica e originale, tanto da anticipare il movimento punk, che da lì in poi non solo predominerà la scena, ma avrà anche il merito (o demerito, chi lo sa?) di spazzare via un’intera generazione.
Sarà appunto la rivisitazione “blasfema” di Gloria dei Them di Van Morrison, dove viene incastonato un nuovo testo poetico, che con dissacrante convinzione sostiene che “i peccati sono solo i suoi!”. Una deflagrazione potente, imponente e “sporca”. Un inno che non si eleva nell’alto dei cieli, ma si sporca con il fango dei peccatori, consci della propria caducità e apre le danze dei cani randagi…
Segue il reggae malinconico, con lo scenario della morte, di Redondo beach. Birdland invece parte in sordina, quasi fingendosi jazz, quando poi ascende vertiginosamente nel dolore e nel disorientamento di Peter Reich. Anche qui lo spettro della morte traccia linee fosche e angosciose. Chiude la prima facciata la vibrante e frenetica cavalcata elettrica di Free money, con Patti Smith che alza il tiro confermandosi come una delle migliori interpreti in senso assoluto.
La seconda facciata si apre con la ballata “new wave” Kimberly, dedicata alla sua sorella più piccola, seguita da Break it up, energico omaggio a Jim Morrison. Land invece racchiude in sé tutta l’essenza del disco: aperta dallo spoken word, il brano attraversa Arthur Rimbaud, per raccontare il tragico scendere all’inferno di Johnny, stuprato e circondato da cavalli davanti a strane avventure. Il pezzo si divide teatralmente in tre parti: 1) Horses, con crescendo isterico e ossessivo; 2) Land of thousand ballds, puro rock sognante; 3) La Mer(de), tra sussurri e tragicità. Chiude la spettrale e luttuosa Elegie, come una sorta di omaggio a Jimi Hendrix.
Dicevamo che Horses inaugurava nuovi linguaggi. Il suo linguaggio è prepotentemente “onnisessuale”, come nella più imponente cultura del rock. Il rock è fisicità, è estasi pura. Il rock’n’roll non ha confini, non ha barriere, non ha vincoli. Con Horses si può dire che nasce il punk e la new wave. Nasce un modo del tutto nuovo che non impedirà comunque a Patti Smith di cercare nuovi dei e nel frattempo omaggiare persino Albino Luciani (Papa Giovanni Paolo I) o di perdersi nell’essenzialità della perfetta letizia della tradizione francescana, senza rinnegare mai sé stessa, e senza lasciarsi ingabbiare da qualunque usurato cliché. Patti Smith ha sfidato ogni convenzione di genere nell’arte, ha regalato il rock’n’roll alle donne e la poesia al rock’n’roll. Patti Smith ha cantato la vita, in tutte le sue forme!

 

Il primo album di Patti Smith mandò il mio cervello in frantumi e riassemblò quei frantumi in una composizione differente. Avevo quindici anni quando lo ascoltai per la prima volta. Per un ragazzino americano della classe media che lo ascolta nel salotto dei genitori, in cuffia così che i genitori a sua volta non possano ascoltare, è un’esperienza di quelle forti
(Michael Stipe)

 

Giugno 2018: Patti Smith – HORSES (1975)ultima modifica: 2018-06-11T08:08:17+02:00da pierrovox

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