Novembre 2018: Brian Eno & David Byrne – MY LIFE IN THE BUSH OF GHOSTS (1981)
Data di pubblicazione: Febbraio 1981
Registrato a: RPM Studios (Los Angeles), Blue Rock Studio, Sigma Sound Studios (New York), Eldorado Recording Studios (Hollywood), Different Fur Studios (San Francisco)
Produttore: Brian Eno & David Byrne
Formazione: David Byrne & Brian Eno (chitarre, basso, sintetizzatori, batteria, percussioni, found object), John Cooksey (batteria), Chris Frantz (batteria), Robert Fripp (Frippertronic), Michael Jones (basso), Dennis Keeley (bodhrán), Bill Laswell (basso), Mingo Lewis (batá, sticks), Prairie Prince (can, basso), José Rossy (congas, agong-gong), Steve Scales (congas, metals), David Van Tieghem (batteria, percussioni), Tim Wright (basso)
Lato A
America is waiting
Mea culpa
Regiment
Help me somebody
The Jezabel spirit
Lato B
Qu’ran
Moonlight in glory
The carrier
A secret life
Come with us
Mountains of needles
“Io non vivo nel passato.
Ho sempre voglia di fare qualcosa di nuovo”
(Brian Eno)
Le strade di Brian Eno e dei Talking Heads si incroceranno nel 1978, quando l’ex Roxy Music, affascinato dal sound metropolitano e psicotico di ’77, incontra David Byrne e compagni, che gli affidano il lavoro in cabina di regia per More songs about buildings and foot. In quell’album l’apporto di Eno è fondamentale, anche se in sostanza lo stile resta pressoché quello del disco precedente, pur accentuando il caos metropolitano dettato da un suono suburbano, selvaggio e fresco. Il connubio però procede col successivo Fear of music, dove però si evidenziano maggiormente degli elementi di assoluta novità, spaziando in un universo sonoro nel quale far confluire tanto la new wave metropolitana dei primi due album, quanto le musicalità etniche di mondi lontani, e ancora così splendidamente “primitivi”. Fear of music è un capolavoro di fusione e intelligenza sonora, ed in un certo senso (come per le altre importanti collaborazioni del genietto inglese) Brian Eno diventa il quinto Talking Heads, considerata la sua particolare influenza nell’arte del gruppo newyorkese.
Tuttavia, proprio mentre si sta mettendo mano alla lavorazione di ciò che diventerà Remain in light, il capolavoro indiscusso dei Talking Heads, Brian Eno e David Byrne si estraniano un po’ dal lavoro con la band madre, e si gettano a capofitto nello studio di una musica che rifletta particolarmente le esigenze di nuove sonorità, per qualcosa di sconvolgente e decisamente diverso da tutto ciò che si sente in giro. In particolare il loro obiettivo è quello di esplorare, senza limiti alcuni, gli universi sonori legati tanto alla musica folk, alla musica elettronica, quanto alla musica etnica, creando una connessione tutta speciale con il mondo dell’ambient, creata appunto dallo stesso Eno, e sul cui concetto tanto stava lavorando per conto suo, tirando fuori gioiellini straordinari come Music for films, Music for airports o il più cantautoriale Before and after science.
Per tutto un anno, e in parallelo con la lavorazione per Remain in light, Brian Eno e David Byrne confezionano un disco straniante e straordinario, anche se, per non intralciare il percorso dei Talking Heads, decideranno di rimandarne la pubblicazione ad un anno dopo quella di Remain in light.
My life in the bush of ghosts parte quindi da questo concetto di fusione, e come orizzonte letterario prende per l’appunto La mia vita nel bosco degli spiriti dello scrittore nigeriano Amos Tutuola, una raccolta di favole con un bambino africano protagonista, che si imbatte in molteplici e svariate forme di vita magica che incontra nel bosco. L’album viene realizzato sovrapponendo la musica composta a delle registrazioni radiofoniche americane e a canzoni folk mediorientali, inglobando nelle registrazioni tanto un predicatore americano quanto un esorcista, canzoni di una cantante libanese (Dunya Yusin), preghiere islamiche, che danno la voce a questa serie di strane canzoni.
Apre il disco il loop elettronico e nervoso di America is waiting, che raccoglie le registrazioni di uno speaker radiofonico, realizzando una musica cosmica, in linea con l’avanguardia tedesca e il dadaismo sonoro. Le percussioni africane di Mea culpa vengono poi filtrate in un delirio elettronico, sposando atmosfere robotiche, e coniugando tanto la cultura etnica tribale con l’occidente tecnologico. Regiment invece viene sorretta da un giro di basso sinuoso e sensuale, una ritmica regolare e serrata, sulla quale si poggia struggente il canto mediorientale, lamentoso e tormentato, estatico e carnale. In Help me somebody si cerca una forma d’arte che sappia unire in matrimonio i suoni della giungla con il pop rock occidentale, ottenendo un funky irresistibile e fuori dal tempo. Più o meno la stessa cosa accade nell’evocativa The Jezabel spirit, esoterica e misteriosa, che chiude il primo lato, richiamando da vicino il funky nero dei Talking Heads.
Il secondo lato si apre con i rumorismi di Qu’ran, che danno forma ad una stralunata preghiera islamica, e si procede con i ticchettii di Moonlight in glory, alternati con rumorismi vari, suoni sospesi, voci registrate che entrano surreali, canti mediorientali, echeggiando un’atmosfera di surreale misticismo. The carrier invece si presenta robotica e computerizzata, come una sorta di soul elettronico degno dei Kraftwerk. Atmosfere ancora più surreali si riscontrano nella cupa A secret life, sulla quale entrano voci campionate e archi sintetici che le conferiscono un’aura da licantropo. Come with us invece si lancia in orizzonti siderali, spostando l’universo sonoro nello spazio, dove il tempo e lo spazio diventano dimensioni relative, e i suoni rimangono sospesi. Chiude il disco lo strumentale ambientale Mountain of needles, dove ormai si fluttua nello spazio, e dove ogni barriera è abolita.
My life in the bush of ghosts è un capolavoro d’avanguardia purissima, dedito alla destrutturazione della realtà che ci circonda, che non segue regole se non quelle che la musica detta, e in pienissima libertà. Un lavoro decisamente unico, che non ha mai avuto eguali nel corso della storia del rock sperimentale.
Non a caso gli stessi Brian Eno e David Byrne si ritroveranno ancora a fare un disco insieme, nel 2008, con Everything that happens will happen today, ma preferiranno un approccio tradizionale, cantautorale, forse perché anche loro stessi son ben consapevoli dell’irripetibilità di un capolavoro simile. E certe gemme è bene che restino solitarie, come i diamanti più preziosi!
“Prendevamo qualsiasi cosa potesse dare fastidio e la buttavamo nel pentolone. È così che siamo usciti con questo gruppo, pensavamo che la musica non fosse nient’altro che rumore organizzato. Puoi prendere di tutto – suoni della strada, noi che stiamo parlando, quello che vuoi – e renderlo musica organizzandolo“.
(Hank Schoklee)