Dicembre 2018: Lou Reed – BERLIN (1973)

Berlin

 

Data di pubblicazione: Luglio 1973
Registrato a: Morgan Studios (Londra), Record Plant Studios (New York)
Produttore: Bob Ezrin
Formazione: Lou Reed (voce, chitarra acustica), Bob Ezrin (pianoforte, mellotron), Michael Brecker (sassofono tenore), Randy Brecker (tromba), Jack Bruce (basso), Anysley Dunbar (batteria), Steve Hunter (chitarra elettrica), Tony Levin (basso), Allan Macmillan (piano), Gene Martynec (chitarra acustica, sintetizzatori, arrangiamenti vocali), Jon Pierson (trombone basso), Dick Wagner (chitarra elettrica, cori), Blue Weaver (piano), Barrie James Wilson (batteria), Steve Winwood (organo, harmonium), Steve Hyden, Elizabeth March (cori)

 

Lato A

 

                        Berlin
                        Lady Day
                        Men of good fortune
                        Caroline says I
                        How do you think it feels
                        Oh, Jim
 

Lato B

 

                        Caroline says II
                        The kids
                        The bed
                        Sad song
 

Un film per le orecchie
(Bob Ezrin)

 

Terminata l’avventura con i Velvet Underground, Lou Reed si trova nella situazione di ricominciare tutto daccapo. I Velvet si erano consumati soprattutto a causa del suo egocentrismo, che nel frattempo aveva mietuto vittime, allontanando dapprima Nico, e poi John Cale, e infine lasciando la band nelle sole mani di Doug Yule, che aveva dato alle stampe a nome della band lo scialbo Squeeze, passato alla storia come l’aborto discografico tra i più eclatanti della storia. Lou Reed, si diceva, si trovava in una situazione particolarmente confusa, difficile, dettata dai alcuni problemi economici, e soprattutto dalla dipendenza dalle droghe, che lo avevano reso particolarmente irritabile, e a tratti anche violento. Mettiamoci anche che prova ad avviare una carriera da solista, e mentre le cose per John Cale nel frattempo si erano rimesse a posto, tanto che aveva ricominciato a pubblicare grandissimi dischi, Lou Reed da alle stampe un omonimo album decisamente deludente, senza tracce di urgenza espressiva, né tantomeno identità, caratteristiche che avevano caratterizzato particolarmente il suo genio nel percorso dei Velvet Underground. Due quindi erano le strade possibili per lui: o prendere atto di un esaurimento della vena creativa, oppure tentare di mettersi nuovamente in gioco. Ovviamente Lou Reed sceglie la seconda opzione, e l’incontro con David Bowie sarà per lui determinante, non solo per rilanciare la carriera, ma per ritrovare quella giusta linfa vitale che pareva smarrita. E lavorando serratamente sulle tendenze glam del momento, e cercando un approccio pop, ecco che giunge l’ispirazione per Transformer, album che seppe riavvolgere in un percorso artistico evoluto ed immediato tanto gli anni della Factory ed Andy Warhol, quanto tutte quelle teorie sull’identità sessuale, qui vissuta con particolare senso del dubbio. Transformer è pieno di bellissime canzoni, alcune celeberrime, come la stupenda innodia triste di Perfect day, l’r&b maudit di Walk on the wild side, l’arguto rock urbano di Vicious, o la sublime ballata Satellite of love (col tempo ripresa in compagnia degli U2, che ne fecero un punto fisso nei loro spettacoli dello Zoo Tv, in duetto telematico col suo ideatore). Ma il Lou Reed di Transformer rischiava troppo di diventare la controparte di Ziggy Stardust, ed ecco che immediatamente Reed pensa che è tempo di tornare ad assecondare le proprie ispirazioni. Così come seguito di Transformer non si pensa ad un album gemello, ma a quello che si potrebbe considerare un “film sonoro”, con un luogo metaforico ben definito: la Berlino divisa dal muro. Il disco quindi non dovrà presentarsi come una sorta di raccolta di nuove hit da lanciare per le classifiche, ma un album maturo e complesso, una sorta di concept drammatico e drammaturgico. Alla bisogna viene chiamato Bob Ezrin (che verrà riconvocato dai Pink Floyd per The wall), e l’idea di base è quella di raccontare le vicende di due tossici americani perduti a Berlino.
Il disco si apre con una serie di registrazioni sovrapposte, in uno stato di cacofonia, da cui emerge un piano in stile jazz-swing, con Lou Reed che introduce il tema quasi sottovoce, conducendoci man mano all’esplosione degli accordi secchi che aprono Lady Day, indimenticabile ritratto sonoro di Billie Holiday. Nonostante alcuni tratti enfatici e una cupezza di fondo, il brano si muove con suadente grazia. Man of good fortune segue proponendo una amara riflessione sulla condizione umana, e su come la ricchezza e la povertà determinino il destino di un uomo. Si giunge a Caroline says I, “germanic queen”, dove attraverso le parole della protagonista, si possono scorgere le particolari conflittualità che Lou Reed ha potuto vivere con alcune importanti figure femminili nella sua vita. Segue How do you think it feels, nella quale riaffiorano forse i ricordi dell’elettroshock (già rimembrati in White light/White heat), il non sentirsi normale, attraverso una serie di domande retoriche, dalle quali si sa già di non ottenere alcuna risposta. Oh Jim prosegue il percorso di autoanalisi, e di come tutto debba in qualche modo andar a finire male.
Il secondo lato si apre con Caroline says II, che si dispiega con un delicato arpeggio, atmosfere celestiali, ed echi. Giunge la straziante The kids, contraddistinta dal pianto disperato dei bambini, che soffrono la condizione persa dei propri familiari. A Caroline vengono portati via i bambini dai servizi sociali, e ai piccoli non resta che piangere. Si narra che nella registrazione di questo brano, a Lou Reed e a Bob Ezrin venne l’idea di dire ad un bambino in particolare che gli era morto il padre, per poter registrare in presa diretta il suo pianto, perché risultasse quanto più credibile. Ed è così che a Caroline non resta che togliersi la vita, tagliandosi le vene, nel racconto macabro della stralunata The bed. Lou Reed racconta l’insano gesto avvolgendosi in un’atmosfera sognante e spettrale, immedesimandosi in Jim, che riporta alla memoria tutti i momenti belli del passato vissuti insieme. Sad song è il commiato finale, che dimena in spirali orchestrali e bordate elettriche che salgono enfatiche ed epiche. Questo chiude la tragedia, e sulla storia cala il sipario.
Berlin è il capolavoro vero del Lou Reed solista, che non voleva essere un popstar, ma continuare ad essere un artista. E Lou Reed di Berlin è un osservatore attento della personalità umana, un lirista severo, e un attento cesellatore di ogni suono. Purtroppo la critica si mostrerà sulle prime disattenta, e qualcuno addirittura arriverà persino a stroncare il disco (Rolling Stone dirà che Berlin altro non era che “la fine di una promettente carriera”), salvo poi ricredersi e assegnargli i giusti tributi. Lou Reed però non incassa, e da allora in poi tratterà i critici musicali come una serie di stronzi da mettere a disagio e prendere a bersaglio.
Dopo Berlin la carriera di Lou Reed ha avuto diverse altre personalità messe in campo, alcune formidabili (si pensi al “gemello” New York, pubblicato a fine anni ’80, o a Magic and loss), altre addirittura folli e disorientanti (ancora ci si chiede cosa abbia portato Lou Reed ad incidere a pubblicare un disco come Metal machine music, o anche alla snaturata collaborazione con i Metallica per Lulu), altre meno a fuoco, ma certo è che questo artista, in ciascuna di queste maschere indossate, ha lasciato un tratto ben distinto della sua grande personalità. E nonostante il 27 ottobre 2013 Lou Reed ci abbia lasciato, la sua eredità, tra pensiero ed espressione, resterà immutata, magari brancolando ancora “dalla parte sbagliata”!

 

Lou Reed è la persona che ha dato dignità, poesia e una sfumatura di rock’n’roll all’eroina, alle anfetamine, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’imbranataggine e al suicidio
(Lester Bangs)

Dicembre 2018: Lou Reed – BERLIN (1973)ultima modifica: 2018-12-03T12:06:08+01:00da pierrovox

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