Febbraio 2019: The Smiths – THE QUEEN IS DEAD (1986)

The queen is dead

 

Data di pubblicazione: 16 giugno 1986
Registrato a: Manchester
Produttore: Morrissey, Johnny Marr & Stephen Street
Formazione: Morrissey (voce), Johnny Marr (chitarre, harmonium, sintetizzatore), Andy Rourke (basso), Mike Joyce (batteria)

 

Lato A

 

                        The queen is dead
                        Frankly, Mr. Shankly
                        I know it’s over
                        Never had no one ever
                        Cemetry Gates

 

Lato B

 

                        Bigmouth strikes again
                        The boy with the thorn in his side
                        Vicar in a tutu
                        There is a light that never goes out
                        Some girls are bigger than others

 

 

Stimiamo molto la stampa. Scrivere per una rivista
è molto duro, specialmente quando c’è così poca
buona musica in giro. Eccetto gli Smiths”
(Morrissey)

 

Si dice che abbiano salvato il pop, e che gli abbiano ridato linfa e vitalità, soprattutto in un’epoca, come quella degli anni ’80, in cui la plastificazione era all’ordine del giorno, negli stili di vita, nel cibo che si mangiava, nelle tv commerciali che prendevano il sopravvento praticamente ovunque, nel consumismo spacciato per stile di vita, e soprattutto nella musica, in cui si stava perdendo qualsiasi idealismo, e l’estetica perdeva sempre più senso dietro alla vuota rappresentazione di illusioni senza meta.
Gli Smiths al contrario aprivano orizzonti inimmaginabili, tra letture, culture, rimandi ad epoche lontane, battaglie, dolore e gioia tutto condensato in quello che spesso si definisce “una canzonetta”. Gli Smiths conducevano in vie del tutto nuove generazioni di giovani e adolescenti attraverso le vie vergini del pop, e attraverso una fascinazione letteraria che spesso non era patrimonio del pop falsificabile da classifica. In questo sono stati dei portabandiera idealisti e nello stesso tempo cinici di una musica che rinasceva dopo l’epopea del punk e che si riagganciava ad un genere vicino al cuore degli ascoltatori. Non a caso Grant Cunliffe degli Here & Now sostenne che gli Smiths era una specie di “Hollies usciti dal punk”. Dolcezza e asperità per un connubio fatto di estremi che ti toccano e amoreggiano tra di loro.
Lo scenario è quello di Manchester dei primi anni ’80, ancora infestato dai fantasmi di Ian Curtis e dei Joy Division, e qui si incontrano due giovanotti: il primo è un giornalista e critico musicale dal nome di John Maher (ben presto cambierà il suo nome in Johnny Marr per evitare confusioni con l’omonimo batterista dei Buzzcocks) e Steven Patrick Morrissey.
Morrissey, “ribelle in pantofole”, come lui stesso si è autodefinito, ha origini irlandesi, ed è un giovane ossessionato dalla letteratura, con una passione smodata verso Oscar Wilde. Johnny Marr dal canto suo è anch’esso figlio di immigrati irlandesi, e col tempo ha nutrito una forte passione per la musica rock, con particolare interesse per fenomeni antichi (Keith Richards) e nuovi (New York Dolls), applicando nel suo stile tutta una serie di insegnamenti presi da vari chitarristi, da Marc Bolan a Neil Young fino a Roger McGuinn, da cui prenderà il particolare jingle-jangle che tanto caratterizzarà il suono degli Smiths. Insieme decidono di mettere su un gruppo, scegliendo un nome tanto comune quanto provocatorio proprio verso tutta una serie di gruppi nati dalla new wave e che stavano spopolando nel synth-pop, dai Duran Duran agli Spandau Ballet.
Riunita la band, muovono i primi passi tra manciate di singoli brillanti (poi raccolta nell’indimenticabile Hatful of hollow nel 1984, che conteneva anche la carismatica e turgida How soon is now, poi rivista dalla band alternative Love Spit Love e adottata come sigla della popolare serie Tv Streghe), e due album eccellenti come l’omonimo esordio e Meat is muder, giunge il capolavoro definitivo nel difficile terzo album The queen is dead, iconoclasta sin dal titolo, e raffigurante in copertina un agonizzante Alain Delon.
In quest’album l’eccellenza dei toni che avevano caratterizzato le prove precedenti si fa grandezza tangibile: arpeggi stratificati e morbidi di Marr e cascate di parole intonate da Morrissey, e un tono di irriverenza sarcastica (addirittura il disco avrebbe dovuto chiamarsi Margaret on the guillottine, con tanto di stoccata alla Thatcher) che prende l’avvio su delle melodie ariose, alle volte dure alle volte dolci.
L’album si apre con una title-track pulsante e ariosa, serrata nella ritmica, fantasiosa nelle geometrie disegnate dalla chitarra di Marr e rifacentesi apertamente al romanzo di Hubert Selby, Last exit to Brooklyn. Frankly, Mr. Shankly zampilla gocce di cabaret e spensieratezza, quasi facendo il verso a Frank Sinatra. I know it’s over è una sorta di soul vellutato intriso di malinconica dolcezza sul tema della fine di un amore. Segue la gemella Never had no one over, mentre il folkabilly di Cemetry Gates, inaspettato e sorprendente nella sua “allegra decadenza”, con tanto di citazione di Oscar Wilde, chiude il primo lato.
Apre il secondo lato una vivace Big mouth strikes again, facendo ponte con la struggente e bellissima The boy with the thorn in his side. Vicar in a tutu ha ascendenze country e si prende gioco della Chiesa d’Inghilterra, e There is a light  that never goes out si incastona tra una melodia elegante e una specie di sonetto sognante di altri tempi. Some girls are better than others chiude l’album ammiccando all’indie pop di altri luoghi, in particolare echeggiando i Go-Betweens, chiudendo un disco splendido e intelligente, dove da una parte si deridevano tutti i grandi ideali della cultura britannica e del suo corredo, dalla Patria alla religione, dalla rivoluzione sessuale alla musica stessa, dall’altra riuscì a ben sintetizzare tutta l’arte del gruppo di Manchester, che si fece ufficialmente portatore di un pop nuovo ed intelligente, che riusciva a riscuotere consensi senza il particolare bisogno di ruffianarsi.
La band durerà purtroppo il tempo di un solo altro album, e le varie tensioni interne la porteranno allo scioglimento nel 1987, con degli strascichi legali che li porteranno nove anni più tardi addirittura in tribunale. Nel frattempo Morrissey intraprenderà una fruttuosa e molto interessante carriera da solista, con album di eccellente valore. Johnny Marr invece lavorerà da comprimario per diversi artisti, da Billy Bragg ai Talking Heads, dai Pet Shop Boys agli Oasis, ecc… fino a pubblicare anch’esso uno straordinario disco da solista nel 2013, The messenger, echeggiante i giorni migliori dell’epopea di Madchester.
Gli Smiths quindi sono durati relativamente poco, ma quel che hanno rappresentato per il pop (e la loro lezione sarà presto raccolta e portata a buon frutto dai Blur negli anni ’90) è qualcosa di così importante da continuare ancora ad influenzare generazioni intere di musicisti e critici, con charme e perfidia.

 

Lo sapevo, l’ho sempre saputo che gli Smiths avrebbero salvato l’industria musicale indipendente della Gran Bretagna”
(Tony Wilson)

 

Febbraio 2019: The Smiths – THE QUEEN IS DEAD (1986)ultima modifica: 2019-02-07T12:31:48+01:00da pierrovox

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